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Autore: _Kenya    01/09/2012    2 recensioni
Prendete un gigantesco calderone e metteteci dentro una sofisiticata e ricchissima ragazza, un paesino di montagna, un cugino da sballo, una zia che vorrebbe essere una mucca, una migliore amica iperattiva, un disastroso corso di teatro, battaglie di cibo, un'arciperfida nemica, un vecchietto scatenato, una preside tetezca, un biglietto misterioso e un terribile segreto. Condite il tutto con una buona dose di equivoci e di ormoni, di innamoramenti e di amicizie. Infine, gustate questa incredibile ricetta chiamata adolescenza!
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Pimpante” non era esattamente il termine corretto per definire l’atmosfera della casa la mattina seguente. Mentre Sofia si era alzata, lavata, vestita, truccata e profumata alla perfezione, tutti gli altri ronfavano alla grande. Alle 7.30 la ragazza uscì dal bagno, e vide Francesca in cucina. Era ancora in pigiama, aveva i capelli spettinati e gli occhi gonfi dal sonno. “Ciao Sofia” le disse sbadigliando. “Che brava, sei già pronta. Adesso vado a chiamare le pesti. Tu inizia pure a fare colazione. Puoi scaldare un po’ di latte nel microonde per favore?”  Si trascinò su per le scale, lasciando Sofia in cucina. Un errore terribile, pensò la ragazza. Lei non si era mai avvicinata ad un fornello ma forse poteva farcela. Prese la bottiglia del latte, e la infilò nel microonde, che tra parentesi riconobbe solo perché c’era scritto a caratteri cubitali sopra di esso la sua funzione.
“Ma cos’è questa puzza… Sofia!”
Francesca era tornata, e si era scaraventata contro il microonde, spegnendolo. Un odore tremendo aveva invaso la cucina, e la donna spalancò le finestre. “Non hai mai usato un microonde, vero?”
Sofia annuì imbarazzatissima, ma la donna le sorrise. “Tranquilla, ti insegnerò. Prima cosa: mai metterci dentro la plastica.”
In quel momento arrivarono tutti gli altri, ancora mezzi addormentati.
“Che cavolo è successo?” chiese Sara annusando schifata l’aria.
“Non lo so, cara. Adesso fate colazione che siamo in ritardo!” rispose Francesca, ammiccando verso Sofia.
Alle otto, finalmente, tutti erano pronti per uscire. “Dov’è Ernesto?” chiese Sofia.
 “E’ andato a casa” rispose Francesca. “Non ti serve l’autista qui. E’ un paesino talmente piccolo!”
“Vuoi dire che… dovrò andare a scuola a piedi?”. Questo era davvero troppo per lei, ma prima che potesse tirare fuori il cellulare e chiamare Ernesto, Francesca spinse i ragazzi sulla porta. “Buona giornata” trillò tutta allegra. La scuola era abbastanza vicina, ed era un edificio grigio e triste, circondato però da un bellissimo parco. Davanti all’ingresso c’erano ragazzi di tutte le età, che si  abbracciavano e si salutavano sorridendo. Sofia si appoggiò ad un albero lontano dalla folla. Non aveva certo intenzione di andare lì e presentarsi. Primo, perché odiava le presentazioni. Secondo, perché nessuno avrebbe potuto essere suo amico, in mezzo a quella folla di vestiti da quattro soldi e zaini sporchi. Sarebbe rimasta isolata, nessuno l’avrebbe notata e tante grazie. Tuttavia i suoi propositi svanirono quando una bicicletta la travolse in pieno dal dietro. Sofia cadde a terra in maniera molto poco aristocratica, e con lei il ciclista. Si rialzò subito in piedi, sistemandosi il suo Chanel e assicurandosi che i tacchi delle Jimmy Choo fossero ancora integri. Poi rivolse uno sguardo sprezzante a… Porca merda. Ma cosa c’era nell’aria di quel paesino? Il ragazzo davanti a lei aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi sparati in aria. Indossava una camicia enorme gialla e verde, un po’ stile semaforo, e dei pantaloni fin troppo aderenti rossi. Quando le sorrise, rivelò dei denti bianchissimi: “Mi spiace tantissimo di averti investita, non ti ho fatto male, vero?”
“No, sto bene” rispose lei.
“Comunque piacere, io sono Carlo.”
Sofia gli strinse la mano e sorrise. “Io mi chiamo Sofia Sveva  Francesca Lopez de Santis.”
“Cavolo, mi spiace. Deve essere scomodo avere un nome così lungo, non trovi?”
Sofia rimase a bocca aperta. Era una battuta o quel ragazzo era deficiente?
“Comunque, ci vediamo in giro! Scusa ancora!” e scomparve, lasciando Sofia frastornata. Qui la gente è pazza, si disse. Da quando era arrivata aveva sentito parlare di tori-vitelli, di zie che volevano essere mucche, aveva visto case storte e dai colori improbabili e le avevano espresso compassione per la lunghezza del suo nome. E non era finita lì. Mentre si dirigeva verso il cancello della scuola, una ragazza le si avvicinò con aria truce. Aveva capelli biondi tinti lunghi e piastrati, indossava un paio di jeans e una maglietta  viola molto scollata. “Così tu saresti la nuova arrivata” le sibilò in un orecchio. Sofia la guardò male, e rispose: “Sofia Sveva Francesca Lopez de Santis, piacere anche mio.”
“Non fare tanto la spiritosa, cocca.  Un consiglio da amica: stai alla larga da Carlo e da Fabio, altrimenti…”
Se c’era una cosa che Sofia detestava, erano le persone che tentavano di darle ordini o le si rivolgevano come se fossero superiori a lei.  “Carissima”, le disse alzando la voce, e facendo così girare verso di sé molti ragazzi. “Prima cosa, non ti permettere di chiamarmi cocca. Seconda cosa, io frequento chi mi pare e piace, considerato che vivo con Fabio e Carlo è un ragazzo adorabile. E comunque, anche se non gli rivolgessi mai più la parola, questo non alzerebbe le tue possibilità di farti notare da loro”, concluse guardandola con uno sguardo sprezzante. Poi si allontanò, lasciandola a bocca aperta, insieme a tutti i ragazzi che avevano seguito la discussione. Stava per entrare nella scuola, quando si voltò e disse alla ragazza: “E comunque, il viola non è più di moda da ben due anni.” Dopodiché, fece il suo ingresso trionfale nell’edificio.  
Quando entrò nella sua classe, indicatagli dalla segretaria, Sofia cercò di sgattaiolare in fondo all’aula per non farsi notare. Tuttavia la notizia del suo “discorsetto” alla ragazza con la maglietta viola era trapelata alla velocità della luce, e tutti si voltarono a fissarla con un misto di timore reverenziale e ammirazione. Nella folle intravide Carlo, che le fece un cenno di saluto. Sofia ricambiò e poi prese posto in uno degli ultimi banchi. Immediatamente, una ragazza si sedette vicino a lei e le strinse la mano con trasporto. Era piccola di statura, con i capelli riccissimi biondi aggrovigliati sulla testa. “Ciao Sofia, io sono Caterina. Cavolo, sei appena arrivata e tutti ti conoscono! Ma come hai fatto a zittire quella vipera di Michela?” le chiese, spalancando gli occhioni azzurri. Allora si chiamava Michela, la ragazza con la maglietta viola.
“Io, ecco… Quella è totalmente pazza” borbottò Sofia.
“Pazza è un complimento. E’ considerata una delle ragazza più carine della scuola, ma è una vera stronza. Insomma, si crede chissà chi e tratta male tutti. Ma tu sei stata fantastica: dovevi vederla, quando ti ha vista arrivare con Fabio e pochi secondi dopo parlare con Carlo, ha avuto un travaso di bile. Cioè, lei si butterebbe sotto una macchina per attirare la loro attenzione, e tu… Poi le hai risposto in quel modo, l’hai finalmente azzittita! Oddio, posso abbracciarti?” disse tutto d’un fiato, e poi le si buttò addosso. Sofia rimase impalata, travolta da quella cascata di parole. Altro appunto: in quel paese erano tutti logorroici. In quel momento, cessarono il chiacchiericcio e le risate. Michela era entrata in classe, e dalla sue espressione si capiva che non era affatto di buon umore. Sarebbe stata capace di ammazzare un bisonte a mani nude, pensò Sofia. Peccato che l’obbiettivo di Michela non fossero i bisonti, ma lei. Prese posto in uno dei banchi davanti, e cominciò a parlare sommessamente con la vicina di banco.  “Quella è Federica, la più leccapiedi della fila di leccapiedi che lecca i piedi a Michela” disse Caterina. Poco dopo entrò la professoressa, che si presentò come signorina Frigerio, e iniziò a parlare del programma dell’anno e dell’importanza della costanza nello studio, e tutte quelle cose che gli insegnati ripetono il primo giorno di scuola.
“E in più, quest’anno, il nostro liceo organizza un corso di teatro, a cui potranno partecipare tutti i ragazzi interessati: c’è qualcuno che si vuole già iscrivere?”
Tutti tacquero, scambiandosi occhiate scettiche e ironiche, quando Michela disse con un sorriso: “Professoressa, la nostra nuova compagna Sofia mi stava giusto parlando della sua passione per la recitazione e della sua felicità nell’aver sentito che quest’anno si sarebbe tenuto un corso di teatro, ma a quanto pare è troppo timida per alzare la mano, quindi ho pensato di farlo io al posto suo.”
La professoressa sorrise raggiante, e Sofia aprì e richiuse la bocca un paio di volte. Capì immediatamente che non avrebbe potuto tirarsi indietro, ma se doveva andare a morire, perché non trascinare con sé il nemico?
“Naturale” disse, spiazzando Michela. “Anche Michela vorrebbe tanto iscriversi, ma è una ragazza riservata e si vergogna di esibirsi davanti ai compagni… Quale occasione migliore per lanciarla?” concluse, con un sorriso incoraggiante.
La professoressa sorrise ancora di più e poi disse: “Nessun altro?”
“Anch’io vorrei partecipare” disse una voce maschile. Carlo.
“Segni anche me!” esclamò Caterina.
“Anche me, professoressa”, disse Federica dopo aver ricevuto una gomitata nelle costole da parte di Michela.
“Ma che bello, ragazzi! Adoro il vostro entusiasmo! Ma adesso iniziamo la lezione,  e se qualcun altro deciderà di voler partecipare, non dovrà far altro che recarsi in segreteria e lasciare il proprio nome.”
“Stai scherzando, spero. Ti prego, dimmi che non è vero” disse Sofia con aria disgustata.
“Ti ho solo detto che adesso dobbiamo andare a mangiare in mensa, non capisco il problema” ribatté Caterina. Sofia si immaginò una sala grigia con i tavoli di plastica e le panche di legno, dove ti servono cemento spacciandolo per pasta. Perché, perché a lei? Rimpianse la sua sala da pranzo e i piatti preparatele da Julienne, il suo cuoco francese. Solo due anni, solo due anni, solo due anni, pensò per farsi forza. Poi seguì Caterina, che la condusse in una sala che corrispondeva precisamente ai suoi timori. Si misero in fila al
self-service e Sofia prese solo un’insalata, quando una voce maschile le chiese: “Qual è il tuo piano, morire di fame piuttosto che restare a vivere qui?”. Sofia si voltò e vide Fabio che la guardava sogghignando.
“Cosa intendi?” rispose lei.
“Anche un cieco noterebbe che ti fa schifo questo posto e la gente che ci vive, e non vedi l’ora di tornare a Milano.”
“Cavolo, sei perspicace. Comunque sei tu quello che rischia la vita. Non credo che il cemento sia commestibile” replicò lei indicando il blocco di pasta nel piatto di Fabio.
“Grazie per l’interesse ma credo che sopravvivrò”
“Io ti ho avvertito, quindi ho la coscienza pulita.”
Fabio alzò gli occhi al cielo e poi le disse: “Ho sentito della tua passione per il teatro. Non vedo l’ora di vederti sul palco nei panni di una contadinella indifesa, magari, o di un albero.”
Questo era davvero troppo. Sofia divenne rossa, e, senza pensare, gli rovesciò l’insalata in testa, lasciandolo a bocca aperta.
“Guerra col cibo!” proclamò una voce in mezzo alla folla. E si scatenò l’inferno.


 

  
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