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Autore: taemotional    26/08/2012    1 recensioni
{2Min} + accenni JongKey
"Di solito non frequentava posti del genere, ma quel giorno la sua mente aveva deciso di impelagarsi con vecchi ricordi e il corpo aveva agito di conseguenza, portandolo in quel luogo. Nel suo caso, una risposta così repentina da parte del corpo non era una novità. Da sempre era abituato a pensare, a riflettere e a concentrarsi. Altrimenti bastava una svista, un calcolo sbagliato e il corpo sarebbe finito contro la sbarra orizzontale - posta a quasi due metri d’altezza - facendogli perdere la gara. Ogni fibra, muscolo o tendine del corpo doveva obbedire alla mente, non c’erano possibili alternative."
Genere: Angst, Comico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Minho, Quasi tutti, Taemin
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Prefazione: Voglio ringraziare alcune persone che sono state fondamentali per la stesura di questa fic *w* Innanzitutto Rory! Senza di te sarei annegata nei miei stupidi dubbi esistenziali (?) e avrei buttato la fic nella famosa cartella degli “epic fail” x°D Grazie mille per il supporto ;_; E spero di far fruttare la tua idea sulla JongTae presto +___+ Poi... Vittoria, Koko,Aliona e la mia sister Mona! Grazie per averla letta anche voi passo dopo passo e per avermi spinto a continuarla ^^ (Aliona, ho usato una tua frase alla fine, spero me lo concederai :D) Infine grazie anche Gloria! Ahah eh sì! Sentirti dire ogni volta che la volevi leggere mi ha fatto davvero piacere! Spero che apprezzerai ^o^ (siamo proprio fissate!) Infine, un grazie a chi leggerà e commenterà una volta postata! E ora, buona lettura!!

NB: Sebbene la storia si svolga a Seoul, non ho usato il corretto modo coreano di relazionarsi. Quindi niente uso di onorifici e i personaggi si rivolgono tra di loro con il nome proprio.

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« Ti prego, continua a vibrare nel mio cuore,
Finché non diviene una eco nella mia vita, e infine sfocia nella voce.
Appaiono desideri, uno per uno.
Siamo diventate due persone,
Quando in principio eravamo una. »

-KEEPING LOVE AGAIN-

 
Sebbene fosse l’inizio di marzo, e la primavera era ormai alle porte, Choi Minho si era dovuto infilare la giacca prima di uscire dal locale.
Di solito non frequentava posti del genere, ma quel giorno la sua mente aveva deciso di impelagarsi con vecchi ricordi e il corpo aveva agito di conseguenza, portandolo in quel luogo. Nel suo caso, una risposta così repentina da parte del corpo non era una novità. Da sempre era abituato a pensare, a riflettere e a concentrarsi. Altrimenti bastava una svista, un calcolo sbagliato e il corpo sarebbe finito contro la sbarra orizzontale - posta a quasi due metri d’altezza - facendogli perdere la gara. Ogni fibra, muscolo o tendine del corpo doveva obbedire alla mente, non c’erano possibili alternative.
Uscito all’aria pungente di marzo, si era appoggiato al muro sul retro del locale e si era acceso una sigaretta. Ma anche il salto in alto faceva ormai parte di un passato che non può tornare. Sospirò inspirando una prima boccata.
Quella sera, dunque, la mente lo aveva portato dentro al locale. Niente di anormale, ma chissà cosa si aspettava di trovare.
Aveva guardato ogni singola figura in quel luogo, scrutato invano ogni possibile angolo o anfratto, e poi era uscito amareggiato. Cosa mi aspettavo di trovare dopo due anni? Lei?
Appoggiato al muro del retro, si era ritrovato a sbuffare e a maledire la sua mente per quel ritorno al passato. Lei gli aveva chiaramente detto che si sarebbe trasferita in Giappone per inseguire il suo sogno. Che sì, avrebbe esaudito quel suo ultimo desiderio ma che poi sarebbe scomparsa per sempre. Inspirò nervosamente una boccata di fumo. Non la doveva più cercare, e oramai non si vedevano più da due anni. Non c’era bisogno di contare i giorni, erano due anni precisi, senza ombra di dubbio. Perché il giorno dopo sarebbe stato il compleanno della loro bambina.  
“Oggi è piena la luna?”
Una voce lo fece sobbalzare e si voltò alle proprie spalle: un ragazzino dai capelli rossi teneva il naso all’insù verso il nero del cielo. 
“Come...?”
“No, dico... oggi è piena la luna?” ripeté la domanda tranquillamente. Minho spalancò la bocca per dirgli che non gliene fregava proprio nulla della luna in quel momento ma rimase zitto e buttò fuori il fumo con forza. Quindi alzò il viso pure lui. Dopo aver dato un’occhiata più o meno attenta, aggrottò le sopracciglia. Non c’era nessuna luna, o almeno non si riusciva a intravedere da quel punto. Stava per dirlo ma l’altro fu più veloce.
“Devi proprio fumare qui?” chiese con un tono acido portandosi la lattina di birra alle labbra, “Mi dai fastidio”
“Hey!” scattò Minho staccandosi dal muro ed ergendosi nei suoi 185 cm di altezza, “Senti un po’, pel di carota, siamo all’aperto e io faccio quello che voglio”
Il ragazzo volse il capo e gli lanciò un’occhiata truce. “Non nel punto in cui mi prendo una pausa dal lavoro”
Minho scoppiò a ridere, “Ma quanti anni hai per poter lavorare qui?”
“Diciotto” rispose tranquillamente l’altro, tornando ad occuparsi della propria birra.
“Il tuo capo lo sa? Guarda che non puoi lavorare in un posto simile se...”
“Il capo è un amico che mi ha assunto personalmente. Ora, se vuoi scusarmi, torno dentro a guadagnarmi qualche spicciolo. Addio” quindi si incamminò gettando con stizza la lattina a terra.
“Quell’uomo è uno sconsiderato!” gli gridò dietro Minho, appena prima che quel ragazzino insolente si fosse chiuso dietro la porta di servizio. Gli uscì un verso di disperazione e spense la sigaretta contro il muro. I ragazzi d’oggi sono proprio senza speranza, stava per pensare, ma interruppe quella riflessione dandosi un pizzico sulla guancia.
“Io non posso proprio parlare...”
 
Come può un ragazzo non ancora maggiorenne pretendere di crescere un neonato da solo?
Quando Minho aveva supplicato l’ex-ragazza di non abortire non aveva di certo pensato al latte, alle pappe, ai pannolini e a tutte le attenzioni di cui un neonato ha bisogno. Semplicemente non poteva lasciarglielo fare. Qualcosa dentro di lui si era attivato, impedendoglielo. E ancora ora, che ha vent’anni, che è maggiorenne, non sa quale parte della propria mente gliel’abbia ordinato. Ma se la mente ordina, il corpo esegue.
Come avrebbe fatto da solo?
L’equilibrio lo aveva ritrovato quando sua madre era venuta a saperlo. “Non ti preoccupare, ti aiuto io” gli aveva detto semplicemente quel giorno, quindi aveva preso carta e penna e aveva iniziato a scrivere tutto ciò di cui avevano bisogno.
La madre viveva da sola nell’appartamento sotto a quello di Minho - che avevano comprato alla notizia dell’arrivo del neonato, prima che lei mettesse la carriera davanti a tutto e decidesse di abortire - e quindi la bambina avrebbe avuto accanto una figura, se non propriamente materna, almeno femminile.
Poi, dal momento in cui la bambina aveva compiuto un anno, Minho aveva iniziato, più o meno, a cavarsela da solo e sua madre se ne prendeva cura solo nei momenti in cui lui era occupato con le lezioni e lo studio. Ormai stava per iniziare il secondo anno di università, ma, in principio, Minho aveva messo in discussione questo suo desiderio di continuare con la scuola. Avrebbe fatto il padre a tempo pieno, se solo sua madre non lo avesse persuaso a non abbandonare almeno gli studi, oltre che la sua promettente carriera sportiva.
Quando, quella sera, Minho entrò nella propria camera in punta di piedi sentì sua figlia muoversi nel piccolo letto. Gli si avvicinò e le carezzò il viso sudato.
“La nonna deve averti coperta troppo, eh?” mormorò togliendole di dosso la coperta più pesante. Poi si accucciò e poggiò delicatamente le labbra sulla fronte.
“Buona notte, Ai, e buon compleanno”
Ai, che significava amore nella lingua nativa di lei.
 

***

 
Minho corse giù per le scale con sua figlia in braccio e quasi andò a sbattere contro sua madre.
“Sono in ritardo!” si lamentò, lasciando Ai in braccio alla donna e fuggì verso l’uscita.
“Stai attento!” si preoccupò lei sistemandosi la bambina tra le braccia.
“Ah!” esclamò poi Minho tornando indietro e schioccando un bacio sulla guancia della figlia. “Mi dispiace ma oggi il papà deve restare via fino a tardi, ma ti prometto che uno di questi giorni ci andiamo a comprare il regalo, okay?”
Ai annuì debolmente e Minho sorrise. “A sta sera allora! Non penso di tornare per cena” e uscì di casa con le scarpe in mano.
 
Mentre era nella metro - e si allacciava le scarpe - tornò a pensare alla sera prima.
Quel posto gli era sembrato così diverso senza di lei, così vuoto senza quella presenza che si era sentito mancare. Decine di persone, eppure nessuna di quelle poteva colmare la voragine aperta dentro di sé. Come avrebbe vissuto se nemmeno Ai ci fosse stata? Era stata la sua salvezza. E la vita aveva continuato ad evolversi come un boomerang piatto. Con i suoi ritorni al passato, i rimpianti e le lacrime di notte, quando Ai dormiva. Ai, che sarebbe stata per sempre l’unico amore della sua vita.
La metro si fermò e per poco lui non si lasciava sfuggire la fermata dell’università. Scese velocemente, appena prima che le porte gli si chiudessero alle spalle, e la metro riprese la corsa silenziosa.
“Minho!”
Si voltò e vide un ragazzo andargli incontro. Indossava un cappello appariscente con la visiera tirata sul viso e un paio di occhiali da sole rosa. Se non fosse stato per il fatto che indossava la sua stessa divisa - sebbene quel ragazzo l’avesse ricucita per renderla estremamente attillata sulle gambe - Minho avrebbe pensato che non si riferisse a lui. Ma come aveva potuto dimenticarsi di quegli orrendi occhiali da sole?
Key! Quanto tempo!” esclamò dandogli una pacca sulla spalla.
Quello si mise l’indice davanti alla bocca.
“Non dirlo così forte! Che poi le fans mi trovano!”
Minho sbuffò. “Non atteggiarti come se fossi famoso, idiota. L’inverno non ti ha freddato i bollori?”
“Guarda che sono il ragazzo più bello dell’istituto. Se non mi camuffassi così, sai che confusione che avrebbero fatto le ragazze?”
“A me sembri solo più vistoso e riconoscibile con questo cappello, Kibum” ed enfatizzò l’ultima parola, “...ma l’hai lavato insieme alla sciarpa  del Gay Pride?”
Kibum sbuffò e lo superò verso l’uscita. Si voltò solo un secondo, “Però questa era carina, te lo concedo”
Minho rise e lo seguì fino a raggiungere la luce di quel sole primaverile.
 
Come succedeva ogni volta che se ne andava a spasso per la facoltà con Kibum - o Key, come lo chiamavano i suoi fan più accaniti - anche quel primo giorno di lezioni doveva sorbirsi gli sguardi indiscreti della gente, le risatine e le dita puntate verso la loro direzione.
“Te l’avevo detto che il cappello non funzionava...”
Kibum fece spallucce e intanto si guardava intorno con aria fiera e un sorriso raggiante gli si allargò sulla faccia.
Al contrario, il viso di Minho era, se possibile, sempre più oscurato. Si sarebbe voluto sotterrare, ma avrebbe dovuto scavare una bella buca se non voleva che la testa uscisse comunque dal terreno. Quelli erano i momenti in cui malediceva la propria altezza sconsiderata. Dopotutto non aveva certo bisogno di andare in giro con Kibum per essere notato dalla gente, era fin troppo conosciuto in quell’università prestigiosa, per essere un bel ragazzo, ma soprattutto per essere entrato grazie ad una borsa di studio conferitagli per doti sportive. Poi però nessuno lo aveva mai visto all’opera su un campo sportivo e lui faceva di tutto per evitare di parlare con le persone. Insomma, la sua riservatezza e il suo essere scorbutico avrebbero fatto scemare la sua popolarità se non avesse conosciuto e non stesse frequentando il ragazzo più popolare della scuola. Erano, in poche parole, la coppia più famosa dell’intero istituto. Non che fossero sul serio una coppia, nel senso stretto del termine, ma qualche diceria infondata continuava a girare tra i più invidiosi.
“Ma le ragazze, almeno loro, non si arrendono?”
Kibum lo guardò interrogativo, e intanto attraversavano l’ingresso principale.
“Intendo...” continuò Minho arricciando le sopracciglia, “Si vede lontano un miglio che sei gay”
“È difficile arrendersi così facilmente all’evidenza”
“Sei senza speranze...”
Un gruppo più vivace di ragazze del primo anno li additò con insistenza. “Ma quelli non sono Key e Choi??” dicevano tra di loro e Minho strinse, per l’ennesima volta, i pugni, fino a farsi male. Accelerò il passo verso i gradini d’ingresso.
Quella gente, che non sapeva nulla su di lui ma si credeva di conoscerlo essendo venuta a conoscenza di qualche pettegolezzo, lo mandava su tutte le furie. Con Kibum invece era stato diverso. Gli aveva sorriso con sincerità e gli aveva domandato il suo nome, come una persona normale. Era stata la sua sensibilità a fargli capire che poteva fidarsi di lui, che poteva dirgli tutto sul proprio conto, su di lei, su Ai e su tutti i sacrifici che sarebbe stato capace di fare per il suo bene. Forse è stato anche merito di Kibum se Minho si era deciso a frequentare il secondo anno.
“Minho! Aspetta!” gli gridò dietro Kibum vedendolo allontanarsi, ma un trambusto alle proprie spalle lo bloccò, facendolo voltare. Anche Minho, che era rimasto a metà degli scalini, e che si era girato per il richiamo dell’altro, notò qualcosa di anormale all’ingresso.
C’era uno strano movimento da parte degli studenti, che avevano iniziato ad accalcarsi al cancello. Sia Kibum che Minho non capirono subito l’origine di quell’agitazione complessiva, almeno finché un rombo non preannunciò l’arrivo di una costosa limousine nera che si fermò davanti l’ingresso. La folla ammutolì, mentre un ragazzo usciva da quell’auto nera fiammante sbattendosi con poca grazia la portiera alle spalle. Il maggiordomo, che lo aveva raggiunto per aiutarlo a scendere, rimase con le mani in mano.
“Sì, sì... Di’ a mio padre che seguirò le lezioni... almeno per oggi” mormorò il ragazzo scuotendo controvoglia una mano e si incamminò all’interno della facoltà, mentre gli altri studenti si allargavano per farlo passare.
Kibum era con la bocca spalancata, mentre seguiva cogli occhi la falcata sicura di quel ragazzino. Quando il nuovo arrivato fu sulle scale, alzò lo sguardo per guardare uno studente particolarmente alto che gli ostruiva il passaggio. Minho non si spostò, finché il ragazzo dai capelli rossi non sbuffò raggirandolo, e sparì dentro l’edificio con solo un brusio indistinto a fargli da scia.
 
“Ma l’hai visto? Sono indignato!” cinguettò Kibum a mensa, mentre Minho addentava un panino che si era portato da casa. “Ma chi si crede di essere quello lì! Voglio dire, non sono io il ragazzo più bello di tutta la scuola? E ora arriva quel figlio di papà che sventola qualche quattrino a destra e a manca e l’intera facoltà gli cade ai piedi... io non lo so, guarda... e poi quei capelli... ma chi si crede di essere? Non sono io quello che si tinge i capelli? Eeh!? Ma guardalo!! Ha ordinato da mangiare per una squadra di calcio! Oddio, ma quella non è la mia fan n.1?? Che ci fa là, da quello? Io sono qui!!! Minho, mi ascolti!?”
“Eh?”
Kibum sgranò gli occhi e iniziò a pestare i piedi per terra. Poi si calmò di colpo e mise il broncio.
“Non mi abbandonare pure te...”
Minho guardò verso il tavolo in cui era seduto il nuovo arrivato, lo trovò pieno di gente curiosa e che bombardava quel ragazzo di domande su tutto. Poi volse lo sguardo verso Kibum.
“Eddai, la gente si stufa subito delle novità... vedrai che entro qualche giorno tornerai ad essere il più stalkerato...”
“Non scherzare!” gridò Kibum, e si gettò sui suoi noodles al kimchi con espressione sconsolata.
“Davvero!” controbatté Minho, “Le persone si stancano facilmente...”
“Come vuoi te...”
Minho guardò ancora quel tavolo. Aguzzò la vista cercando di mettere bene a fuoco il viso del nuovo arrivato. Ma non ce n’era bisogno, lo aveva guardato bene quella mattina, sui gradini dell’ingresso. E non avrebbe confuso quell’insolenza con quella di nessun altro. Non poteva che essere un riccone, il figlio di un qualche direttore aziendale che va a lezione per passare il tempo, perché ha già i soldi che gli servono - o che gli avanzano - e un futuro assicurato. Non poteva che essere il ragazzino che il giorno prima gli aveva rovinato il momento serale della sigaretta.
“Qualcosa non quadra però...” mormorò storcendo la bocca. Non aveva detto di avere diciotto anni? Gli dovrebbe mancare ancora un anno prima di poter entrare in un’università...
“Minho” lo chiamò Kibum con fermezza, “Dobbiamo fare qualcosa”
“Eh? E cosa vorresti fare?” chiese Minho lasciando perdere quel suo pensiero.
“Che almeno riconosca la mia superiorità!” disse alzandosi, ma senza staccare gli occhi dal volto dell’altro. Gli brillavano di una strana luce.
“Mi spaventi...”
“Avanti, andiamo!”
“Senti, non ho ancora afferrato cos-”
“Ho capito, vado da solo” concluse Kibum voltandogli le spalle e si avviò a passo veloce verso quel tavolo affollato dalla parte opposta della mensa. Minho già si immaginava Kibum srotolare davanti a pel di carota tutti i motivi per cui lui era il migliore, il più bravo, il più bello, il più gay... no, forse quest’ultimo primato non era in pericolo... dopotutto, quel ragazzino non gli sembrava per niente dell’altra sponda. Comunque, la lista delle cose in cui Kibum era il migliore e l’altro poteva solo allearsi o perire miseramente sarebbe stata abbastanza lunga da permettergli di farsi una sigaretta. Si alzò svogliatamente e uscì dalla mensa grattandosi la testa. Per la prima volta, gli altri studenti non si voltarono al suo passaggio.
 
Salì i gradini fino al terzo piano e sgusciò fuori dalla porta che dava sulla scala di sicurezza. Lì non andava mai nessuno, eppure dal balcone si poteva avere una bella vista del parco scolastico. Poco male, da quando aveva capito che nessuno avrebbe saputo di quel posto - a meno che non fosse scoppiato un incendio - aveva iniziato ad usarlo come nascondiglio segreto. E sebbene Kibum ne fosse a conoscenza, non c’era mai andato. Quel ragazzo aveva un senso dello spazio vitale a lui necessario che lo spaventava. Ma che lo faceva anche essere davvero riconoscente nei suoi confronti.
Si accese la sigaretta e si sedette su uno scalino, quindi si allungò sul pianerottolo con gli occhi chiusi. Pensò di sfuggita che forse era stanco di quel boomerang che era la sua vita. E pensò anche che aveva bisogno di una scossa che lo riportasse a vivere nel presente.
Ma forse era già arrivata, e semplicemente lui non se ne era ancora reso conto.
 
“Minho!”
Fece un respiro profondo e si voltò. Si stava stancando quel giorno di sentire la sua voce acuta che lo chiamava.
“Fai silenzio, siamo in biblioteca...” riuscì solo a dire, mentre qualche testa si voltava a guardarli e sorrideva. Ma certo, loro erano Key e Choi, avrebbero potuto tenere una partita di calcio in quel luogo e nessuno si sarebbe indignato.
Quando ognuno fu tornato ai propri libri, Minho si decise ad alzare lo sguardo verso Kibum e lo trovò più minaccioso che mai.
“Se non fai l’isterico e parli a bassa voce ti ascolto”
Kibum annuì convinto, fece un respiro profondo e iniziò: “È un viziato del cazzo”
“Kibum...”
“Non scherzo, lo sai come si chiama? Non puoi non saperlo, l’ha urlato, l’hai sentito no?”
“Ero fuori a fumare...”
“E sai chi è suo padre?” continuò Kibum senza ascoltarlo, il labbro inferiore gli tremò, “Minho, non capisci, sono rovinato”
Minho buttò fuori l’aria.
“Lo vedi come ci fissa la gente? Non è cambiato nulla, okay? Ti basterà partecipare anche quest’anno al festival culturale, avere una parte dignitosa nella recita e riavrai le tue fan. Sono sicuro”
Kibum si lasciò andare sul tavolo.
“Senti, da quant’è che non scopi?”
Kibum alzò di scatto la testa dal tavolo. “Ma vuoi parlare a bassa voce?”
“Io? Chi è qui quello che sbraita come un ossesso?”
“Va bene, va bene... ne riparliamo fuori, okay?”
Minho sorrise e tornò al suo libro di algebra. Visto? Basta poco per farlo stare zitto. Basta parlare della sua vita sessuale. Certo, un po’ gli faceva pena. Ma non poteva mica aiutarlo lui. Mica era gay. Figuriamoci.
“Kibum!” lo richiamò di colpo mentre l’altro si stava alzando.
“Cosa?”
“Come hai detto che si chiama?”
“Chi?”
“Dai, quel ragazzino viziato...”
“Non lo sai?”
“Ti ho già detto di no, mi ascolti?”
“Ma se suo padre è tipo l’uomo più ricco della Corea del Sud!”
“Non esageriamo...”
“E chi esagera, ha pure comprato l’ingresso all’università per il figlio con un anno di anticipo!”
“Insomma, come si chiama?”
“Lee Taemin”
 

***

 
Lee Taemin entrò nella propria camera e si abbandonò sul letto. Era una vita che non frequentava una lezione fuori da casa sua. Di solito i professori andavano da lui. Era dall’asilo, forse, che lui non andava da loro. Proprio ora quello doveva decidere di fare il padre?
 Si rigirò un paio di volte sopra le lenzuola cercando invano di addormentarsi. E poi, da non crederci, ora doveva pure mettersi a fare una caccia al tesoro? Ma certo, quello era stato l’unico motivo per cui era stato costretto a presentarsi a scuola.
“Trovami un giovane ragazzo, per la parte di quel modello che ti dicevo. Uno alto, si intende, e ben piazzato”
Ma certo, perché invece non si faceva un giretto in una qualche casa discografica e non si cercava un idol che fosse di suo gradimento? Ma che pretendi di trovare in una scuola... per quella tua stupida pubblicità, poi. Cosa vuoi fare, mettermi alla prova? Vuoi essere certo che io possa essere il tuo degno erede?
“Signorino!” lo chiamò senza preavviso qualcuno bussando leggermente alla porta. Si tirò su furioso.
“Lasciatemi in pace! Lo sapete che devo dormire di giorno!” gridò rivolto alla porta ancora chiusa. Che si aspettano? Che ora mi metta di colpo a fare il bravo bambino? Poi si alzò di scatto e andò a chiuderla a chiave. Due passate, il solito segnale di ‘non disturbare’, quindi tornò sul letto. Soffiò fuori l’aria con forza. Mio padre deve essere entrato qui oggi, c’è puzza di sigaro.
 
Mentre si stava infilando l’uniforme - camicia bianca infilata in un paio di pantaloni neri di raso e grembiule scuro legato in vita - il figlio del capo entrò nei camerini. Taemin lo osservò incuriosito, e intanto si arricciava le maniche fin sopra i gomiti.
“Sei in anticipo oggi, abbiamo appena aperto” commentò il ragazzo appoggiandosi al muro.
“Lo so, Jjong, sono arrivato presto perché ho una richiesta da farti...” replicò Taemin finendo di allacciarsi i bottoni della camicia.
“Ti ho già detto di evitare quel nomignolo! Non abbiamo più cinque anni!”
Taemin si mise a ridere e si infilò le scarpe laccate.
“Comunque... ti va bene se ‘sta sera me ne vado a mezzanotte? Non ho dormito niente oggi e domani sono costretto a tornare in facoltà... se non trovo in fretta quello che vuole mio padre finisco col morire per mancanza di sonno, e non scherzo”
Jonghyun, il figlio del proprietario di quel locale notturno in pieno centro, ma anche colui che in verità se ne occupava,  storse la bocca. Conosceva Taemin da quando era solo un bambino. Avevano appena tre anni di differenza, e quando erano piccoli amavano giocare insieme nel giardino della sua enorme villa, mentre il padre li osservava divertito, e ora si domandava dove fosse finito quel suo sguardo dolce e apprensivo. Quando era successo che quell’uomo aveva abbandonato il figlio in quel mondo perverso? E anche il proprio padre... no, quella era un’altra storia, e non aveva voglia di pensarci in quel momento.
“Non sarai un po’ troppo giovane per dormire di giorno e lavorare di notte?” provò a dire, sperando che Taemin un giorno cambiasse strada, e non facesse la sua stessa fine.
“Lasciami in pace... ti serviva un aiuto cameriere, no? Ti sto aiutando, dovrebbe bastarti. E poi, siamo uguali, io e te, no?”
Jonghyun si irrigidì, no, non erano affatto uguali, lui non aveva scelto di vivere in quel modo di sua iniziativa. Non c’era altra via d’uscita, ecco perché ora era lì, invece di uscire con gli amici, di studiare, di vivere una storia d’amore come tutti gli altri ragazzi della sua età. Come Taemin poteva benissimo fare.   
“Va bene, va bene...” sospirò ingoiando l’amaro, perché alla fine erano davvero simili, entrambi invischiati in quel mondo, e come potevano uscirne con le sole proprie forze? Erano appena dei ragazzi, catapultati con violenza nel mondo degli adulti. Jonghyun si sentiva ancora un bambino, costretto a crescere troppo velocemente per via della malattia del padre.
Ma quella era ancora la storia a cui non voleva pensare.
“Comunque, se vuoi...” continuò Jonghyun facendo per uscire, “...puoi prenderti anche un paio di serate libere, okay?”
“Sto bene. Mi basta andarmene un po’ prima”
L’altro annuì con un sospiro. Almeno tu, almeno tu che puoi... spero che qualcuno venga a prenderti, e ti porti via di qui.
 
Quando Taemin si avvicinò a quel tavolo per servirlo, non si aspettava di certo di trovare il ragazzo biondo che a pranzo gli aveva fatto drizzare i capelli per la disperazione.
“Ci rincontriamo” mormorò Kibum con gli occhi ridotti ad una fessura e un ghigno stampato sul volto. Taemin stava per ribattere quando un pensiero lo paralizzò. Nessuno a scuola doveva sapere quale fosse il suo lavoro notturno, o la notizia sarebbe circolata fino a raggiungere le orecchie onnipresenti del padre. Mosse silenziosamente la bocca e ne uscì qualche breve parola stentata.
“Come lo sapevi...”
Kibum scoppiò a ridere, sicuro per l’imminente vittoria. Appurato che quello che diceva Minho era vero - cioè che quel ragazzo ancora minorenne lavorava in un locale del genere - il giorno dopo lo avrebbe detto a tutto l’istituto, e si sarebbe ripreso il posto che gli spettava.
Indicò beffardo alla propria sinistra e Minho sospirò distogliendo lo sguardo. Come aveva fatto a farsi sfuggire un’informazione del genere...? Con Kibum poi!
Taemin guardò il ragazzo che era seduto al tavolo con quel biondino isterico. Strinse gli occhi cercando nella memoria un collegamento che gli sfuggiva.
“Scusa ma non lo conosco” disse tornando a guardare Kibum, che intanto si alzava trionfante.
“Non importa, lui conosce te, e ora sai cosa succede?”
Taemin lo ignorò un secondo e tornò a guardare Minho con le sopracciglia aggrottate.
“Sei forse una spia di mio padre? Che vuoi?”
“Hey! Non ignorarmi!” gridò Kibum facendo il giro del tavolo. Afferrò Taemin per la cravatta e lo strattonò. “Non sai con chi stai giocando”
“Non voglio giocare” sbuffò Taemin reggendo il suo sguardo, “Non ho ancora capito che problemi hai tu”
Minho si alzò di scatto, ma non fece in tempo a separarli che Kibum aveva già steso l’altro con una testata. Restò pietrificato, e anche i tavoli attorno ammutolirono. Qualche donna si portò le mani alla bocca, mentre altre avevano iniziato ad agitarsi perché, dopotutto, Taemin era il cameriere più bello là dentro, e nessuno poteva permettersi di toccarlo. Una ragazza aveva gridato, attirando le attenzioni di qualche altro cameriere nelle vicinanze.
“Ahi...” si lamentò Kibum con le dita che si tastavano la fronte.
Minho scansò bruscamente l’amico e si gettò sul ragazzo a terra.
“Stai bene?” chiese, sinceramente preoccupato, mentre provava a toccargli il sopracciglio spaccato da cui usciva un filo di sangue. Taemin si ritrasse di colpo, guardandolo con gli occhi colmi di odio. Minho si girò, afferrò un tovagliolo dal tavolo e glielo porse. “Blocca il sangue, fai da solo” gli disse, prima di alzarsi ed affrontare Kibum.
“Sei impazzito di botto?!” gridò Minho, con una veemenza tale che fece trasalire l’altro. Kibum non sapeva cosa rispondergli, non l’aveva mai visto così. Il dolore alla testa - divenuto improvvisamente talmente reale - gli fece rendere conto del proprio gesto e la lucidità tornò di colpo. Le gambe iniziarono a tremare, e dovette lasciarsi andare su una sedia, mentre milioni di lucine bianche gli offuscavano la vista.
“Che succede qui?” una voce sconosciuta fece voltare Minho, bloccandolo dal prendere a pugni l’altro. Jonghyun si faceva largo tra i tavoli e le persone fino a raggiungerli.
Qualche ragazzina si agitò ancor di più. “Quello non è il figlio del capo?” dicevano, “E’ Jonghyun!”
Taemin intanto si stava rialzando e Minho corse ad aiutarlo. Lo afferrò per un braccio e lo tirò su con una facilità impressionante. Quanto poteva essere gracile quel ragazzo?
“Taemin?” domandò Jonghyun cercando di guardargli il viso, ma questi si nascondeva, e intanto premeva il fazzoletto bianco sulla ferita. “Cos’hai?”
“Vado a prendere una boccata d’aria” mormorò allora il ragazzo, e si incamminò velocemente verso l’uscita sul retro.
Jonghyun si guardò attorno spaesato, poi si soffermò sul viso di Minho che, a quel contatto, chinò il capo e la schiena.
“Mi dispiace molto!” disse stringendo i pugni, “Lei è il figlio del direttore? Sono veramente dispiaciuto per il comportamento del mio amico... ce ne andiamo subito” e si girò verso Kibum per incitarlo ad alzarsi. Passò un suo braccio attorno al proprio collo e, con un ultimo inchino, si incamminò verso l’uscita.
 
“Che diavolo hai combinato per meritarti una testata?” domandò Jonghyun trattenendo una risata.
“‘Sta zitto...” si lamentò Taemin, mentre tornava a bagnare il fazzoletto con l’acqua del rubinetto del bagno. Quindi lo poggiò con una smorfia sul sopracciglio, “Quello là è pazzo”
Jonghyun si sedette su uno dei divanetti della toilette e accavallò le gambe.
“Quei due, frequentano la tua stessa università?”
“La checca bionda sì...”
“Taemin... capisco che sei arrabbiato, ma così mi sento insultato pure io” disse l’altro con un mezzo sorriso. Taemin fece un gesto di stizza con la lingua.
“Tu non sei un pazzo che prende a testate la gente senza motivo. Solo perché hai la luna storta”
Jonghyun fece spallucce. Era ancora convinto che un motivo ci fosse, se non altro il mero respirare di Taemin a volte era talmente fastidioso che si meritava un pugno solo per quello. Ovviamente l’unico problema dell’incidente era il fatto che fosse successo proprio nel locale. Questo, di certo, non sarebbe stato perdonato.
“Invece l’altro?”
“Eh?”
“Quello moro e alto” spiegò Jonghyun, “È stato gentile, no?”
Taemin chinò il capo.
“Sì, come un padre è gentile con il figlio”
“Perché? Che altro tipo di gentilezza ti aspettavi?”
“Ma che vai blaterando?” sbottò Taemin aggrottando le sopracciglia.
“Non fraintendere! La botta ti ha dato alla testa?” rise Jonghyun, “Intendo la gentilezza di un amico. Sicuro che non vi conosciate?”
Quello moro e alto...” mormorò Taemin a bassa voce, ripetendo le parole dell’altro. Bagnò ancora una volta il fazzoletto per prendere tempo. Faceva anche lui quell’università? Lo aveva già incontrato?
“Taemin...” Jonghyun lo riportò alla realtà, “Ti sei proprio affezionato a quel pezzo di carta! Cambialo, no? Non vedi che ti si scioglie in mano ormai?”
Taemin fissò il volto di Jonghyun con occhi socchiusi. Altro che fraintendimenti.
“Non farti strane idee” concluse Taemin, gettando il fazzoletto nel cestino senza guardarlo. E si guardò allo specchio, passando un dito sulla ferita, con la stessa apprensione con cui quel ragazzo moro e alto l’aveva sfiorato qualche momento prima.
“Comunque è strano” continuò Jonghyun col suo solito sorrisino, “Non sei tipo da tirarsi indietro in una rissa”
“Ora prendo a pugni te, se non la smetti” sibilò Taemin guardandolo attraverso lo specchio.
“Sul serio!”
“Non so” concluse secco Taemin, distogliendo lo sguardo. “Non so come, ma la rabbia dentro di me ad un certo punto è sparita di colpo”

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ATTENZIONE: Non credo che continuerò a postare il seguito su efp per il momento... se volete continuare a seguire la fanfic potete seguirmi su questa community di lj: QUI Scusate l'inconveniente ^^''

   
 
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