A/N: Non si tratta che di un piccolo
prologo alle oneshot che seguiranno. Sono nuova di
questo fandom, e si tratta di una piccola prova.
Spero gradirete. (Essendo una sperimentazione, va da sè che i commenti sono altamente graditi. Sia in positivo che in negativo.)
SPOILER PER L’ANIME, EPISODIO 50.
F r a m m e n t i
Act 1.
Genesis.
To wither away.
La penna
ferisce più della spada, e la carta è sicuramente più interessante della carne.
E, da un punto di vista puramente obiettivo,
l’inchiostro è addirittura più bello del sangue.
Da un punto di vista soggettivo, per Lui era anche più bello dello
stesso sangue del suo sangue.
Non va bene. No, no.
Quand’è che hai cominciato a pensare così,
caro?
Quand’è che ti ho perso, mh?
Non me ne sono accorta, nonono,
davvero.
Non me ne sono accorta, caro.
Mi perdoni?
Mi perdonerai.
Lo fai sempre, caro.
Mentre pensava questo, la
giornata era afosa ed immobile, statica.
I capelli scuri della donna erano raccolti impeccabilmente in un nodo alla base
del collo, a salvarla dalla cappa di caldo. Gli occhi chiari spaziavano annoiati
sul paesaggio che il ritaglio di vetro della finestra le offriva.
Dalla
finestra all’anello con la pietra rossa. Rosso fuoco, rosso tramonto, rosso sangue.
Suo marito non le faceva più regali da tanto, ormai.
La carta dei libri era molto più attraente di lei, l’inchiostro dei suoi
appunti molto più importante del sangue del suo sangue
che, in una camera del piano superiore, lentamente si spegneva.
E rantolava. Si, rantolava.
Oh, già.
Quasi
essendosi ricordata solo in quel momento di quel qualcuno che moriva, lassù, la
donna lasciò sfuggire un sospiro di stizza. Amava
molto suo figlio, lo amava davvero, ma era arrivata al
punto di sopportazione.
Era un
figlio terribile, terribile.
Ora, con la consapevolezza della vita che gli scivolava via tra le dita, era – se
possibile – peggiorato.
Si lamentava, richiedeva attenzioni, richiedeva cibo,
acqua, libri per passare il tempo, compagnia, perché non gli andava giù l’idea
di morire da solo.
Quando
lei era lì, lui mormorava parole perfettamente sensate se prese singolarmente,
ma che prese nell’insieme non avevano alcun senso. Le causava il più delle
volte un’emicrania invidiabile.
Che la morte se lo
prenda, una volta per tutte. Prima, dopo. Non la
chiamerei neanche vita, la sua.
Nessuna
madre vuole vedere soffrire i suoi bambini – si ripeteva
lei, giustificando così quei pensieri poco consoni. Inoltre, non
era affatto di buonumore, perché era l’unica disposta a fare compagnia
al povero, piccolo moribondo.
Sempre lei, perché suo marito aveva sempre di meglio da fare.
Suo figlio
non sembrava apprezzare particolarmente, tuttavia, dato che la prima domanda
che le poneva, con un filo di voce debole, patetico e deluso, era sempre la
stessa.
“Dov’è
lui?”
La stanza
era in penombra, i raggi di sole illuminavano la polvere che, indisturbata,
aleggiava nell’aria. Il letto era sfatto, le coperte avvolte attorno all’ombra
di quello che un tempo era stato suo figlio.
Era stato
un ragazzo agile e prestante, un tempo, ma il viso sul cuscino era un viso consumato.
Ah, stupida candela
consumata. Ma spegniti. Spegniti,
spegniti, una buona volta!
“Lo sai
che è impegnato con le sue ricerche, Edward.”
Detto
questo, Dante sorrise con quel sorriso che sapeva di scusa, chiudendo la porta
alle sue spalle.
Dapprima, si era trattato semplicemente di
stanchezza. Quella che aveva scambiato per pigrizia, quando
senza rendersene conto rimaneva a letto per un giorno intero, incapace
di razionalizzare un pensiero coerente, capace solo di star lì e dormire,
riposare, o fluttuare in un più semplice dormiveglia.
Incapace di capire ogni discorso
che la madre tentava di spiegargli, incapace di afferrare ogni lezione
alchemica che la madre tentava di insegnargli.
Sua madre pensava che semplicemente non avesse voglia di ascoltarla, ma lui non
la capiva.
Non la capiva affatto.
Mormorava qualcosa, per rispondere a quelle accuse.
Lei non capiva.
I libri finivano per terra, in uno scatto d’ira completamente ingiustificato
del ragazzo, che gridava che era lei, la stupida. Le parole si perdevano
nel rumore di cocci di vetro infranti sul pavimento.
Aveva cominciato a non alzarsi più dal letto,
lamentando atroci mal di testa.
Sua madre diceva di ‘piantarla di cercare di attirare l’attenzione di suo
padre, perché apparentemente suo padre era al di sopra di
certe strategie, e aveva di meglio da fare’.
Non trovando la forza di lanciarle contro uno dei libri che adornavano il comodino, si limitava a
risponderle causticamente, aspramente, maleducatamente.
Restavano in silenzio, e le palpebre pesanti
calavano sugli occhi stanchi. Per qualche minuto, tremavano.
Mormorava qualcosa, ancora, per poi apparentemente non ricordare più nulla.
E domandare quindi di nuovo perché lui non era lì, mai, mai, mai.
Sua madre passava una mano magra
fra i mossi capelli biondi, disordinati.
“Ha da fare, Edward.”
Ma lui non rispondeva, sguardo vacuo negli occhi
d’ambra, occhiaie vistose sulla pelle un tempo
abbronzata.
Dante
sapeva perfettamente il motivo del malessere incurabile di suo figlio, poiché
dopo aver fatto adeguate ricerche sui libri di suo marito – in uno di quei
giorni in cui non aveva nulla da fare, e la vita
sembrava più lunga dell’eternità che si era concessa – era stata lei a
causarlo.
I sintomi, dalla stanchezza ai discorsi confusi, dall’umore instabile
all’insonnia, dall’emicrania al viso arrossato dalla febbre saltuaria,
coincidevano tutti sotto un’unica voce: intossicazione da mercurio.
Hohemheim
avrebbe pensato probabilmente che, ancora una volta, Edward avesse
messo le mani fra le sue cose quando non avrebbe dovuto.
Tuttavia,
Hohemheim non aveva pensato assolutamente a nulla. Non aveva notato quelle
gocce di mercurio mancanti alla sua collezione, non aveva mostrato alcun
interesse per la malattia del figlio.
Il Peccato di cui si era macchiata Dante non era servito a
un granché, dato che Edward stava morendo per niente.
Quindi la donna si limitava a sbuffare, sbuffare, sbuffare e sorridere, ascoltare quella voce pateticamente debole, e pregare quel dio in cui non aveva mai creduto di portarselo con sé.
Voleva che
Hohemheim tornasse a dedicare loro attenzione. Voleva gli occhi di suo marito
solo per loro.
Ma la realtà era cruda, e diversa. Ironicamente diversa.
Mi hai sussurrato dolci parole, caro. Dolci parole
d’amore solo per me, di notte, nella città fantasma…
Fantasma e vuota, tutta per noi. Tu ed io, re e regina dell’eternità. Era il mio sogno d’amore.
Immortali, noi, uno al fianco
dell’altra, per sempre, caro. Era la nostra promessa d’amore.
Voglio sentire il calore del tuo corpo,
ma il nostro letto è sempre vuoto.
Edward era il frutto di un amore che si era spento.
Per quel che la riguardava, sarebbe stato molto meglio se si fosse spento anche
lui.
Per Hohemheim, Edward non era mai stato un granché interessante.
Quando suo figlio era piccolo, era stato troppo piccolo per
attirare la sua attenzione, ed oltretutto i bambini non gli erano mai
piaciuti. Non gli piaceva il modo in cui Dante si perdeva in quei piccoli
giochi di mamma, entusiasta mentre emetteva quei
gridolini infantili, che non significavano nulla. Il bambino rideva
di lei, ma lei non capiva.
Lei era una mamma, lei era una donna che aveva appena creato la vita.
Crescerà stupido, se Dante continua
così.
Sua moglie continuò così, e l’uomo non esitò a darle la colpa quando si accorse che suo figlio non era particolarmente brillante genericamente parlando, e non aveva un particolare talento neanche per l’alchimia.
Hohemheim aveva sperato di trovare in lui un valido
aiuto nelle sue ricerche, che negli ultimi periodi erano divenute sempre più
impegnative. Dante era una donna avida, seppur dannatamente affascinante –
un’eterna primadonna, una donna che gli aveva strappato il cuore, e lo aveva
tenuto per sé – interessata ormai esclusivamente alla pietra filosofale,
alla vita eterna e a quelle tipiche e frivole faccende da donne.
Hohemheim era salito su un altro livello, ormai.
Hohemheim voleva creare la vita.
Dante non poteva capire.
Per Hohemheim, suo figlio Edward non era mai stato
un granché interessante.
Finchè un giorno – con grande
sollievo di sua moglie – era morto.
“Caro…?”
L’uomo sollevò lo
sguardo d’ambra, spostandolo sull’uscio semiaperto da cui erano entrate Dante e
la luce del giorno. Sua moglie non rispose, limitandosi a guardare il
pavimento.
“Si?”
“Edward, lui… Il
medico…” La vide mordersi il labbro, scostare lo sguardo d’un
lato. Lui batté ciglio, schiudendo le labbra per incalzarla. Ma Dante si era
già gettata contro di lui, cingendogli il collo e le spalle in una stretta
disperata.
Una sola lacrima rigava il volto di sua moglie, ed Hohemheim pensò che, in
fondo, era più bella quando piangeva.
Perché sembrava umana.
“Nostro figlio…”
sussurrò lei, serrando le labbra in una linea pallida, nascondendo il viso allo
sguardo di lui.
(Primadonna.)
Lui rimase immobile, passando di tanto in
tanto la mano fra i capelli della donna, carezze consolatrici.
Non provò nulla di devastante o particolare, se non la stupenda, magnifica
sensazione di un disegno più grande che finalmente volgeva a suo favore.
Il funerale era stato tranquillo ed intimo, poiché né Dante, né suo
marito e tantomeno suo figlio erano mai stati delle
persone amanti della folla e dei rapporti interpersonali.
Qualche allievo di Hohemheim si era presentato per pura cortesia: Dante sapeva
che la maggiorparte degli allievi di suo marito detestavano il suo Ed, perché
Ed era stato tremendamente invidioso della
loro possibilità di passare così tanto tempo con suo
padre – che non ne passava affatto con lui – e
delle attenzioni che ricevevano da lui – quando lui non ne
riceveva mai nessuna, non essendo abbastanza brillante o acuto d’ingegno.
Anche Dante, in silenzio, li invidiava.
(Perché il suo letto era sempre vuoto.)
Qualche donna che saltuariamente prendeva il tè con
lei si era presentata vestita di nero, avendo persino la decenza di versare
qualche lacrima, e quindi aggiungere al tutto un tocco un po’ più drammatico.
Dante, da dietro il velo scuro, non aveva versato una
lacrima.
Hohemheim, da dietro lo specchio degli occhiali, aveva un’espressione
tranquilla e seria.
Quegli occhi senza lacrime si erano incrociati mentre
la bara veniva ricoperta di terra.
Ed Hohemheim, lui aveva sorriso.
A/N: Si. Spoiler
Seri. Io ho avvisato.
Comunque,
tecnicamente parlando, la scelta di chiamare l’ umano Envy “Edward” è stata una scelta
puramente mia. Perché ci stava tremendamente bene. Per
i progetti della fic.
Dato che
qualcuno (guarda una nipote a caso) si è confuso, no,
la donna non è in alcun modo Trisha. E’ ambientato tutto secoli prima della serie, comunque, Trisha non penso fosse nata. Jaja.
Anche se non sembra
dal prologo, o primo capitolo, sarà per lo più incentrata su Envy. O meglio, saranno una serie di oneshot svariatamente retrospettive.
Personalmente
sono una piccola Fangirl in erba,
quindi mi piace costruirmi i Missing Moments. Cioè, E’ nato tutto da
quella maledettissima frase di Dante nell’episodio 50. Dante mi piace
particolarmente come personaggio, mentre per qualche motivo detesto Hohemheim.
Ah, si. Si
suppone che Envy sia nato da loro due
tiposecoli prima, ma considerati i colori
visti nell’episodio, Hohemheim avrà sempre scelto
corpi biondi. Con gli occhi dorati. Mah.
Per quel
che riguarda Dante, lei cambia corpo. La descrizione fattane è puramente random, insomma.
Sono nuova
del fandom, e questa è una piccola prova. Vediamo il
riscontro °_°”
[Sorry Nipote Miyu, non ho più
ispirazione per Naruto ò_ò Ma a te vanno i ringraziamenti di questa fic, sisi.
]