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Autore: Love_in_idleness    14/03/2007    2 recensioni
Due storie diverse intrecciate tra loro per una strana, irresistibile Legge delle Ambivalenze.
Genere: Romantico, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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02

Non so perché non vengono gli spazi. Scusatemi, non so usare il computer.

Sabato nove Dicembre,

Una retrospezione dalla parte di Lelio – una digressione temporale; un bigliettino; un sogno indefinito e alcune tragiche implicazioni trotterellanti di nome Vittorio

I.

Io e Mircea siamo nati lo stesso giorno per una strana coincidenza. In realtà siamo vicini di casa. Quando i miei genitori hanno divorziato, e mio padre se ne è andato portandosi via i miei tre fratelli, io sono rimasto in quell’appartamento del centro città, accanto al suo, riversando il vuoto di una perdita così grave e profonda interamente sulla sua fragile spalla. In un certo senso credo abbia preso il posto di tutti gli affetti che mi sono improvvisamente mancati.

La sera in cui per la prima volta dovevo dormire senza Ottavia, avevo nove anni, mi sentivo così solo e abbandonato che piansi per ore e ore nel cuscino. Ricordo che aprii la portafinestra sul balcone che comunicava con la stanza di Cea, in piena notte, e bussai delicatamente finché lui, un po’ assopito, non mi aprì. Mi addormentai nel suo lettino. Da allora dormiamo nella stessa stanza ogni notte da quasi dieci anni, e non ci è mai venuto in mente di interrompere questa abitudine. È una cosa dolce e allo stesso tempo devastante. Mi è capitato di dormire con altre persone, in modi decisamente più intimi, eppure in nessuna di quelle occasioni sono riuscito a ritrovare il calore affettuoso che mi trasmette Cea con la sua semplice vicinanza e col suo modo calmo di dormire soffiandomi sulla guancia mentre respira.

Quella notte non riuscivo a prendere sonno. Capita molto spesso alle persone ansiose come ero io. Osservavo il soffitto buio cercando di scorgere attraverso l’immaginazione dei disegni interessanti, delle luci fantasmagoriche o qualche passaggio verso un’altra dimensione. Cercai di alzarmi senza fare rumore ed uscii sul nostro balcone.

Mi accesi una sigaretta e sospirai sonoramente. I capelli mi ricadevano lunghi, forse troppo, sulle spalle. Mi guardai intorno e fui come catturato in un vortice che mi conduceva in basso, sempre più in basso, verso una caduta vertiginosa. La notte era placida e serena, una di quelle che sembrano fatte apposta per restare svegli a sognare ad occhi aperti, incantati in qualche immaginifica rêverie, o per sussurrare parole dolci che si perdono nel vento. Le stelle dipingevano bagliori lontani e siderali, quasi freddi nella loro distanza irraggiungibile.

Qualcuno aprì la porta dietro di me e mi appoggiò una coperta sulle spalle.

“Scemo, non puoi rimanere fuori sul balcone a congelare in queste lunghe notti d’inverno.” Cea aveva un tono melodrammatico. Si sedette accanto a me e si avvolse nella coperta che mi aveva portato. Lui non sa sopportare il freddo, e decisamente non lo sa apprezzare come me.

“Sai, tutto questo pallore – rischiara quasi la notte.”

“A me mette i brividi.”

“Trovi? Di solito sei felice per nulla. Sei felice anche per la neve, perché riesci a trovare una bellezza particolare dentro ogni cosa. Ma io sento solo un grande vuoto.”

“Puoi sentire un vuoto? Non ha molto senso.”

“Non c’è l’ha, sì.”

Cea appoggiò il capo contro la mia spalla. In fondo lui capiva che quella desolazione nottilucente non era altro che un ricordo terribile dei legami che erano stati spezzati nella mia vita.

“Non hai niente da dirmi?”

Scossi la testa. Non era veramente una bugia – io non dovevo dire nulla, perché fondamentalmente non capivo nulla. Provavo questo strano senso di sconforto nel mio petto, eppure non lo sapevo riconoscere, non lo sapevo delineare, non riuscivo a definirlo in una parola, in uno stato d’animo preciso.

Una stella brillava più delle altre. Fissai il mio sguardo dritto alla sua luminosità, e decisi che quella stella era Mircea. Tutte le volte che l’avessi guardata, mi sarei ricordato di lui, di quella notte, del mio vuoto nella maniera assurda e talvolta insensata in cui il flusso di coscienza e le associazioni di idee riescono a rievocare il ricordo vago di un particolare, di un momento, di un’emozione attraverso determinate percezioni.

II.

Cea cercava di nascondersi il più possibile dietro alla pila di libri posata sul suo banco – perché riusciva ad essere estremamente caotico anche a scuola. Si era appiattito contro la superficie di compensato e pregava rivolto verso il crocifisso mentre l’indice del professore di matematica scorreva perfidamente i nomi riportati sul registro. Purtroppo lui si chiama Vanni, ed è l’ultimo dell’elenco in ordine alfabetico. Questo facilita incredibilmente la sua estrazione senza per altro invogliarlo a studiare matematica.

Scribacchiava qualcosa.

“Vanni!” Si alzò come un condannato a morte e si trascinò verso la lavagna che per lui, presumibilmente, doveva possedere la stessa malvagia voracità un buco nero in espansione.

Lo guardai allontanarsi con aria afflitta e mi sentii improvvisamente molto solo e stretto nella mia malinconia da ultimo banco occultato contro il muro. Era un bene. In un certo senso, quando non ero particolarmente rattristato per Tutto-il-male-del-mondo, mi piaceva stare da solo per un po’ di tempo. Serviva per pensare e per analizzarmi con calma e tranquillità. In quei giorni pensavo di non riuscire più a sopportare la presenza costante di persone attorno a me che non fossero sulla mia lista buona, e questo mi indispettiva acuendo il mio proverbiale mal du siècle, come diceva Ottavia.

Io ho il mal du siècle! Pensavo, e più pensavo, più ci cadevo, sprofondando come nelle sabbie mobili.

In realtà continuavo a riflettere sul significato nascosto della mia dolce stellina risplendente sul capo delle notti insonni, mentre tutto il resto del mondo dormiva placido e tranquillo sotto una coperta di buio e di neve. Voltai la testa verso la finestra. Il cielo era livido e tumultuoso, prossimo ad una nuova nevicata, solcato da correnti invisibili e da nubi pesanti che rotolavano rocambolescamente sulla sua superficie bassa e dolente, come

Quand le ciel bas e lourd pèse comme un couvercle

Sur l’esprit gémissant en proie aux long ennuis,

Et que de l’horizon embrassant tout le cercle

Il nous verse un jour noire plus triste que les nuits ;

mi provocava solo un convulso senso di malessere ed un’agitazione inesprimibile. Avevo voglia di scappare. Appoggiai la testa contro il banco – c’era un bigliettino scritto da Mircea nella sua bella calligrafia, l’unica cosa in lui che fosse decentemente ordinata. Diceva:

Quando leggerai questo biglietto, per me sarà troppo tardi. Il tuo pessimismo, vedi, ha spezzato l’Equilibrio Cosmico che tentavo di preservare, e ora sarà la fine, la caduta, il collasso, il declino, il disfacimento, il clinamen, l’Ade, l’Averno, la Morte, la ghigliottina, l’ordalia, il Giorno del Giudizio. Non ti devi sentire in colpa.

Pensai che era un modo stupido per convincermi a sentirmi in colpa. Ritirai il biglietto e mi rimisi a scrutare laconicamente le nuvole in movimento nel cielo, così affaccendate e così ipnotiche nel loro vuoto sonnolento, nella dolce lentezza delle loro forme soffici eppure terribili.

III.

Vittorio era bellissimo, biondo, riccioluto con due occhioni azzurri come il mare, la pelle rosea, fresca, soffice di una pesca, i denti bianchi, il sorriso smagliante, le labbra rosse a forma di cuore e una risata squillante che ti faceva perdere la testa. Mircea lo amava alla follia, lo adorava, lo venerava quasi quanto la stabilità dell’universo. Era una creatura deliziosa che a volte mi ingelosiva nella sua meravigliosa purezza.

Noi lo chiamavamo affettuosamente Thor, come il dio del tuono, e siccome suo padre era morto poco dopo la sua nascita, e Mirca era diventato l’uomo di casa, si prendeva cura della sua graziosa fragilità. Oramai aveva quasi tre anni e cominciava a parlare. I bambini sono bellissimi quando cominciano a parlare e ti sussurrano cose dolci nell’orecchio. Dopo la nascita di Vittorio ho scoperto di odiare gli adulti ma di amare i bambini.

Quel pomeriggio stavamo facendo il riposino. Fuori nevicava. Io non avevo dormito tutta la notte così decisi di fargli compagnia, mentre Mircea provava a studiare. L’atmosfera di quella giornata lugubre e pesante mi spingeva soltanto nel lettuccio comodo. Presi in braccio Thor e ci infilammo insieme sotto le coperte.

Il suo corpicino tutto caldo e fremente di vitalità mi scaldava in una maniera tenera che non si sarebbe mai aspettato, mi accarezzava quasi di una consolazione straordinaria. Sbadigliando strinse i pugnetti morbidi tra i miei capelli lunghi.

“Buonanotte!” Disse sistemando la testolina contro il mio petto. Lo sentii tremare un po’ dal freddo.

“Thor –“ Gli sussurrai piano. “Tu pensi che io sia triste?”

“Tu sei sempre un po’ triste.”

“Sì?”

“Sì.” Annuì col capo.

“E secondo te perché sono triste?”

“Perché ti manca il tuo papà.” Rispose con naturalezza, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Pensai un attimo. “A te non manca?”

“Io ho Cea e te.”

“Non è come avere un papà.”

Non mi rispose. “Ti manca anche una come la mamma, secondo me.”

Poi si addormentò sulla mia spalla. Gli baciai la fronte e stringendolo forte mi addormentai anch’io in pochissimi minuti.

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