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Autore: Ariana_Silente    07/09/2012    0 recensioni
TITOLO PROVVISORIO.
"Lo sguardo era fiero e sicuro, una corta barba sul volto ovale che non copriva lo sfregio fresco sulla guancia destra"
Genere: Fantasy, Generale, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Particolari

 

Una bambina di una decina d'anni era accovacciata in un giardino rigoglioso e curato, con fiori appariscenti e variopinti, persa, sembrava, ad osservare il volo delle farfalle dalle grandi ali sbattute con eleganza e superbia. I colori erano tanto sgargianti quanto quelli dei fiori su cui si posavano.
Fu disturbata dal suono di passi sull'acciottolato e con l'espressione all'erta cercò con lo sguardo di chi fossero.
Un bambino con una casacca malconcia e delle braghe ridotte ancor peggio si stava avvicinando. Lei lo squadrò da capo a piedi, lui si fermò con sguardo interrogativo.
«Come ti chiami?» si decise a chiederle dopo un attimo. La piccola si prese qualche attimo per pensare.
«Non ha nessuna importanza, il nome, ma quello che sei» ribatté con tono distaccato, come le avevano insegnato, ma in realtà stava studiando con curiosità lo sconosciuto che aveva davanti.
«Sono il figlio di un mercante dell'est» si guardarono. Lei sembrò voler parlare, poi sembrò ripensarci, infine vinse la curiosità.
«Vieni dall'est? È vero che là ci sono elefanti selvaggi, come quelli che si vedono qui nei circhi, solo liberi?» gli si era avvicinata, ansiosa di conoscere la risposta. Il bambino sorrise e spostò il ciuffo ribelle dalla fronte.
«Sì, ma stanno nelle foreste. Io non li ho mai visti.»
«Oh, ma... è vero che sono feroci? Mi hanno detto che è per quello che li incatenano» insistette, lui scosse la testa.
«No! Stanno per i fatti loro se non li disturbi! Nei circhi li tengono così per evitare che scappino.» la sua risata genuina la colse impreparata e non seppe se imitarlo o meno.
«A me fanno paura... Sono così grandi e con quelle zanne...»
«Sono così grandi per non aver noia dagli altri animali e la proboscide così lunga serve per mangiare, lavarsi, giocare...Sono giganti buoni: non devi averne paura» le spiegò ancora. Lei gli sorrise timidamente.
«Ara!» una donna con una tunica da tutrice era comparsa all'ombra di un albero all'inizio del vialetto su cui erano i bambini.
La bambina trasalì e girò il capo, quindi si rivolse al suo interlocutore.
«Devo andare. Torna dai tuoi genitori, non puoi rimanere qui» e si affrettò a raggiungere la domestica, senza voltarsi indietro.
Ara seguì di buon grado la donna, sorbendosi con aria annoiata l'ennesimo rimprovero sul fatto che si fosse trovata esattamente dove non doveva, a perder tempo.
La bambina sembrava non dar molta retta alla voce irritata della donna che le parlava, ripensando alle parole del bambino di poco prima, ma la sua attenzione fu richiamata ben presto, quando fu menzionato il padre.
«Questa volta mi costringi a segnalare il tuo comportamento. Forse tuo padre sarà in grado di farti rigare dritto.»
Erano le parole che nessuno dei tre figli del Governatore voleva sentir pronunciare.
Il Governatore era un uomo severo e intransigente, innanzitutto con se stesso e a maggior ragione con gli altri.
Si era costruito la sua fortuna da solo, aveva iniziato da umile bracciante per arrivare a un passo dal potere supremo. All'infuori di lui, solo il Sovrano del regno vantava un potere maggiore, di cui era il braccio destro.
Aveva imposto una disciplina ferrea, quasi marziale, in casa propria.
I suoi figli gli dovevano obbedienza e ammirazione, una delle prime cose che era stata loro insegnata. Aveva anche imposto un'educazione intensa e precisa per i propri pargoli, da quella della mente a quella del corpo.
Ad Ara riuscivano difficili le ore in cui doveva rimanere ferma per ore a leggere e scrivere e poi a studiare, preferiva molto di più quelle in cui poteva correre e sfogarsi, rimanendo nei vasti prati e giardini della dimora signorile di suo padre.
Nei momenti di pausa si fermava ad osservare ciò che la circondava con un misto di curiosità e diffidenza, finché i fratelli più grandi non la coinvolgevano in qualche gioco.
«Mio padre? Che bisogno c'è di disturbarlo per una sciocchezza simile, signora maestra? Vi prego, stavo solo...»
«So distinguere da me una sciocchezza, Ara.»
Con grande disappunto della piccola, all'ombra del porticato era comparso suo padre. Una figura alta e imponente: aveva il viso rasato e pulito e i capelli brizzolati tenuti ordinati da una coda fissata dietro la nuca. I suoi occhi glaciali e duri fissavano la donna e la bambina.
La donna si irrigidì e fece un inchino, la bambina tacque all'improvviso e portò le braccia lungo i fianchi, facendo un passo all'indietro per stare all'ombra della tutrice.
Prima di abbassare il capo in segno di rispetto e sottomissione, la bambina riuscì a vedere al fianco del padre la figura elegante della madre e per un attimo sperò che il giudizio paterno potesse essere meno severo in sua presenza.
«Parlate, dunque» era molto simile a un ordine più che a un invito, quello che rivolse alla donna difronte a sé. Lei esitò un attimo, come a raccogliere le idee, poi parlò cauta.
«La bambina non era dove l'avevo lasciata, padrone, si è allontanata nel giardino.» Era una mezza verità, infondo non voleva che la bambina venisse punita, ma a quel punto non poteva nemmeno più tacere.
Ara trattenne il fiato e sbirciò in su verso il padre. La maestra la stava coprendo. Non si era semplicemente allontanata, era sgattaiolata nel giardino... poi era arrivato il ragazzino dell'est...
I genitori fecero qualche passo avanti, la moglie appena dietro al marito.
«Gli elefanti selvaggi sono liberi nell'est» le disse. La luce illuminò il visino della bambina.
«Sono così grandi per non doversi preoccupare degli altri animali e...» la sua voce entusiasta si spense all'improvviso e lo sconforto le fece arricciare le labbra. Guardò un attimo suo padre negli occhi che si erano chiusi come due fessure.
L'espressione dell'uomo si fece minacciosa, Ara tremò impercettibilmente.
«Vieni qui.» Quel tono non lasciava adito a proteste. La bambina deglutì e avanzò un passetto dopo l'altro con estenuante lentezza, ma il padre si dimostrò paziente.
«Ara Ruen, dov'eri?» Seppure l'uomo fosse immobile, Ara sapeva bene che era in arrivo uno scapaccione di quelli che lasciano il segno.
Non ebbe il coraggio di guardarlo in faccia, parlò con lo sguardo rivolto alle scarpette lucide anche se impolverate.
«Nel giardino, padre. Guardavo le farfalle» le sollevò il mento con due dita, la bambina era già pronta a ricevere lo schiaffo.
«Ti sei rivolta a uno sconosciuto» la delusione del padre era palpabile nell'aria.
«Padre, era un bambino come me..» se già la situazione non era delle migliori, quelle parole la fecero precipitare in maniera irreversibile.
Ara non si accorse nemmeno dei movimenti veloci che compì la mano di suo padre, ma il fuoco che provocò il contatto del manrovescio con le sue guance lo avvertì chiaramente. Furono tre schiaffi metallici che le ruppero il labbro inferiore.
Aveva detto le parole sbagliate.
Pochi potevano paragonarsi alla famiglia Ruen, per potenza, ricchezza ed influenza e il Governatore non sopportava che fossero fatti confronti tra sé e altri, lui che tanto aveva fatto per distinguersi, fino a diventare il braccio destro del Sovrano.
E non lo accettava men che meno dalla più giovane dei suoi figli.
Ara riprese a respirare dopo qualche attimo, sentendo colare sul mento una goccia di sangue tiepido e fastidioso, ma non osò versare nemmeno una lacrima, non era permesso.
«Chiedo perdono, padre. Non mi rivolgerò mai più a nessuno, non è degno della nostra illustre famiglia.»
Ara prese coraggio e fissò gli occhi lucidi in quelli del padre. L'ira non era svanita, ma le parole che aveva pronunciato dimostravano che aveva ben presente quale fosse la sua posizione e quali i suoi doveri, nonostante la giovane età.
L'uomo annuì, come rassicurato, le voltò le spalle, prese per mano la moglie e la condusse con sé. La signora non gettò nemmeno uno sguardo dietro le spalle per sincerarsi delle condizioni della figlia.
La volontà del Governatore era anche quella dalla Signora: Ara se ne rammaricò per l'ennesima volta.
La tutrice si avvicinò alla bambina e le mise dolcemente una mano sulla spalla, quindi con un fazzoletto che non rimase molto tempo candido, le tamponò il labbro.
Sospirò prima di mormorarle: «Mi dispiace, non immaginavo fosse nei paraggi.»
Ara la guardò.
«Non dispiacetevi per me. Toccherà una punizione anche a voi» un sorriso triste si dipinse sulle labbra gentili dell'altra.
«Sopravviverò, non preoccuparti.»
Un solo singhiozzo scosse allora la bambina che si fece guidare, desolata, in casa.

 

                                                                                                                                                           ҉        

 

Passò diverso tempo prima che Ara e il ragazzo dell'est si incontrassero di nuovo.
Trascorsero alcuni anni, i suoi fratelli vennero arruolati nell'esercito e poteva vederli solo nei periodi di congedo, coincidenti con le feste più importanti, un lusso che poche famiglie oltre a quella dei Ruen potevano vantare.
Ad Ara mancavano quei monelli che le facevano scoprire il mondo, mettendola alla prova in gare che non avrebbe mai potuto vincere.
Soprattutto le mancavano i programmi d'istruzione degli anni precedenti: almeno poteva correre e stare in giro per i prati per qualche ora, attualmente invece seguiva corsi di musica e di galateo che la facevano annoiare da morire e non le consentivano di vagabondare per la casa, se non in rare pause in cui veniva accompagnata nel giardino interno e più sorvegliato.
La sua anziana tutrice le rimaneva al fianco, contenendo la sua irrequietezza e rimarcando spesso quali fossero i limiti da non varcare e lei, con una malcelata irritazione, ritornava sui suoi passi.
«Non sei più una bambina, Ara. Certe mancanze non ti sono più concesse» le ripeteva instancabile.
«Perché invece non parliamo mai di quello che viene a mancare a me?» borbottava a mezza voce tutte le volte, facendo in modo che solo l'anziana potesse udirla, al ché la donna scrollava le spalle, spazientita.
In uno di quei pomeriggi in cui sedevano all'ombra delle betulle che suo padre aveva fatto crescere, una figura transitò accostato al muro candido difronte a loro, ma ciò che attirò l'attenzione della ragazza fu che non procedeva a testa china e con fare impaurito, come i servi di più basso rango come lui, a giudicare dalla divisa che indossava.
Avanzava senza far rumore, in modo da non disturbare le due, ma non si poteva scorgere il ben che minimo timore nel suo modo di fare.
Quando si accorse di essere osservato, osò alzare lo sguardo e incrociare quello di Ara.
La ragazza lo guardò scostarsi il ciuffo ribelle dalla fronte e quel gesto richiamò alla mente il bambino mal vestito che veniva dall'est e parlava di elefanti e soprattutto ricordò la goccia di sangue scivolare lungo il mento.
«Vi ricordavo più piccola» le disse, senza tentare di avvicinarsi. La tutrice si alzò minacciosa.
«Vattene immediatamente o chiamo le guardie.»
«Signora maestra, vi prego, sedete. Siamo soli e non stiamo facendo nulla di male» si decise a intervenire la ragazza, facendo sedere la donna più anziana. Quindi tornò ad occuparsi del ragazzo.
«Mi ricordo di te, ragazzo dell'est. Non ti dissi di tornare dai tuoi genitori?» lui annuì.
«Lo feci, ma per una serie di coincidenze ora servo i Ruen» le rispose schiettamente.
«Consideralo un grande onore. E ora va', qui non servi» e gli fece cenno di andare per la sua strada, cosa che fece senza ribattere.
La tutrice non attese che i passi scemassero sul lucido pavimento di mosaico, prese la ragazza per mano con impensabile decisione e la condusse con sé lontana dal giardino.
Una settimana più tardi, Ara leggeva comodamente adagiata su un'ampia poltrona di vimini in un angolo del solito giardino quadrato interno che era diventato l'unico punto della casa da cui potesse guardare una porzione di cielo più grande del rettangolo di una finestra. L'unica novità era che l'avevano lasciata da sola, la sua tutrice si era sentita poco bene, ma le guardie erano a portata d'orecchio, pronte a intervenire.
Aveva chiesto spesse volte perché mai col tempo le fosse stato impedito di uscire nei grandi giardini esterni, che ormai poteva visitare solo durante le grandi occasioni, mai da sola, ma ovviamente l'unica risposta che aveva ottenuto era la solita: così aveva disposto il Governatore, d'altra parte che cosa mai poteva mancarle?
Ma Ara sapeva bene cosa le mancava.
Le mancava la libertà di muoversi da sola, senza nessuno che le facesse ombra. Le mancava il tempo in cui poteva sgattaiolare liberamente e la punizione più temibile era uno scapaccione.
Alla sua età doveva pensare a contrarre un matrimonio che fosse utile alla famiglia e come le ripeteva frequentemente la madre, avrebbe dovuto rivedere il suo carattere perché una buona sposa non deve avere la risposta pronta su tutto e non contraddice in continuazione chicchessia, a maggior ragione il proprio marito.
Era la cosa che più l'angosciava.
A sua madre forse poteva andar bene, aveva trovato un uomo che la rispettava e a modo suo l'amava, ma nemmeno questo le bastava.
Il libro era stato abbandonato sulle ginocchia, mentre le passavano per la mente tutti questi pensieri, alcune pagine si erano piegate, con uno sbuffo le sistemò e chiuse il libro con un gesto secco.
Accarezzò con sguardo distratto le foglie verdi brillanti e i vari fiori ai piedi della sua poltrona, finché un'ombra oscurò il bianco di un giglio.
Ara alzò lo sguardo sorpresa, credeva di essere da sola, e si trovò davanti di nuovo il ragazzo dell'est.
«Chiedo scusa, ma ho visto che stavate osservando qualcosa e volevo vedere anch'io» le spiegò. Lei si guardò intorno.
«Fatti più lontano, servo» lui con un'ombra negli occhi fece un passo indietro.
«Se oserai avvicinarti ancora te ne farò pentire» lo minacciò, ma lui la fissò negli occhi e non sembrò nemmeno impensierito.
«Stavate guardando la margherita?» lei lo fissò con tanto d'occhi, chiedendosi cosa fosse.
«Credi che non ne sarei in grado?» lo apostrofò invece. Lui la fissò intensamente.
«Il tempo è passato, ma io vedo quella stessa bambina che chiedeva degli elefanti selvaggi» scosse le spalle. Lei gli lanciò un'occhiata, questa volta turbata, un'ombra era scesa sul suo volto e il ragazzo colse l'occasione per fare un passo avanti.
«Permette che vi mostri. Vedete, è questa più piccola, all'ombra del giglio» allungò una mano e scostò delicatamente il grande fiore per scoprire uno più piccolo e meno appariscente, alto pochi centimetri da terra.
Ara si stupì dei numerosi fiorellini e piccole piantine che crescevano appena sotto quelle che i giardinieri di suo padre si affannavano a curare tutti i giorni.
«Sono tutte piante infestanti, darò ordine di curare meglio queste aiuole» sentenziò decisa. «O forse sono solo altre piante e fiori che meritano un'occhiata» obiettò il ragazzo. Si guardarono, lui tranquillo, lei pensierosa.
«Ma sono così piccole che nemmeno si vedono...» iniziò Ara. «Sono i particolari a fare la differenza» concluse lui.
Le rivolse un cenno del capo e la lasciò a rimuginare.

 

҉

 

Ara non ebbe altre occasioni per rimanere nel giardino, i genitori presero a condurla con loro a ricevimenti e feste e fu quello il suo ingresso nella società che contava: nobili, principi, funzionari del Sovrano l'accolsero con distaccato interesse e a lei fu subito chiaro quello che passò per la mente di molti: era un partito molto interessante e proficuo ma anche molto oneroso, insomma un coltello a doppio taglio. Non ci mise molto ad odiare ogni singolo minuto trascorso accanto alla madre o sotto lo sguardo vigile del padre a far la conoscenza di giovani e meno giovani che non si interessavano ad Ara, ma valutavano quanto fossero disposti a rischiare per vantare un legame tanto stretto con Loky Ruen, Governatore e consigliere reale.
Di contro ebbe molto tempo per riflettere sulle parole di quel ragazzo che sembrava insofferente alle leggi di suo padre.
Ara chiese notizie di quel giovane cui venivano affidati i compiti più pesanti e ingrati. Eppure li faceva senza troppo lamentarsi e soprattutto non mostrando mai timore o reverenza.
Venne a sapere che proprio per il suo comportamento più volte si era buscato delle sonore legnate, ma non aveva mai smesso di mostrarsi tranquillo e a suo agio e, soprattutto con la lingua lunga, troppo lunga per un servo del suo rango.
«Se continua così non se la passerà bene» le aveva detto il responsabile della servitù una sera, sdegnoso.
Le parole che la costrinsero a riflettere furono quelle della sua tutrice, che col tempo era diventata non solo maestra, ma amica e confidente.
«Fai domande che non devi fare e ti interessi di cose che non ti riguardano, Ara. Ti avverto, la curiosità uccise il ratto» le disse l'anziana tutrice una sera, accanto al camino della sua stanza, mentre leggeva un libro. Ara sollevò gli occhi dalle righe d'inchiostro, sorpresa.
«Ho soltanto chiesto informazioni sul personale che lavora in casa mia» rispose con tono leggero.
«Prego che sia così.» ribatté la donna, senza alzare lo sguardo dal lavoro a maglia che le occupavano le mani rapide sugli aghi.
Sembrò non accorgersi del lungo sguardo che la ragazza non distolse per parecchi minuti.
Qualche giorno più tardi, Ara stava percorrendo un lato del giardino interno per raggiungere la sala di musica e se lo vide venire incontro zoppicando.
La sua espressione da annoiata si fece seria.
«Che cos'è successo?» gli chiese avvicinandosi cauta.
«Da quando ti rivolgi a un ignobile servo?» le rispose in malo modo, come mai aveva fatto, senza usare il plurale.
Lei tentennò un attimo.
Se qualcuno fosse venuto a saperlo... si lanciò un'occhiata dietro le spalle, poi tornò a guardare il ragazzo ingobbito e il pensiero di quello che sarebbe potuto succedere l'abbandonò. Quel ragazzo aveva qualcosa che la colpiva e le spiaceva che soffrisse.
«Da quando il tempo è trascorso, eppure io vedo ancora quel bambino dell'est che raccontava di elefanti selvaggi» si guardarono e lui sbuffò, scuotendo la testa.
«Scusa è che...»
«Ho sentito che ne prendi parecchie» gli disse avvicinandosi ancora e tendendogli la mano, come a volerlo aiutare. Lui la guardò, poi esitante l'afferrò e si fece sostenere almeno un attimo.
«Vorrebbero vedermi impaurito e umiliato, ma non gli darò mai la soddisfazione» le confidò con tono di sfida all'orecchio. Lei lo squadrò, sulla schiena c'erano segni verticali e scuri. Si fece cupa in viso.
«Mio padre non cambierà la sua politica. Se non ti pieghi, morirai. Qui tutti dobbiamo sottostare alle sue leggi. Anche se non era mai arrivato a... questo» e lo indicò turbata.
Suo padre era facile alla collera e molto spesso puniva pesantemente chi sbagliava, ma mai aveva sentito che avesse permesso una punizione fisica.
«Non temere, mi riprenderò presto.»
 «L'unica cosa che riprenderai presto saranno le botte, se continui così» cercò di insistere.
«Sono quello che sono e per questo non mi piegherò» ribatté con caparbia veemenza.
Lei sospirò.
Doveva ammettere che ammirava quella determinazione e quel coraggio... lei poteva forse dire di esserlo altrettanto?
«Fatti trovare su alla vecchia torre, vedrò di fare qualcosa per queste ferite.... la conosci?» decise alla fine e si guardarono ancora, l'espressione del ragazzo era tesa e affaticata, ma nei suoi occhi limpidi si poteva leggere sorpresa.
«Ne ho bisogno, perciò non ti chiederò se hai pensato ai rischi... preferisci sotto la feritoia o accanto ai nidi dei colombi?» si scambiarono sguardi eloquenti, la ragazza sorrise.
«Particolari, Caylus» il ragazzo la guardò allontanarsi a bocca aperta.
Lei corse via, cercando una scusa plausibile per il ritardo.

Eppure, dopo tanto tempo, sorrideva.

  
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