Capitolo 9 – Something awkward (Yohei Mito)
Rimasi sulla soglia per qualche istante, la mano bloccata
sulla maniglia della porta. Capii immediatamente che c’era qualcosa che non
andava, il silenzio, tanto per dirne una. Quando tutti si voltarono ancora mezzi
sconvolti nella mia direzione, mi controllai freneticamente la cerniera dei
pantaloni, stupidamente convinto che lo shock fosse dovuto ad una cosa del
genere. Una volta, mi era successo e posso garantire che non è una bella
esperienza; nella migliore delle ipotesi, vai incontro a battutine di ore,
ovviamente allusive al punto giusto, così tu non sospetti niente per un casino
di tempo, lasciando agli stronzi della situazione il loro divertimento. Quando
ti accorgi della tua figura di merda, è troppo tardi; matematicamente se ne
ricorderanno per mesi, forse per anni. Probabilmente quell’episodio si
aggiungerà ai fottuti ricordi indimenticabili, assieme al rutto di Noma al fast
food in centro, la caduta di Takamiya davanti a quella bonazza della terza D e
l’autogol di Okusu al 89’ in una storica partita alla Playstation.
Ma quella volta non era andata così. Insomma, i miei
pantaloni non c’entravano niente. E di questo me ne accorsi ancora prima di
dare un’occhiata alla cerniera.
Me ne accorsi dalle occhiate che mi lanciarono. Da
salvatore della patria.
E io sono il salvatore della patria per antonomasia.
Insomma, per dirla in parole povere, c’erano rogne.
Me ne vergogno, ma la prima cosa che feci fu gettare uno
sguardo ad Haruko. Ma Haruko era solo preoccupata, stava bene. I suoi occhi
sorrisero mentre mormorava il mio nome con sollievo. Era arrivato anche il suo
di salvatore. Distolsi il viso da lei, tornando a guardare il resto della
stanza. La stanza delle riunioni dello Shohoku, così la chiamavano Kana ed
Haruko. In realtà era solo un ripostiglio attinente agli spogliatoi della
squadra, dove le due manager appendevano gli schemi della squadra, i calendari
e le varie formazioni avversarie. E dove si parlava, o perlomeno si provava a
parlare. Con una squadra di teste di cazzo come quelle, come si poteva parlare?
Si gridava, ci si menava, si rideva soprattutto. Con le dovute eccezioni. Per
la precisione, tre: Kaname che pensava alla squadra e al fatto che fossero in
ritardo sulla tabella di marcia, Haruko che, ci scommetto, pensava a me e al
fatto che fosse in ritardo per la nostra uscita, ed ovviamente Rukawa che
pensava ai cazzi suoi ed al fatto che fosse in ritardo per la sua dormita.
Decisamente non ci sono riunioni silenziose, credo che sia anche una contraddizione
in termini. Come fanno ad esistere delle riunioni silenziose? E poi, a conti
fatti, sono fermamente convinto che tutti in questa squadra lo odino il
silenzio. Il silenzio è quello della sconfitta, quando negli spogliatoi
arrivano le voci della vittoria degli altri, attutite solo dalle porte chiuse,
e che invece rimbombano nel cervello come un martello pneumatico. E poi, anche
se magari nessuno ci pensa tra le grandi star, c’è anche il silenzio dei
tifosi, quelli che se ne vanno a casa scazzati e con le bandiere ripiegate
lungo i fianchi.
La vittoria urla, strepita, incita, grida; non se ne sta in
silenzio.
Per quanto riguarda me, nel caso vi interessi minimamente,
ancora prima di entrare come salvatore della patria in questa squadra di pazzi,
detestavo il silenzio. Ho scelto degli amici casinisti, una vita urlata,
persino una ragazza chiacchierona come poche. E la adoro per questo. Anche se
questo lei, Haruko, non lo saprà mai. Le rimprovererò sempre di parlare troppo
e di darmi fastidio, quando non è minimamente vero.
Silenzio. Ancora.
Ce ne eravamo dimenticati un po’ tutti del suo sapore.
Un orribile sapore, come una medicina cattiva ed amara.
Eppure lo gustiamo per un po’, ricordandoci dove l’abbiamo
già assaporato e sforzandoci al contempo di scordacene.
Bugiardi.
Sappiamo perfettamente dove l’abbiamo già sentito.
Quando Hanamichi ci disse che Ayako era incinta. Quando,
immediatamente dopo, ci disse dell’aborto spontaneo.
Solo allora abbiamo conosciuto il silenzio, il suo vuoto.
E, spaventati, lo abbiamo riempito di parole. Per un anno.
L’abbiamo saturato a tal punto da scordarci il sapore del silenzio,
terrorizzati dall’idea che si ripresentasse nelle nostre bocche e nelle nostre
orecchie.
Deduco che il motivo del silenzio sia sempre lo stesso. In
fondo abbiamo rivisto Ayako solo sette giorni fa.
Ayako, già… quando la conobbi, la catalogai nella mia mente
come una delle mie tante conoscenti. Carina sì, enormemente, ma fuori dalla mia
portata, troppo autoritaria e violenta per i miei gusti per farci un pensiero
più serio. Il mio cervello la bollò come una che avrei salutato nei corridoi
affollati, con cui avrei scambiato qualche parola all’intervallo, a cui avrei
chiesto come andavano gli allenamenti di Hanamichi. Solo questo.
Ed invece, volente o nolente, Ayako è stata un uragano
sulle nostre vite.
Non da sola… con quella testa di cazzo di Rukawa, ovvio.
Lui, però, è rimasto come un vulcano inattivo, di cui tutti avevano, e forse
hanno ancora, paura. Ma non è mai esploso, non ha mai fatto danni, perlomeno a
noi. Ayako invece ci ha decisamente sconvolto la vita. Nessuno l’ammetterà mai
compiutamente, ma è così. Credo che, a conti fatti, tutti in questa scuola
possano dire la stessa cosa, tranne le matricole arrivate solo quest’anno.
Ayako ci ha cambiati tutti, un po’.
Vedere quella ragazza che salutavo nei corridoi affollati, con cui scambiavo qualche parola all’intervallo, a cui chiedevo come andavano gli allenamenti di Hanamichi, al centro di ogni fottuta parola in quelle mura, bè… aveva fatto più male di quanto credessi possibile. Perché sapevo che non se lo meritava, perché sapevo che non era giusto, perché sapevo che non era colpa sua… cazzate, enormi e colossali cazzate… era solo perché tutti noi eravamo intimamente terrorizzati che potesse capitare anche a noi qualcosa di simile. Ed io non ho fatto eccezione, mi contavo in tasca le parole che dicevo e i gesti che facevo per non essere il prossimo gossip del mese, persino controllare la zip dei pantaloni dodici volte al giorno.
L’hanno piegata, vessata, umiliata, costretta persino ad
andarsene.
Ci ha fatto pena, ovvio. Ne siamo stati dispiaciuti.
Ipocriti. Enormemente e disgustosamente ipocriti. Anch’io. Eravamo sollevati,
perché non ce l’avevamo più di fronte a ricordare che cazzo di macello avevamo
combinato con la vita di una ragazza. Era una ragazza forte, certo, ma se lo
meritava? Ne sarebbe uscita? Era una domanda dolorosa come un pugno in faccia.
È rimasta scritta nel cielo per un anno sopra le nostre teste, come una spada
fiammeggiante che minacciava di spaccarci il cranio.
Ma lei era forte come un uomo. Forse anche di più, nella
mia mente posso tranquillamente ammetterlo anche solo per un secondo. Le donne
sono sempre più forti di noi, immensamente più forti di noi.
Se fanno male, lo fanno con le parole. E ti devastano.
Noi meniamo le mani. Nella peggiore delle ipotesi, finiamo
all’ospedale. In due mesi, sei fuori e sei più incazzato di prima.
Il meccanismo cardine del mondo, quello che lo fa
funzionare, vuole che loro, le ragazze, non lo sapranno mai perché altrimenti
si renderebbero velocemente conto di non avere nessun bisogno di essere difese
da noi.
Haruko non avrebbe nessun bisogno di essere difesa da me e
di sussurrare il mio nome con sollievo.
E che cazzo c’entri pensare ancora a lei, chiedermi persino
perchè ho pensato di nuovo a lei, dimostra pienamente il senso del mio
discorso.
Sono sempre loro le più forti.
Ayako ce l’aveva fatta. In tutti i sensi.
Era risorta come una fenice incandescente.
E noi con lei. Io con lei.
Dopo di lei, nessuno poteva permettersi di rimanere quello
di prima.
Nemmeno io, il salvatore della patria, il capitano delle
truppe di Hanamichi.
Quando torno a casa nel mese di settembre, ho sempre le
palle girate. La scuola comincia sempre troppo presto e quando fa ancora troppo
caldo. Passo davanti alla piscina ancora aperta, alla gelateria ancora troppo
affollata, al parco ancora troppo pieno di gente. E mi girano. Do un pugno a
Takamiya e mi metto a gridare, come un pazzo, spaventando gli uccelli sugli
alberi. Questo dalla prima elementare, credo. Takamiya mi insegue e, da brava
scrofa qual è, inciampa per terra, spaccandosi il naso. Credo che sia un altro
dei fottuti ricordi indimenticabili e, puntualmente, ogni anno si ripete. Forse
lo fa anche apposta, non lo so, per non deluderci. Corro per il viale,
lasciandomi alle spalle tutti quanti, tranne Hanamichi, sempre il più veloce
assieme a me. Corriamo assieme, ridendo come due pazzi, mentre quei tre sfigati
tentano di raggiungerci. Un giorno, correndo, mi guardo distrattamente attorno.
Improvvisamente la piscina ha le assi di legno sull’ingresso, la gelateria è
diventata una rosticceria, il parco è vuoto. Mi metto a guardarlo, le foglie
degli alberi sono gialle, non ci sono più uccelli spaventati. Corro, e le
foglie sono rosse. Corro ancora e non ci sono più. Ho la divisa invernale e il
respiro si condensa in vapore. È inverno ed hanno acceso le luci di Natale sul
viale. Sono appese come serpenti morti sugli alberi spogli. Noma mi chiama, ha
trovato una palla abbandonata, giochiamo a calcio. Sudo come un porco e getto
la giacca all’aria, sulla cartella più leggera. Il sole picchia, mentre corro
all’inseguimento di quel fottuto pallone sempre troppo lontano, spaventando
ragazzine fotocopia e bambini rompipalle.
Ed un altro bel giorno, l’ultimo giorno di scuola, vengo
strappato al mio rito ed iniziato ad un altro. Una bella mano piccola ed
affusolata mi tira piano per la manica della camicia, indicandomi la piscina e
parlandomi dei programmi per il sabato prossimo, additandomi la gelateria con
sguardo goloso, correndo verso il parco e sfidandomi. I tre sfigati rimangono
indietro, mentre raggiungo Haruko, Hanamichi bacia una ragazza bionda. Entro
nella gelateria, lei mi parla dell’ora di economia domestica e si mordicchia il
pollice, e so perché è imbarazzata, e quando mi dice che ha bruciato la sua
crostata, dandomi la conferma e mettendo anche quel tassello nei fottuti
ricordi indimenticabili, realizzo scioccato che mi interessa davvero che cosa
sta dicendo e che la sto guardando in faccia, e non altrove.
Ah già, credo di capire anche che la mia vita è
cambiata.
E, questo, credo anche che sia stato per Ayako.
Un giorno, magari, vi dirò anche perché.
Ma oggi, no… certe cose cambiano, ma certe altre no, mai.
Per fortuna.
Ero ancora il fottuto salvatore della patria e tutto il
resto.
“Che succede?” chiesi, la voce serena e calma. Testata più
e più volte, durante le risse con Hanamichi, perfezionata dal giorno benedetto
e maledetto in cui quel coglione entrò in questa squadra.
Gli altri si volsero brevemente e fugacemente verso le
primedonne protagoniste della scenetta del giorno.
Se mai ci fossero stati dubbi…
Hanamichi mi guardava ancora nervoso, sollevando il mento
altezzoso, convinto come sempre di avere ragione. È sempre convinto di avere
ragione, in ogni situazione. È parte di lui. Se non fosse stato così, mi sarei
risparmiato un sacco di risse e rogne. Ma si sa, certe cose non credo che
cambino mai. Rukawa sosteneva il mio sguardo con sufficienza, socchiudendo gli
occhi apparentemente annoiato. Ma le mani erano strette a pugno, lungo i
fianchi. Gli sono sempre stato sul cazzo. E la cosa è sempre stata reciproca.
Dietro Hanamichi, Kaname mi guardava con un lieve sorriso,
lo tratteneva debolmente per un braccio, anche la sua presa doveva essere stata
più salda prima. Anche lei era sollevata come tutti. Più di tutti, sa bene
quante volte ho salvato il culo al suo prezioso fidanzato. Accanto a lei,
Eikichi e Miyagi.
Dietro Rukawa, Haruko… sgranai gli occhi e sembrava ansia…
no, stava solo venendo verso di me. E, controvoglia, trovai la vergogna di un
respiro di sollievo, quando mi raggiunse e strinse la sua mano piccola nella
mia. E non la fermai, da coglione non la staccai da me, anche se si sarebbero
potute menare le mani e quindi avrei avuto bisogno di libertà di movimenti.
Anni ed anni di scazzottate e di quell’esperienza da lottatore, di cui vado
fiero, me lo suggerivano apertamente, eppure incrociai le sue dita con le mie
nella tasca dei miei pantaloni. Coglione.
“Allora?!” chiesi ancora, ora la voce più alta e ferma.
Nessuno mi rispose. Haruko strinse più forte la mia mano.
Rukawa scrollò le spalle e fece un passo. Se ne stava
andando. Il tacito segnale di smetterla con le menate.
Kana. Le donne sono sempre le più forti.
“Andiamo in ritiro con il Ryonan”.
“Hanno già fatto gli abbinamenti… a sorteggio…”.
Haruko. Immensamente più forti.
Rimansi basito per un secondo, certo che la sorte, quando
ci si mette, è veramente bastarda. Di tutte le squadre, proprio il Ryonan… come
avevo previsto, era ancora Ayako la causa del nostro silenzio. Arrivai
facilmente a che cosa doveva essere successo. Un commento di Rukawa e una
risposta incazzata di Hanamichi, supportato da Kaname e Miyagi. E adesso era il
mio turno…
Trattenei il tremito della voce, mentre scrollai le spalle
in chiaro segno di malcelata indifferenza.
Rukawa interpretò il mio segnale come un invito a
considerare chiusa la faccenda. Mosse ancora un altro passo, scrollando il capo
con disinteresse ed affondando le mani nelle tasche dei pantaloni.
“Credo che sia inutile parlarne…” iniziai deciso “Il
problema non si pone, in nessun caso…”, la mia voce si bloccò per qualche
secondo, poi, mentre Rukawa mi affiancava, diretto alla porta, sibilai, guardandolo
di sbieco: “Ayako sta con Sendo, no?”.
Lui si bloccò, serrandosi nelle spalle, e, per un solo
secondo, non lo so, mi fece compassione. Strano anche solo a pensarsi, no? Non
solo perché mi sta sul cazzo e tutto il resto, non solo perché non è normale
provare compassione tra di noi, ma anche perché decisamente non è una persona
che possa ispirare compassione in una qualsiasi situazione. Non lo so, davvero,
ancora oggi non riesco a spiegarlo compiutamente. Nei suoi occhi, passò
qualcosa. E non era qualcosa di decisamente normale. Come un lampo azzurro,
estremamente veloce. Lo ricacciò indietro, con foga e violenza, sicuramente per
non farne capire la natura. Ma quello era… dolore, ecco. E mi sentii uno
stronzo per quello che avevo detto. Per tre parole, aveva sofferto. E un giorno
lo avevano ucciso di pugni, ma niente. Nemmeno un gemito, un rantolo, un
lamento. Niente. Piccolo particolare. Ayako era qui con noi e forse ne era già…
come si può dire… infatuato? Perso? Cotto? Certo, non innamorato… non so
nemmeno immaginarla quella parola tanto infima anche per me, su Kaede Rukawa. O
forse, magari, è proprio così… pugni, sberle, bastonate, non ti fanno un cazzo,
quando non sei… insomma, innamorato e tutto il resto. E a lui, allora, non
fecero assolutamente niente. Poi ti… innamori… e tutto se va a gambe all’aria,
diventi peggio di un pezzo di gelatina. Cadi e precipiti per ogni cosa,
sciogliendo la tua forza e tutto quello che ci stava attorno.
Quel secondo sparì come era nato, credo che Rukawa sia
sempre molto geloso di sé stesso. Anche del suo dolore, evidentemente per lui
vergognoso, come forse sarebbe stato per ognuno di noi. Lo nascose in fondo a
sé, sotto lo sguardo di ghiaccio che mi colpì, non appena lui sollevò il viso.
“Non sono cazzi tuoi…” mormorò, la voce liquida e
tranquilla come sempre “Come non lo sono di quell’imbecille del tuo amico…
fatevi i fatti vostri con le vostre… fidanzate…”. La sua voce indugiò ironica e
disgustata sul quell’ultima parola ed fu come se avesse detto qualcosa di infinitamente
lontano dalla parola fidanzate. Un insulto, insomma. Non mi toccò minimamente.
Puttanate. Fu solo la mano di Haruko che mi trattenne dal gonfiarlo di pugni.
Il mio orgoglio se la prese quasi con lei, il resto no, arrivò a ringraziarla
per avermi fermato. Il resto, qualsiasi cosa sia, lo stomaco, il sangue, il… il
cuore… trovò il modo di addomesticare il mio orgoglio, sanandolo da questa
ferita.
Perché le parole distruggono. E, come era prevedibile, me
lo insegnò una donna.
Sorrisi velenoso e calmo, e replicai: “Spero che darai lo
stesso consiglio anche a Sendo… di farsi i fatti suoi con la sua fidanzata…”.
Accentuai anche io con ironia l’ultima parola, significato terso del fatto che
Ayako non è mai stata la sua di fidanzata, semplicemente perché lui non l’ha
voluto, semplicemente perché lui non l’ha voluta. Insomma, alla fine, si
presenta sempre il conto delle tue azioni e delle tue scelte. Non puoi
lamentarti che è troppo caro e salato, e non pagare. Intanto, paga. Poi cerca
da solo il modo di coprire quel vuoto. E lui, Rukawa, non ha mai pagato
abbastanza. Noi, invece, fin troppo. Ed avevamo meno colpa di lui… comunque non
di più di quanta ne abbia lui.
Rukawa sollevò ancora gli occhi, ora pieni di fuoco
azzurro. Mi sfidò con gli occhi, stringendo i pugni, l’aria crepitava di
energia e sapevo che, nell’infinito codice delle regole non scritte delle
risse, se avessi distolto lo sguardo, lui avrebbe capito che mi ero arreso.
Ovviamente sostenni i suoi occhi, ugualmente sapevo che il prossimo passo era
che mi spaccasse la faccia. Lasciai la mano di Haruko.
“Yohei…” la sentii solo dire, dandomi i brividi. Che cazzo
dice e dice, mi fa sempre annaspare…
Non penso che lei abbia avuto anche effetto su Rukawa, non
l’ha mai avuto per la mia attuale fortuna, per la passata fortuna di Hanamichi
e per quella probabile di Haruko stessa. Si è visto che cosa è successo
all’unica ragazza che avesse avuto effetto su di lui. Evidentemente, chissà che
cazzo gli passò nel cervello per ringhiare qualcosa tra i denti, indubbiamente
una bestemmia, ed inforcare l’uscita senza sfiorarmi.
La porta che si chiuse, fu il nuovo segnale che il pericolo
era passato. Almeno per il momento. Un generale sospiro accolse quel suono
nelle nostre orecchie. Eikichi si lasciò andare sfiancato su una sedia,
portandosi una mano tra i capelli, ancora non abituato a quelle allegre
scenette tipiche della nostra squadra. Miyagi si gettò a sua volta su una
sedia, afferrando dal tavolo il regolamento del campionato nazionale, forse per
vedere se c’era qualche possibilità di cambiare la squadra con cui condividere
il ritiro.
Kaname, sollevata, diede un piccolo pugno sul braccio di
Hanamichi, urlandogli: “Ma sei cretino?! Lo sai che vi potevate picchiare a
sangue ed essere espulsi dalla squadra?! Quante volte te lo devo ripetere?!”.
“Quello è un poveraccio, me lo mangio quando voglio!”
mugugnò lui altezzoso “E poi non eri tu a dire che, se si avvicinava ad Ayako,
lo castravi chimicamente?!”.
“Non ho mai detto una cosa del genere! L’avrai pensato tu,
razza di perverso!” rispose scandalizzata Kaname.
“Veramente l’hai detto tu, Kana…” bisbigliò timidamente
Eikichi, stravaccandosi meglio sulla sedia “Hai parlato di polonio o roba del
genere…”.
“VISTO?!” urlò Hanamichi soddisfatto, incrociando le braccia
soddisfatto.
Mi distolsi dall’inevitabile risposta di Kaname (“Stai
zitto tu o ti faccio fare cento giri del campo in mutande durante una riunione
della banda scolastica!”), mentre Haruko mi chiamava leggermente.
“Sembra che da questa storia non riusciamo mai ad uscirne…”
sussurrò lei, guardando davanti a sé. Strinsi i pugni nelle mie tasche, perché
so che lo fa quando è preoccupata. Lei, di solito, mi guarda sempre in faccia,
tranne quando è preoccupata, che guarda altrove. E, come mi irritava sapere
tutto questo perfettamente, così mi irritava di più sapere che era preoccupata
per quell’imbecille. È sempre preoccupata per quel coglione, a volte penso che
non se lo sia mai davvero scordato. Che cazzo ne so, si parla sempre di primo
amore e del fatto che non lo si scordi mai. Questo vale solo per le ragazze, io
credo, non per noi. Insomma, anche io ne avevo avuto… una specie, ma alla fine…
comunque, ogni ragazza è sempre così maledettamente masochista da tenere per
sempre dentro quel primo bastardo che l’ha fatta piangere. Poco importa, se tu
la farai ridere ogni giorno, se ti prodigherai per essere il suo cavaliere
senza macchia, tra dieci anni lei piangerà su una canzone idiota che gli
ricorda lui e, se starà ancora con te, sorriderà al tuo viso irritato,
dicendoti che non è niente. E magari allora, vorresti averla fatta piangere
ogni giorno, e non ridere, perché la sensazione è che un fottuto giorno, lei
ricorderà sempre lui. Tu, invece, sarai solo un nome su un diario vecchio ed
ingiallito, chiuso nell’ultimo cassetto della scrivania. Ti consoli, pensando
che tu starai con una mille volte più bella di lei e che sarai stato anche tu
il primo dannato amore di una maledetta idiota, di cui non te ne mai fregato un
cazzo. Ridi, perché è concesso solo a lei di piangere. Forse è, per questo, che
sono sempre le più forti tra noi.
“Già…” annuii, sollevando il viso e guardando anche io
altrove. Magari, così non sembrava niente… questa… cosa… irritazione profonda
che ti logora dall’interno e che si nutre di menate e paranoie. Si chiama
gelosia, lo so… ma, senza un nome, mi dà l’illusione di essere meno fastidiosa.
“Pensi che dobbiamo fare qualcosa?”.
“No” suonò secca la mia voce, meno indifferente di quanto
avrei voluto. Haruko si voltò finalmente a guardarmi, evidentemente chiedendosi
che cosa io avessi. Non mi interessava. Ero soddisfatto, come sempre quando
scopro la gioia assurda ed illogica di godere nel fare male a lei e a me. Dà
gioia, quando mi dico che me ne frego di lei, quando ritrovo la forza di prima,
quando scordo la debolezza di adesso. È stupido, ma mi fa stare bene. Dura
poco, ma alle volte ne ho bisogno. Sopporto a stento certe volte di dipendere
così tanto da lei, di sapere che una sua sola parola può spaccarmi in mille
pezzi, di immaginare che si potrebbe stancare di questa cosa ancora prima di
me, di vedere un giorno in cui la voglio e non posso averla. Non sopporto di
pensare che un giorno, qualsiasi cosa io faccia e dica, potrei essere Kaede
Rukawa che guarda con odio uno che lo tiene lontano dalla sola persona che
voglia. E non avere nemmeno il conforto molesto di non avere fatto nulla per
impedirlo. Sapere di avere invece fatto tutto quello che era in mio potere. E
sapere che non è stato sufficiente.
“Yohei, che c’è?” mi chiese con un sussurro, la voce
tremula.
Mi costrinsi a risponderle qualcosa, qualsiasi cosa, pur
che si fosse stata in silenzio. Lo so, lo so, ho detto che odio il silenzio, ma
allora l’avrei voluto più di ogni cosa al mondo. Non la guardai ancora: “Non
dobbiamo preoccuparci… Ayako sta con Sendo e non penso proprio che lui
permetterà a Rukawa di fare quello che vuole… sta tranquilla, non succederà
niente…”.
“Non sto parlando di Ayako e Rukawa, non mi interessa… sto
parlando di te, Yohei… che hai?”.
La sua voce mi colpì come il più potente dei pugni,
sferrato dal più forte dei lottatori. E lei è talmente gracile e debole che non
farebbe male nemmeno ad una formica.
“Di me?” chiesi, fingendo sconcerto e guardandola alla fine
“Perché, che dovrei avere?”.
Lei sorrise dolce e rispose: “Adesso, niente… adesso più
niente…”.
Si avvicinò a me e fece la cosa più stupida del mondo. Mi
abbracciò.
E, ancora più stupido, fu che dimenticai tutto e
l’abbracciai a mia volta, forte, stretta, stringendola a me.
Le baciai i capelli, mentre sussurrava qualcosa che non
distinsi.
Quando mi guardò interrogativa, ripetendo ciò che aveva
detto, finalmente capii le sue parole.
E capii anche che, sarà gracile e debole, ma sarà lei un
giorno a spezzarmi in mille pezzi.
Perché è lei la più forte tra i due.
Ah già, e perché mi ha appena detto che mi ama.
“Insomma, secondo te, non dovremmo fare niente?”.
“E che cosa vorresti fare, scusa, Hanamichi? Picchiare
qualcuno al Comitato organizzativo? O, non lo so, ridurre in coma Rukawa? O
entrambe le cose, nel dubbio?” chiesi con voce annoiata, afferrando la lattina
di birra dal basso tavolino del pub, dove ci eravamo rintanati alla fine degli
allenamenti.
“Yohei ha ragione, Hanamichi…” rispose Kaname, guardandolo
“Ormai le cose sono andate così… che vuoi farci? C’abbiamo una sfiga pazzesca…
comunque, sicuramente Ayako lo avrà già saputo. Ed anche Akira. Insomma, si
saranno già preparati psicologicamente… e, in fondo, che cavolo! Rukawa sarà
quello che è, ma non è un maniaco omicida! Le romperà un po’ le palle ed Akira
lo manderà a quel paese! Ci sarà da divertirsi!”.
Guardammo tutti Kaname che sorrise perfida, inutile a dirsi
che probabilmente avrebbe suggerito a Sendo la tecnica perfetta della
castrazione chimica con il polonio.
“Mah, io non sono tranquillo…” borbottò ancora Hanamichi.
“Penso che dovremmo lasciare fare a loro due…” commentò
alla fine Haruko, staccandosi da me per prendere un tovagliolo di carta, per
poi risedersi in braccio a me. Inutile dire che c’era comunque una sedia vuota,
accanto a Kaname… ma, bè, lei mi ama, quindi… trattenei la risatina soddisfatta
che mi stava uscendo da sola.
“Ci siamo messi anche troppo in mezzo…” continuò lei “Ayako
ama Sendo e Sendo ama lei, insomma… più chiaro di così… quindi, Kaede potrà
fare quello che vuole… se fosse rimasta da sola, potevamo preoccuparci, ma fin
quando c’è Akira… e poi non è un maniaco omicida, in fondo!”.
“Sì, solo un asociale…” aggiunse Kaname.
“Un coglione asociale che non ha relazioni con nessuno…”
rincarò Hanamichi con espressione soddisfatta, bevendo la sua soda.
“Hanamichi” chiese Kana con gli occhi socchiusi “Asociale
già significa che non ha relazioni con nessuno… perchè lo ripeti due volte? È
un’iperbole!”.
Il mio amico la guardò con occhi annacquati. Lo capisco in
pieno, che cazzo significa iperbole?
“Esagerazione, ripetere due volte delle cose che hanno lo
stesso significato…”, Haruko me lo sussurrò in un orecchio, fingendo (e mica
tanto!) di baciarmi dietro l’orecchio.
“Kana, quello non sa nemmeno che vuol dire asociale!”
scoppiai a ridere, seguito dalle due ragazze. Hanamichi cercò di negare, ma era
palese che non lo sa. Alla fine, anche lui si sciolse, ridendo di gusto.
Quando ormai la sera era calata sulla città, finimmo di
mangiare. Kaname si era ricordata di dover restituire un cd ad Haruko e quindi
decidemmo di accompagnarla tutti e quattro a casa. Hanamichi commentò che così
potevamo anche sapere da Ayako se sa di Rukawa.
“Non credo che Ayako sia a casa…” rispose Kana, mentre
armeggiava con la sua cartella “Di mercoledì, ha la riunione con la squadra. E
poi esce con Akira, ovviamente. Ed ovviamente torna tardi, più di me, ma solo
io vengo sgridata in quella casa…”, sorrise forzatamente e finalmente uscì
dalla cartella il suo I-pod azzurro. Si mise gli auricolari e trafficò con
qualche tasto, fino a quando il basso ritmo di una batteria raggiunse persino
noi, nonostante le cuffie. Ascolta la musica sempre a volume altissimo e,
quando in qualsiasi attimo o momento della giornata, indossa gli auricolari,
sappiamo con certezza che per qualche minuto sarà irreperibile. In tutti i
sensi. Non solo perché materialmente non ci sentirà parlare o chiamarla. Kaname
diventa una statua di cera. Immobile a sentire le sue note preferite, scuote
solo un po’ la testa bionda, per il resto nulla sembra passare nei suoi occhi
azzurri così strani. Sì, strani… inutile negarlo, o fingere di non essersene
accorti,lo sappiamo tutti. Credo che lo ignori solo Hanamichi. I suoi occhi
sono strani non perché sono occidentali, ma per altro…
Ayako andò in Francia per l’intera estate presso la clinica
dello zio per farsi curare. Gli zii volevano essere sicuri che l’aborto non
avesse avuto altre conseguenze, ancora più gravi di quelle che aveva avuto.
Insomma, se l’aborto fosse dovuto solo alla spinta per le scale di quelle
bastarde o ad altro. I test andarono bene ed Ayako tornò a settembre. E si aprì
il problema della scuola. Lo Shohoku era escluso, Ayako non ne voleva nemmeno
sentire parlare. Da bravo salvatore di ogni patria, cercai di convincerla a
tornare, magari cambiando classe oppure rinunciando a fare la manager nella
squadra di basket. Ma lei fu irremovibile. Mi disse che non ce l’avrebbe fatta
a vedere la squadra senza di lei. So che mentì. Ovviamente. La sua unica paura
era quella di rivedere Rukawa. Non lo disse, strinse le labbra quando glielo
chiesi, chiuse gli occhi e distolse il viso. E rispose che erano mie fantasie.
Non la contraddissi, non credo che ne avessi diritto. Chi ero io per
impicciarmi di una sua decisione? Chi ero io per smontare come un castello di
sabbia le sue convinzioni?
Rimanevano il Kainan e il Ryonan. La scelta sembrava
obbligata. Kana andava al Ryonan, quindi sembrava che Ayako si sarebbe
trasferita al Kainan. Non ne era entusiasta, ma aveva deciso di iscriversi
ugualmente, sostenendo che non poteva assolutamente frequentare la stessa
scuola di Kaname. Sennonché Kana le aveva detto che non sarebbe andata più al
Ryonan, ma che si sarebbe trasferita anche lei, ma allo Shohoku. Quindi, Ayako scelse il Ryonan, tra quello e
il Kainan preferiva decisamente il primo, considerando che i rapporti tra la
nostra scuola e il Ryonan sono sempre stati migliori, rispetto a quelli con il
Kainan. Chiedemmo il motivo della sua scelta a Kaname, ma lei non disse mai
nulla. Nemmeno a noi. Abbiamo tutti alla fine concluso che doveva essere per
seguire Hanamichi, di cui sembrava avere una bella cotta, e lei fece marciare
la storia. Ma, andiamo, nessuna è talmente imbecille. Ad una così, che avesse
fatto una cosa del genere per Hanamichi, poi, le avrebbero chiesto che cosa si
era fumata e le avrebbero suggerito di cambiare spacciatore. Non era il caso di
Kaname Koishikawa, decisamente… è troppo orgogliosa e sicura di sé. Se voleva
Hanamichi, se lo sarebbe preso lo stesso, anche dal Ryonan.
La cosa era ben diversa. E nessuno di noi ancora sa nulla
davvero.
Non credo che lo sappia Haruko, Ayako, né tantomeno
Hanamichi. Se lo avesse saputo, me l’avrebbe già detto con la boccaccia che si
ritrova.
Quella ragazza… Kaname… è sempre stata… insomma, strana… o
comunque non normale… non è la stessa cosa, strana e non normale, o perlomeno
lo penso io. Strana mi dà più di pazza. Per la nozione di non normalità, posso
inserirmi tranquillamente anche io. Quindi, la rende una nozione meno stronza.
Non normale è sempre stato tutto in lei. L’aria
occidentale, tanto per dirne una, ma quella non è né colpa né merito suo. I
suoi occhi azzurri, però, a parte il colore inusuale, sono strani in tutto un
altro senso. Liquidi, lucidi, trasparenti quasi sempre. Opachi come pezzi di
pietra, talmente tanto spesso da chiedersi quali siano i suoi veri occhi.
Tantissime volte, la vedi eclissarsi all’improvviso, nascondersi dietro della
musica sparata a palla, abbassare le ciglia e chiudersi del tutto, come un
riccio che ha paura del freddo. Non la capisco, davvero, ed è sempre la ragazza
del mio migliore amico. Questo, nella dinamica contorta dei rapporti, dovrebbe
renderla simile ad un’amica per me. Ma non lo è, né credo che mai lo sarà. Mi
angoscia, sinceramente. Haruko dice che esagero, ma quella mi inquieta. Sembra
sempre avere alle sue spalle un segreto prezioso come il Sacro Graal che
nasconde con tutte le sue forze. Un segreto che, alle volte, viene fuori come
un’ombra sul suo viso e sembra talmente dannato e maledetto da desiderare
solamente di non conoscerne mai il contenuto. È solo una sensazione,
ovviamente, ma insomma… è abbastanza forte. E, di solito, su queste cose non mi
sbaglio.
Ma, insomma, cerco di farmela passare questa sensazione.
Cazzo, è sempre una ragazza. È la migliore amica di Haruko e la ragazza di
Hanamichi. Quindi, metto a tacere il mio istinto e vado avanti, sebbene è
grazie all’istinto che ho avuto le cose più belle della mia vita. Hanamichi
l’ho conosciuto perché un giorno feci forca a scuola, e tutto perché la maestra
delle elementari si era messa un stupido vestito azzurro, che mi dava fastidio.
E con Haruko… dire che l’istinto mi ha aiutato, è non rendere giustamente la
cosa. Credo che sia lei, Haruko, ancora una maledetta volta la ragione. La
ragione di un’altra cosa, ed esattamente la ragione per cui tollero Kana. E non
perché è la sua migliore amica… ci sono pure quelle altre due fallite, ma me ne
sbatto. Sono amiche sue, non mie, mica ho un contratto per farmele piacere per
forza. A quelle due le ho proprio sulle palle, mettono troppe idee strane in
testa ad Haruko. E lei è decisamente troppo condizionabile. Kaname la sopporto
soprattutto perché le sono grato. Perché è per lei che sto con Haruko. Perché
ha avuto la malaugurata idea, a mio dire, di innamorarsi di Hanamichi.
Altrimenti, quello non me lo sarei mai tolto dalle palle. Era cotto fino
all’osso di Haruko e chi se lo scorda? Le menate dalla mattina alla sera, le
paranoie cretine, i piani imbecilli, i discorsi idioti, i rincoglionimenti
continui quando la vedeva. Andava in fissa con lei come un povero idiota,
rompendomi le palle come non mai. Non lo capivo, davvero, Haruko non mi
sembrava proprio sto granché. Carina, d’accordo, ma c’erano sempre state di
ragazze carine e sempre ci sarebbero state. Forse ce ne erano anche di
migliori, Yoko, quella che gli piaceva prima era decisamente meglio. Poi era la
sorella del gorilla… se non era masochismo questo… ammesso che fosse riuscito a
mettersi con lei, lo avrebbe sempre avuto tra i piedi. Tanto per gradire, la
trovavo anche stupida. Si sbrodolava per Rukawa e non capiva che quello la
cagava totalmente. A suo favore, posso dire che, allora, ogni ragazza la
trovavo stupida. O meglio, non mi chiedevo proprio se fossero o meno stupide.
Passavano e vedevo in loro solo un bel davanzale e un posteriore invidiabile, e
che cazzo me ne fregava allora se erano stupide o intelligenti? C’era stato un
tempo, un luogo… una persona… ma adesso le cose si erano messe nella giusta
prospettiva. Trovavo stupida Haruko, perché su di lei un giudizio avevo dovuto
maturarlo. Perché era la donna di Hanamichi e lui era il mio migliore amico.
Quando lui mi chiedeva con gli occhi accesi di cuoricini luminosi: “Non è
meravigliosa la mia Harukina cara?!”, io che gli dovevo rispondere? No? E’
proprio una come le altre? Gli amici servono a questo, ad illuderti. Pure se
stai morendo dal ridere, devi dire serio che è la migliore, anche se non lo
pensi assolutamente. Devi essere bravo però a fingere, inventarti un tono di
voce convincente, un’espressione complice e parole profonde, velate da (falsa)
invidia. Se lui sapesse quello che pensi veramente, ti menerebbe come un
salame, manco gli avessi detto qualcosa di male a lui. Fin qui, nessun
problema. Il problema, paradossalmente, non è quando pensi che lui è un
coglione di prima categoria, che quella lì fa veramente vomitare e che sta
perdendo il suo tempo, no.
Il problema è quando sei d’accordo con lui. Quando pensi
che lei è la migliore.
E allora tutto se ne va a puttane… te ne ricorderai per sempre
come la peggiore cosa mai esistita, sarà il salto nel vuoto, la prova del nove,
il balzo nel cerchio del fuoco. Se le cose andranno bene, sarete ancora amici
e, anni dopo, riderete su quel ricordo. Se le cose andranno male, bé… tra
qualche anno, lo incontrerai per strada e non lo saluterai, lui l’avrà lasciata
o magari tu starai con un’altra e del tuo grande amico ti resterà solo un
cartoncino per la partecipazione in chiesa delle sue nozze. Con una che non è
lei, perché non è mai lei. Va tutto a farsi fottere per una che puntualmente
non sarà la donna né della sua, né della tua vita. Magari, un giorno si tornerà
a ridere e a chiedersi che cazzo aveva quella in più, ma quando succederà,
sarai già chiuso in un ospizio di merda.
Oppure, sarai in paradiso, ammesso e non concesso che
entrambi ci finiate.
E non era il caso mio e di Hanamichi…. quindi meglio che
non è andato tutto a male per Haruko.
A me è arrivata una Kaname Koishikawa a salvarmi, ma rimane
comunque la cosa peggiore che mi sia successa. E se escludo persino la famosa
patta dei pantaloni aperta, che mi ha fatto prendere per il culo per due mesi…
insomma la cosa è grave…
Una regola non scritta dice che ci sono tre cose sacre al
mondo, solamente tue, e che nemmeno un amico deve azzardarsi a toccare. La
prima è la tua macchina, la seconda tua madre, la terza la tua donna. E
nell’ultimo concetto si comprende un’ampia categoria: ex mollate, ex
cornificate o cornificanti, tipe che ti hanno scaricato, tipe che non ti hanno
nemmeno dato una possibilità. Ed anche tipe con cui ci stai ancora provando.
Per me ed Hanamichi, non c’erano mai stati problemi. Siamo
due poveracci e la macchina ce la sogniamo ancora la notte, al massimo c’è la
sua bici ed è un rottame. O il mio motorino e, dopo aver portato Takamiya, non
credo che sarà mai più lo stesso. Maledetta scrofa… la madre di Hanamichi è da
anni in America, non si sentono mai. La mia è una santa donna e Hanamichi
aspira a farsi adottare da lei. Insomma, quei due versanti tranquilli… per
l’ultimo, navigavo nell’impossibilità che succedesse mai qualcosa. Hanamichi ha
dei gusti di merda, diciamolo. Per il cibo e per le ragazze. Quelle che
piacevano a me, puntualmente erano quelle a cui lui faceva una smorfia. E
viceversa.
Poi, un fottuto giorno, Kaede Rukawa si mette con Ayako
Kuno.
E spezza il cuore a quella povera scema di Haruko Akagi.
Ed un altro maledetto giorno, mi dico che Haruko forse
vuole parlare con qualcuno. La incontro per i corridoi e ha gli occhi rossi, le
sue amiche mi sembrano delle poveracce e… e mi fa pena, contro ogni logica
umana e razionale. Mi dico che è la mia grande occasione, che da buon amico le
parlerò di Hanamichi e del suo eterno ed incontrollabile amore. Lei si
innamorerà di lui e tutto andrà a posto, quello non mi scasserà più e lei la
smetterà di camminare per la strada con l’aria da povera martire afflitta. A
me, resterà di gloriarmi solo del mio successo.
Vai lì, armato delle migliori intenzioni, pronto a
combattere con la tua armatura scintillante e ad offrire anche la tua testa su
un piatto d’argento al tuo amico.
Ed invece va tutto al contrario.
Per me, è cominciato tutto quel giorno di giugno che poi fu
l’inizio di ogni cosa.
Lo stesso giorno che sapemmo della gravidanza di Ayako…
Pioveva, ricordo solo questo, e stranamente mi ricordo
solamente il colore dell’ombrello di Haruko, un rosso fragola che mi dava
l’emicrania.
Una cazzata, non so perché c’ho la maledetta abitudine di
raccontare puttanate anche a me stesso, quando posso smentirmi da solo con i
miei stessi pensieri…
Mi ricordo la sua faccia, quando mi disse che stava bene e
che la sua cosa con Rukawa era impossibile senza bisogno che ci fosse Ayako. Fu
un solo secondo, ma bastò.
La vedi e ti accolli questo compito, senza che nessuno te
l’abbia chiesto. Lei piange, chiedi di raccontarti tutto, è una litania, ma la
ascolti. Annuisci con il capo, dici tre frasi, lei sorride e ti fa contento. La
litania continua, ascolti ancora, rispondi ancora, lei è ancora felice. È tardi
e se ne va, rimani seduto su una panchina e la litania continua nella tua
mente.
E magari ti dici che non è proprio stupida… da quello,
arrivi come un bombardiere a stamparti in testa la sua immagine, mentre piange
con le guance sporche di rimmel sciolto. Arrivi a dire che è bella.
E da allora, fanculo a tutto… sarà una discesa veloce verso
l’inferno. E l’ultimo girone dell’inferno, quello nelle fauci di Lucifero, è
per i traditori.
E tu sei un traditore.
Perché pensi sempre a lei, perché vuoi vedere solo lei,
perché, quando sta andando via, ti rendi conto che non hai nominato il tuo
amico nemmeno una volta, perché non volevi farlo. Non lo volevi tra i piedi tra
te e lei.
Da salvatore della patria, diventi il traditore della
patria.
Quando lo seppe, Hanamichi mi picchiò a sangue.
Lo seppe dalla boccaccia di una delle amiche idiote di
Haruko. Per questo, le odio così tanto. Mi hanno fatto quasi perdere quello che
per me è un fratello per la loro fame imbecille di pettegolezzi.
Gli dissero che Haruko si era innamorata di me. E che ci
eravamo baciati al festino per la fine del secondo trimestre.
Era vero, l’avevo baciata, non ce la facevo più. Pensavo
che baciarla, togliermi lo sfizio, me l’avrebbe tolta dal cervello. Come no. La
volevo anche più di prima, come quando mangi un pezzo di cioccolata, dopo una
vita di schifose gallette dietetiche, come quelle che ingurgitano mia madre e
le mie sorelle. Poi, dopo la cioccolata, ti dicono di tornare indietro, alle
gallette. Come cazzo si fa?
Baciarla era stato il paradiso e l’inferno.
Sentirla dire che le piacevo, fu il secondo paradiso, anche
se era irrazionalmente impossibile. Sentirmi risponderle che per me non era
così, fu il secondo inferno, questo, invece, razionalmente possibile.
Straziato dentro, fui anche menato da quell’imbecille.
Lo lasciai fare, perché aveva ragione.
Quando Kaname gli urlò di smetterla, chiedendogli se amava
ancora Haruko, dato che stava con lei, lo uccisi di pugni. Ovviamente in senso
letterale. Ce la cavammo con un naso rotto (il suo) e un braccio fratturato (il
mio, ma solo perché ero caduto). Alla fine, stesi sulla spiaggia come due
derelitti, scoppiammo a ridere da perfetti idioti quali siamo. Niente di nuovo,
era terminata come sempre. Le stelle moleste sui nostri occhi pesti, le onde a
bagnarci le scarpe, le spacconate su chi stava peggio e le risate sguaiate al
cielo. Sobbalzammo, credo entrambi, quando alle nostre risate, se ne unirono
altre due, più leggere e dolci. Non ci eravamo abituati, da poveri sfigati
quali siamo. Stese accanto a noi, loro due. Haruko e Kaname che ridevano, a
loro volta, abbracciandoci.
Ed evitammo anche il più grande iceberg sulla nostra
amicizia dai tempi delle figurine della Premiere League. E quella fu una cosa
grave ai tempi…
Haruko mi stringeva ancora la mano, mentre Hanamichi
parlava ancora della sua probabile nuova rissa con Rukawa. Kaname era ancora
momentaneamente assente. Trovarmi lì, in quel momento, con quelle persone, era
la prova concreta di dove era arrivata la mia vita, di che sentiero avesse
preso e di che direzione stesse seguendo.
Per un attimo, ripensai a Noma, Takamiya ed Okusu. Mi
mancavano, anche se non l’avrei mai ammesso. Forse un anno prima, sia io che
Hanamichi eravamo con loro, alla sala giochi, al bowling o chissà dove. A
menarci, a ridere, a farci paranoie. Ogni tanto, ripenso alla vita di prima, a
come adesso sia tutto diverso. Ed è come avere la coscienza di aver svoltato un
angolo e di non poter più tornare indietro. Allora, fa male, ma è un dolore
dolce, tenue, straziante come un ricordo. Perché amo quello che sono adesso, ma
amavo a suo modo anche quello che ero prima, ma non posso essere le due cose
nello stesso istante. Ed, alla fine, senza nemmeno rendermene conto, ho fatto
una scelta.
E questa scelta mi ha portato ad essere qui.
Mi ha portato a non replicare nulla agli sproloqui di
Hanamichi e a preoccuparmi che Kana sbatta contro un palo.
E, soprattutto, mi ha portato a stringere la mano di Haruko
nella mia.
Ed è allora che penso che, in fondo, la mia vita attuale è
migliore della precedente.
Me ne vergogno nel pensarlo, ma non me lo evito. Perché in
fondo è la verità.
Chissà se anche per loro è lo stesso, se anche loro pensano
la stessa cosa e si trovano talmente cambiati da non riconoscersi più. E da
averne paura.
La risposta arrivò, come sempre.
Arrivava da tempo, ma non me ne ero mai accorto.
“Che cavolo fai, Hanamichi?!”. La voce di Kana, annoiata e
seccata.
Hanamichi le aveva strappato dalle orecchie un auricolare e
lo aveva indossato, urlando: “Che schifo di musica!”.
Li guardai da sopra la mia spalla destra, mentre
litigavano.
Kaname, alla fine, sorrise e gli porse una cuffia, che
Hanamichi afferrò prontamente.
Lui la strinse per la vita e continuarono ad ascoltare
assieme, canticchiando tra loro.
In fondo, Hanamichi doveva sapere tutto di Kana. I suoi
occhi azzurri erano tornati gli stessi.
E quella leggera ombra in quelli di lui, di cui avevo dato
la colpa al parlare di Rukawa, se ne era andata.
Siamo davvero cambiati allora… non è solo una mia
impressione… e non si può più davvero tornare indietro…
Sono contento che ci sia ancora lui accanto a me…
Hanamichi, mio fratello… forse l’unico
che potrebbe capirmi, se gli dicessi di aver paura di loro, di queste due
sconosciute che si sono fiondate sulle nostre vite, sconvolgendole. E sono
contento perchè per lui sarà la stessa cosa. Con l’aggravante che io sono
sempre stato il più forte tra i due. Su quelle spiagge non lo urlavo sempre al
cielo? Qualcosa di quella vita passata, deve esserci ancora. Per forza, anche
se siamo cambiati.
In fondo… certe cose cambiano, ma certe altre no, mai. Per
fortuna.
Sarò sempre il salvatore della patria e tutto il resto.
Sarò sempre più forte di lui, quando mi ritroverò a
salvargli il culo mille e mille volte.
Solo una cosa, in fondo, davvero è cambiata.
La coscienza che c’è qualcuno più forte di me.
E che non lo odio, né mi verrà mai voglia di menarlo o di
sfidarlo.
Perché è una ragazza, si chiama Haruko Akagi e perché ho
voglia di baciarla per tutta la vita.
Ah già, credo anche perchè la amo.
“La settimana prossima, torna mia sorella…”.
“Che cosa hai detto?” chiesi, distratto ad Hanamichi.
Kaname armeggiava con il cancello di casa, mentre Haruko la aiutava. Stavo
morendo dalle risate, ma non volevo che se ne accorgessero. Le ragazze sono
sempre molto gelose della loro invincibilità e, tra di essa, c’è anche la
capacità di fare tutto. Anche se aprire un cancello con una chiave non è
certamente una disciplina olimpica… in casa, non sembrava esserci nessuno,
anche se al piano superiore era accesa una luce. La camera di Ayako… Kaname
aveva replicato a denti stretti che probabilmente stava dormendo o che c’era
Akira. Quindi, aveva preso le chiavi, borbottando.
“Non si fa così…” Hanamichi cercò di intromettersi, ma la
scena era troppo forte, quindi lo fermai con un braccio, distogliendo la sua
attenzione.
“Che cos’è che hai detto?” chiesi ancora con finto
interesse.
“Ah già…” ricominciò lui con pazienza “La settimana
prossima, torna mia sorella… penso che verrà con noi al torneo nazionale…”.
“CHE COSA?!” chiesi autenticamente scioccato,
improvvisamente la lotta epica contro il cancello era passata in secondo piano
“La settimana prossima, torna Anko? E quando me lo avresti detto, razza di
demente?!”.
“Proprio adesso…” fa lui noncurante “Ha litigato con sua
madre e quindi…”.
Evitai di spendere commenti sul fatto che la madre di Anko
era anche la sua di madre. Credo che m’avrebbe ucciso a picconate, se lo avessi
fatto notare. E poi l’evento in sé era già sensazionale, da prima pagina… il
ritorno di Anko Sakuragi, in Giappone… sentii un pezzo di ghiaccio scivolarmi
lungo il collo…
“Chi è che torna?” chiese con uno sbuffo esasperato Kaname,
mentre apriva il cancello.
“Mia sorella… Anko…” rispose Hanamichi, incamminandosi per
il viale d’ingresso.
“Hai una sorella?” chiese curiosa Haruko, seguendoli “Non
ce ne hai mai parlato! Tu, la conosci?” concluse, tirandomi la manica della
giacca.
“Certo che la conosco…” risposi, guardando davanti a me.
Anko… mi faceva strano pensarci adesso a distanza di tanti anni, se ne era
andata, quanto? Quattro o cinque anni prima? Sembrano così tanti, adesso… fu
forse lei il primo motivo per cui mi avvicinai ad Hanamichi… ma non mi va di
pensarci, adesso. È come se, anche per Anko sia oltremodo cosciente di aver
svoltato un angolo allora, e di non avere alcuna intenzione di tornare
indietro.
Mi accorsi di essere rimasto in silenzio per troppo tempo,
quindi mi affrettai ad aggiungere, guardando Haruko: “Vive a Brooklyn da
quattro anni con sua madre… è la sorella gemella di Hanamichi, ma figurati… se
non me lo dicessero ogni volta, non ci crederei…”.
“Che vuoi dire, imbecille?!” borbottò Hanamichi,
guardandomi di sbieco.
“Niente, niente…” aggiunsi con voce indifferente.
“E come mai vive a Brooklyn?” chiese ancora Haruko. Vidi le
spalle di Hanamichi gelarsi e maledissi la curiosità ingenua di Haruko. Una
sola piccola domanda, scema come quella, poteva aprire voragini impervie e
profonde nell’animo di una persona, e quella persona era il mio migliore amico.
Haruko continuava a guardarci con espressione confusa. Stavo già per imbastire
una scusa credibile per salvare (come sempre) Hanamichi, quando il nostro
silenzio fu interrotto da un frastuono proveniente dal piano superiore.
Musica a volume altissimo e rumori di vetri e oggetti
infranti.
Credo che, nonostante tutto, Hanamichi nel suo cuore abbia
sempre benedetto quel casino.
Evitammo l’argomento “Anko” per un bel po’, grazie ad esso.
Perlomeno fino alla settimana successiva, quando partimmo per il ritiro con il
Ryonan. Allora fummo costretti ad affrontarlo, specialmente io. Per gli altri,
sembrò una cosa normale, normale che una ragazza tornasse a trovare il fratello
dopo qualche anno all’estero. Ed invece non c’era niente di normale in tutta
quella situazione. Haruko è sempre stata troppo ingenua, altrimenti lo avrebbe
capito. Non c’è niente di normale in un figlio che appella sua madre come la
sola ed unica genitrice di sua sorella.
Kaname spalancò la porta di scatto, correndo al piano di
sopra. Hanamichi la tallonava a breve distanza, seguito da me e da Haruko. Mi
sentivo il cuore in gola, appena entrato in quella casa, avevo avuto una strana
sensazione. Non c’entrava niente il fatto che fosse la casa di Kana e che, per
lei, non ho mai avuto una grande predilezione.
Sembrava un miasma confuso che rendeva le cose diverse.
Come una nebbia impalpabile con il potere di corrodere.
Quella sembrava l’atmosfera di quella casa.
Distruzione insita nelle pareti bianche, desiderio di
precipitare e cadere, senza un motivo preciso.
Ovviamente non previdi tutto questo, non sono un veggente,
ci mancava anche quello. Credo che sarebbe un incubo esserlo. Lo ricostruii
dopo, a mente fredda, con Hanamichi. Ma quella fu la sensazione che ebbi in
quel momento. Minacciò di sopraffare anche me, mentre il rumore delle cose
distrutte cresceva assieme al frastuono di una musica rock sparata a tutto
volume.
Ancora prima di rendermene conto, già correvo assieme agli
altri verso la stanza di Ayako.
Perché ci si abitua facilmente al dolore e lo si riconosce
tra mille. Della felicità, si ha solo pudore e vergogna, non ti ci abitui mai perché non te ne sazi mai.
Intimamente sei sempre convinto di perderla all’improvviso. Il dolore, no.
Intimamente sei sempre convinto di riviverlo all’improvviso. Per questo, rimani
sempre di guardia.
Così facendo, ti aspetti sempre di rivedertelo davanti e ti
illudi che saprai essere pronto.
Cazzate.
Non si è mai pronti.
Te ne accorgi sempre troppo tardi.
Troppo tardi, Ayako Kuno si sarebbe accorta di quanto non
bisogna mai lasciarsi andare alla felicità, ma aspettare sempre il dolore. Che
puntualmente arriva, come peggiore delle canaglie.
Come io, invece, mi sarei accorto troppo tardi dell’effetto
ancora catastrofico che aveva su di me Anko Sakuragi.
E allora non restava altro che raccogliere i cocci di me
stesso.
Lasciarono a me il compito di aprire la porta della stanza,
appena socchiusa.
Eravamo tutti terrorizzati, la marea dei giorni passati si
infrangeva sui fragili paletti che avevamo messo a difesa di noi stessi. Come
ritornare indietro contro natura, girare all’indietro quel famoso angolo
voltato tempo prima. Secoli prima, quello sembrava.
Mi riscossi, pensando a quanto fosse imbecille avere paura
di una cosa del genere, una porta… che cazzo, ne ho affrontate di cose
peggiori… una di quelle cose stava per tornare… Anko… scossi il capo a quel
pensiero, dovevo essere lucido, razionale, freddo, distaccato. Era la prima
cosa da fare, quando si affronta uno scontro di qualsiasi natura, sebbene non
sapessi né volessi immaginare di che cosa si trattasse.
La mano leggermente più ferma, aprii con decisione la porta
della camera di Ayako.
Per un attimo, la chitarra elettrica di una band mi
frastornò le orecchie e fu come non riuscire nemmeno a vedere.
La musica era talmente alta che si sentiva tintinnare il
lampadario di vetro.
La prima cosa che mi sembrò naturale fare, fu quella di
cercare l’origine di quel macello e di spegnere quell’aggeggio infernale.
Intravidi lo stereo in un angolo della stanza e lo spensi velocemente,
imprecando tra me e me.
Mi voltai verso Hanamichi, Kana ed Haruko, e li vidi fermi
sulla soglia della porta.
Impietriti che guardavano la stanza, senza parole, senza
nemmeno fare un passo.
Fu allora che la guardai anch’io.
Distrutta, era completamente distrutta. La libreria di
legno era stata rovesciata e decine di libri giacevano a terra, alcuni anche
strappati nelle loro pagine. Il tappeto era ingombro di pezzi di carta e di
fogli caduti dalla scrivania, evidentemente rivoltata del suo contenuto. I
cassetti erano tutti aperti, ne pendevano cartelline di fogli vari e quaderni
anch’essi semi strappati. Una furia cieca si era abbattuta anche sulla
specchiera nell’angolo, miracolosamente lo specchio era rimasto in piedi, ma
quello che c’era sul ripiano, era stato fatto a pezzi. Boccettine di profumi,
il cui odore ora riempiva la stanza, mescolandosi in maniera odiosa, cosmetici,
una spazzola, tutto a pezzi a fare compagnia con lucenti e taglienti frammenti
alle varie cartacce. A completare il quadro, il letto… non rifatto, un cuscino
era stato anch’esso strappato. Le piume liberatesi ondeggiavano ai nostri
respiri in un modo che aveva molto di grottesco.
Pensai ad un ladro, ad un rapinatore, a che cazzo non
pensai non riesco nemmeno a ricordarlo…
Poi, sentii qualcosa. Un piccolo sussulto, un lamento, che
veniva dal bagno. Feci segno di stare in silenzio agli altri, che stavano
riprendendo a parlare, ed aguzzai le orecchie.
Un pianto…
Sbattei le palpebre un paio di volte. Quando ci si mette
intensamente in ascolto di qualcosa, si concentra la mente su di essa e gli
occhi sono come ciechi. Vedono, ma non guardano in realtà. Trovai gli occhi di
Haruko, senza guardare. E pensai, senza nemmeno volerlo… un giorno, ti farò
piangere anche io così?
Lo so, è patologico. Sono al limite della chiaroveggenza.
Corremmo in quella direzione e anche stavolta spettò a me
aprire la porta.
Non aprire quella porta… è un film del cazzo, l’ho visto
qualche anno fa. Ci risi appena uscii dal cinema, scoglionato perchè avevo
gettato all’aria i miei soldi. Mi aspettavo terrore, paura, angoscia, ed invece
avevo riso con Noma per tutto il tempo, prendendo per il culo le urla finte
degli attori e il sangue color pomodoro. Ora in un giorno lontano e diverso,
quel titolo mi tornò in mente, assolvendo per la prima volta alla sua
originaria funzione, quella di farmi paura.
La aprii lo stesso quella porta perché sempre sarà così.
Sempre avrò paura di una porta chiusa e sempre la aprirò.
Perché certe cose cambiano ed certe altre no, mai. Per
fortuna.
E io ne ho aperte troppe di porte per rinunciare ad aprirne
un’altra.
Era un bagno come tutti gli altri. Piastrelle rosa e
celesti, una vasca bianca, un lavandino di ceramica, uno specchio circolare
dalla cornice dorata. Un bagno come tanti altri.
Ayako era seduta al centro della stanza, non la vidi
subito. Non so come feci, ma fu così. Forse cercavo in alto ed invece dovevo
guardare in basso. Era appoggiata con la schiena alla vasca, aveva le mani tra
i capelli e il viso coperto. Piangeva. Ci arrivava solo un rantolo confuso, in
ogni caso, ma era oltremodo sufficiente. Aveva numerosi tagli sulle mani, da
cui scendevano rivoli di sangue. Parte si era aggrumata sulle dita stesse,
diventando scura, un nero odioso e appiccicoso. Ed allora capii… niente ladro,
né rapinatore… ha fatto lei quel macello…
Sentendo la nostra presenza, sollevò lo sguardo e il viso.
Era rossa in faccia, aveva il fiato corto e le guance erano rigate di nero.
Ancora nero. Il trucco si era sciolto e le era scivolato sul viso.
Sgranò gli occhi con vergogna e terrore e si passò
velocemente le mani sul viso. Pessimo risultato. Lo sanno tutti.
Mai cancellare le lacrime con il sangue.
Era quasi inquietante il suo viso ora rosso e nero,
inquietante fino all’inverosimile quell’effetto su una ragazza.
Appoggiò i palmi aperti per terra, alzandosi in piedi.
Barcollò per qualche secondo, ritornò dritta, sollevò gli occhi rossi.
Perché lo fai? Perché lo fai ancora? Non sarebbe
enormemente più semplice lasciarsi cadere a terra, e basta?
Onore al merito, ci hai provato, ma non è andata. Allora
che cazzo aspetti? Gettati a terra e non rompere.
Non rompere a noi che invece ci beiamo di poter stare
ancora in piedi.
Ci guardò come se fossimo degli estranei. Ci voleva fuori
dalla sua vita e non potevo rimproverarla per questo. Dopo tutto quello che era
successo un anno prima, io avrei voluto tutti fuori dalla mia vita.
“Sei tornata presto…” disse piatta, rivolgendosi a Kana.
Teneva lo sguardo alto, il mento sollevato, le lacrime trattenute, ma la sua
mano… la sua mano ancora sporca di sangue… la sua mano ferita… si reggeva al
lavandino con tutte le sue forze. Le dita erano quasi bianche dalla forza che
ci stava mettendo. La sua voce aveva assunto un accento casuale, come se stesse
parlando del tempo, come se stesse parlando della scuola, di qualsiasi cosa che
fosse minimamente ed ovviamente normale. Qualcosa di inutile. Sembrava che lei
stessa facesse scivolare la sua voce dalle labbra come se fosse inutile, come
se volesse solo usarla per consuetudine, e non per darci un’effettiva ed
autentica risposta. Come se volesse dirci solamente di toglierci dalle scatole.
“Bè che c’è?” chiese nervosa. Continuavamo a guardarla,
senza dire o fare nulla, era come assistere ad un spettacolo, ad una commedia
patetica, come quando si ride degli sforzi di un pagliaccio per restare in
equilibrio su un triciclo. Lì, però, c’era Ayako. Non indossava pantaloni
larghi e sformati, scarpe grosse o altre stronzate simili, ma la sua divisa
azzurra, quella del Ryonan. Una divisa macchiata di rosso sangue e di nero
rimmel. La divisa che per lei era stata una salvezza, la divisa che l’aveva
portata via, la divisa i cui colori l’avevano unita a Sendo. I colori che
ognuno di noi si dipinge sul viso, come segno di appartenenza cieca e totale a
qualcosa. Poi il blu sparisce, poi ogni colore sparisce e rimane solo il nero e
il rosso, trucco di pagliaccio e sangue di cuore.
“Che è successo, Aya?” la prima a chiederglielo fu,
ovviamente, Kaname. Fece un passo verso di lei, al quale Ayako si ritrasse,
finendo contro la vasca da bagno.
“Nulla…” mormorò fredda e gelida, guardando altrove “Nulla
di preoccupante, sto bene… voglio stare solo un po’ da sola…”.
“Che è successo alla tua camera?” chiese ancora Kana,
guardandola sospettosa.
Ayako affondò il canino nel labbro inferiore, mordendolo a
sangue. Voltò lo sguardo ancora una volta, stringendo le mani dietro la
schiena. I suoi occhi tornarono sulla cugina, dopo aver incontrato il suo
riflesso nello specchio.
Tornarono irati, furiosi, pieni di collera. Facevano paura.
La mattina prima a scuola.
Dormivo sulla sedia, mentre la prof spiegava letteratura
antica. Cianciava su una maga, una donna tradita, una madre. Che cavolo
dicesse, non so, stavo pensando al grandioso progetto di una scuola costruita
in riva al mare, dove d’estate ci si buttasse in acqua dalle finestre
spalancate. Come degli enormi trampolini, non come qui che si moriva di caldo.
E, mentre saltavo da quella finestra immaginata, la prof disse che una donna,
in tutte le altre cose, può essere piena di paure, debole di fronte alla forza
e alla vista di un’arma, ma quando si scopre tradita nell’amore, non c’è altro
cuore più assetato di sangue. Anche del proprio sangue?
“Non è successo niente, Kana…” ripeté, la voce più bassa
“Non è successo un cazzo di niente… mi sono solamente impazzita e ho buttato
tutto all’aria. Con quello che ho passato, è normale, sai, avere alle volte
delle crisi di nervi. Dovrei prendere degli psicofarmaci, non è quello che hai
sempre pensato, Kana, eh?”.
Sembrava che stesse parlando di un’altra, non di sé stessa.
“Non dire stronzate…” l’interruppe secca Kana “L’ho sempre
pensato, ma sono sempre stata contenta di sbagliarmi. Anche se questo mi ha
sempre dato ai nervi, non cambia il fatto che sia la verità. Sei sempre stata
più forte di me. Quindi, sono sufficientemente convinta che tu abbia bisogno di
psicofarmaci non più di quanto ne abbia bisogno io o chiunque altro. Non mi far
cambiare idea… che cosa ti è successo?”.
Ayako non rispose ancora, ostinatamente voltò il viso verso
la parete, non guardandoci di nuovo.
Quando avevamo perso le speranze, la sua voce pigolò
incerta: “Sono fatti miei, solo e solamente miei. Non potete fare nulla, né
voglio che facciate nulla…”, si voltò finalmente verso di noi e, gli occhi
umidi, sussurrò: “Voglio andare a letto, credo di avere la febbre…”.
Si staccò pigramente dal lavandino, a cui si era sostenuta
per tutto il tempo di quella conversazione, e si resse da sola in piedi,
malferma sulle gambe. Doveva essere vero che aveva la febbre… sembrava essere
preda dei capogiri e il viso era paonazzo. Fece un piccolo passo, ma perse
l’equilibrio. Ero io il più vicino a lei e, volente o nolente, fui io a
muovermi nella sua direzione, afferrandola per un gomito e trattenendola in
piedi. La sua testa rimase abbandonata giù, come quella di una vecchia bambola,
i capelli ricci che si aprivano come un ventaglio sul suo viso, nascondendolo
alla nostra vista. Quando sollevò gli occhi, pallide biglie morte, sembrò
riconoscermi appena. Lo sguardo vacuo e ottuso di Ayako mi trafisse come una
pugnalata, fece un male cane, sentivo la pelle della schiena rabbrividire come
se fosse percorsa da piccoli granchi. Sentii come rumori soffocati dall’acqua
Haruko e Kaname uscire, dicendo che andavano a mettere a posto la sua camera,
per quanto era possibile. Eravamo rimasti soli, io ed Hanamichi. Lì con lei. E
fu allora che, con estrema chiarezza, mi accorsi che non volevo saperne niente.
Non ne volevo sapere più un cazzo di niente. Pateticamente e schifosamente
egoista, lo so. Ma non ci posso fare nulla, nemmeno volendo, nemmeno prendendo
a sberle quella sensazione dentro. Sapendo che cosa le era successo, tutto
sarebbe cambiato. Sembrava quasi un teorema perfetto, senza bisogno di
dimostrazione. E io non volevo più cambiare. Non lo volevo più.
Anche questo, assurdo e patetico. Sono cambiato da allora,
e non più per Ayako. Eppure, in quel momento, ebbi solo la forza di pensare
questo.
Ma che io urlassi nella mia mente, non contò una fottuta
virgola.
Ayako sollevò i suoi occhi e io mi trovai a guardarla. Uno
sguardo di ghiaccio. Freddo, come non mai. E non era la febbre, per niente…
cazzo, la febbre non c’entrava niente. Rabbrividii ancora, mentre lei mi
guardava. Era lo stesso sguardo di Rukawa, identico. Lo sguardo di chi ogni giorno
perde un pezzo della propria anima. Lo sguardo di chi dispera di avere ancora
qualcosa da perdere.
E lo sguardo di chi è così coglione da pensare che,
chiudendo fuori tutto il mondo, quello non lo trovi lo stesso il modo di
entrare e far danni.
Perché il ghiaccio è trasparente, basta dire cazzate.
È freddo, fa male, magari non ti fa venire voglia di
toccarlo. Ma è trasparente.
Si vede tutto quello che c’è dietro. Si vede la tua anima, fatta a pezzi sì, ma che è ancora lì. Si vede ciò che non vuoi perdere, poco sì, ma che è ancora qualcosa.
Come fuoco, come fiamme, che ardono senza sosta.
Un fuoco, nonostante tutto, incandescente. Anche se tu
provi a gelarlo.
Ed anche se provi a gelarlo, è sempre ghiaccio che metti a
tua difesa. Non pietra. Ghiaccio che è trasparente e che mostra tutto quello
che c’è dietro. Perché sei tu che vuoi essere guardata, anche se non lo dirai
mai. Ed un giorno, cazzo, qualcuno non ha paura di fare a pezzi quel ghiaccio,
pur di toccare il fuoco che c’è dietro. Per coraggio, per forza, per voglia,
per… amore…
Quindi, basta nasconderti dietro al ghiaccio, Ayako. Ci sarà sempre un eroe da strapazzo come me, pronto ad entrare e a far danni. Oggi, io. Ieri… Sendo?
Infinite volte, la vidi
riflessa in me, come in un gioco millenario di specchi. E magari anche lei, mi
vide in lei. Vide quello che c’era dietro anche il mio di ghiaccio. Paura di
lei, dietro il coraggio. Paura di Haruko, dietro l’amore. Paura di Anko, dietro
il ricordo.
Perché, alla fine, quello
che un uomo ed una donna avranno eternamente in comune, sarà questo.
La paura. La stessa che,
scorrendo da lei a me e da me a lei, mi dettò a sangue freddo che cosa doveva
essere successo.
“E’ per Sendo, vero?”
chiesi con un filo di voce. Non so ancora adesso come fece a venirmi in mente
proprio lui in quel momento, sarebbe stato più normale pensare che fosse per
Rukawa. Ma a me invece era venuto subito in mente Sendo… ed infatti ci avevo
preso… Ayako sembrò rabbrividire, stringendosi nelle spalle, e chiudendo gli
occhi per qualche istante. Li riaprì qualche attimo dopo, un mesto e mogio
sorriso sulle labbra pallide. Come cazzo faceva a sorridere, in quel momento?
Come cazzo riusciva ad atteggiare sé stessa ad un riflesso di felicità, quando
dentro tutto era diverso? Ho sempre detestato le persone che, quando stanno
male, sorridono. Come cazzo fanno? E con che coraggio, poi? È come indossare le
spoglie del leone ed essere gattini indifesi, come le piume della gazza per il
corvo. Mi fanno innervosire le persone così… quelle che piangono me li fanno
girare, ma so gestirle. Ma queste, proprio no…
Mantenne in piedi
quell’estenuante sorriso, mentre mi diceva: “Non ci può essere mai un dubbio su
di me, no? O è Kaede, o è Akira… e stavolta sono tutti e due…”.
“So di Rukawa…” dissi, battendola sul tempo, la fronte che grondava sudore. Non era per il peso del suo corpo quasi incosciente, sono forte, che cazzo… non era questo… bloccandola nella sua spiegazione su Rukawa, volevo evitare che ripetesse qualcosa che le facesse male, ma mi pentii subito del mio gesto. Parlando di Rukawa, avrebbe perso tempo, mi avrebbe raccontato di cose che già sapevo e che non mi avevano fatto male. Invece, prevenendo la sua spiegazione, avevo contribuito ad avvicinare il momento in cui invece avrebbe parlato della cosa che davvero la faceva soffrire. O che la faceva soffrire più di tutto. Quella che, tanto per intenderci, sarebbe stata potenzialmente letale per tutti noi. Me la facevo sotto, ancora non volevo sapere niente, la paura che mi confondeva i pensieri. Chi sarebbe sopravvissuto questa volta? Ce l’avrei fatta anche stavolta? Ed Haruko? E Hanamichi?
Proprio Hanamichi,
intuendo che stava per confidarsi con me, lasciò silenziosamente la stanza,
pensando che magari Ayako voleva parlarne solamente con me. Con vergogna, mi
accorsi di essere terrorizzato. Di non volere che Hanamichi mi lasciasse solo a
scoperchiare questo fottuto vaso di…
come si chiama? Ah, Pandora. Mi sentivo gelare addosso, mentre i secondi
si assottigliavano lentamente e il momento si avvicinava. Avrei voluto
lasciarla cadere per terra, fregarmene ed andarmene, portandomi dietro Haruko.
Ma non eravamo in un maledetto film e comunque anche in quella remota
possibilità, il protagonista di celluloide sarebbe rimasto immobile al suo
posto, compunto come il comandante di una barca che affonda, mentre gli
facevano a brandelli l’anima.
Vidi le labbra di Ayako
riaprirsi, mentre prendeva fiato, e chiusi gli occhi. Troppo presto… c’eravamo
già arrivati… il mio ultimo istinto di sopravvivenza soccombé totalmente,
mentre iniziava a parlare e me ne rimanevo al mio posto. Al mio posto, come il
coglione che rimane su una barca che affonda. E la barca in questione era la
mia vita.
“Rukawa è solamente la
maledetta ciliegina sulla torta…” esordì, stringendo forte tra le dita la
manica della mia camicia “Cazzo, sembra che tutti… il destino… o che ne so…
vogliono tutti che torni con lui…”.
“Tutti chi, eh?!” dissi, sorreggendola meglio, quella era la più grande cazzata della storia. O sarebbe stata la più grande tragedia della storia, a seconda dei casi. “Certamente, non metti nel gruppo me o Hanamichi. O anche Kana… ed Haruko… insomma, penso che ti legheremmo e ti meneremmo fino a farti cambiare idea…”. Lei sorrise leggermente, inizio a capire la tecnica del ridere per non piangere. Cazzo, ti dà un po’ di sollievo, anche se per pochi secondi. Ti magnifichi di star parlando di una cosa qualsiasi e di poterci ridere anche sopra per come è piccola ed inutile. In fondo, chi cazzo vede che dentro è tutto diverso? Sono poche le persone che vedono oltre il ghiaccio.
“Ma non è lui il
problema…” riprese lei, anche stavolta troppo presto. Respiravo a fatica anche
io ormai, come se avessi la febbre come lei. E non avevo nemmeno una fottuta
linea, anzi ero gelido. Ma dove cazzo era Hanamichi, quando avevo bisogno di
lui?!!!
Eccolo, ormai c’eravamo
arrivati. Ora tutto sarebbe cambiato. E fanculo al fatto che non volessi… se ne
sono mai fregati di che cazzo volessi io…?!!
“Akira se ne va…” alla
fine, lo disse, eccola la cosa che ci avrebbe frantumato contro gli scogli
della necessità. Adesso sembrava niente, ed invece chissà che cazzo sarebbe
diventata. Ai tempi, che me ne fotteva che Rukawa se la facesse con Ayako? Un
cazzo, ecco. Un po’ di più, se quel bastardo la metteva incinta, ma ancora
poco. E poi s’è visto che è successo…
“Se ne va in America… a
Boston…” riprese lei, la voce spezzata. Ancora l’America, era proprio la
giornata a stelle e strisce. Sembrava che quel continente dall’altra parte del
mare fosse sempre lì, pronto a divorare chi volevi disperatamente trattenere da
questa parte del cielo. Come Anko. Già, come Anko… Anko che stava per tornare…
Anko che, Dio solo lo sa, come avrei voluto trattenere qui.
“Ha avuto un ingaggio
milionario per una squadra dell’ NBA… con annessa borsa di studio per Harvard…”
continuò lei, la voce ormai talmente rotta che era più fatta di silenzio che di
parole.
“Che culo…” commentai a
bassa voce.
“L’avrei detto anche io…
se solo…” finalmente, le lacrime coprirono le sue guance e scesero a precipizio
sulle sue labbra secche, portando salato ristoro al suo sorriso ormai vuoto e
morto. Un singhiozzo si accompagnò alle sue ultime parole: “… se solo me
l’avesse detto…”.
“Non ti ha detto niente?”
chiesi scioccamente, sinceramente sorpreso.
Lei negò con il capo, una
lacrima che sfiorò la mia mano: “… lo sa da tre settimane… me l’ha detto Danny,
pensando che io lo sapessi. Ho dovuto anche fingere che lo sapessi…”, un nuovo
singhiozzo interruppe le sue parole: “… ha il biglietto aereo e tutto. Dovrebbe
partire due giorni dopo il ritorno dal ritiro per sistemare delle cose…
tornerebbe solamente per giocare nel campionato nazionale… quelli dell’ NBA
pensano che sarebbe una bella pubblicità al loro nuovo acquisto, se vincesse
anche il campionato con il Ryonan. Gli pagherebbero tutte le spese aeree…”, la
sua voce si incrinò di nuovo, mentre diceva: “Capisci? Capisci adesso?! Sa
tutte queste cose da tre settimane… le sa persino Danny e chissà forse anche
Hikoichi… e io… nulla. Niente… come una a cui lasci il tuo numero, sperando che
non ti chiami mai, come una che ti scopi una sera e ti dimentichi la mattina
dopo. Mica gli racconti la storia della tua vita… che cazzo te ne frega? E lui…
credevo che Rukawa… credevo che solo lui… fosse così… ed invece… alla fine, non
c’è differenza…”.
Stava iniziando a
delirare, la febbre le stava salendo ancora. Gli occhi lucidi le si chiudevano
da soli, mentre lei cercava ancora di parlare. La presi in braccio di peso,
trascinandola fuori dal bagno fino in camera sua. Le sue ultime parole
sconnesse furono qualcosa tipo: “… dopo tutto quello che ha fatto per me… è
sempre colpa del basket, sempre il basket. Come riuscirò senza…?”.
L’adagiai lentamente sul
letto, coprendola bene con un plaid rosso che dovevano aver lasciato gli altri,
evidentemente volatilizzati al piano di sotto.
La guardai in viso attentamente. Ecco, come si riduce la donna più forte del mondo per amore.
Mi impressi la sua
immagine nella mente a monito perenne.
Ecco perché avete tanto
bisogno di noi. Ed ecco perché sembrate sempre deboli, quando siete mille volte
più forti di noi.
Perché amate.
Perché, amando uno di
noi, prendete a picconate la vostra forza.
Vi distruggete, amando.
Diventate deboli, amando.
E tutto questo accade da
secoli… anzi, da millenni fa…
Accade dai tempi di una
maga, di una donna tradita, di una madre.
Ah già, si chiamava
Medea.
“Bè, allora?!”.
“Allora, cosa?” chiesi
distratto, guardando Hanamichi con gli occhi annacquati dai pensieri.
“Non dici niente?” mi
chiese ancora lui insistentemente.
“Ma che cazzo dovrei
dire?! E su cosa, poi?!”. Me li stava facendo girare, decisamente. Anche quando
parla normalmente, è difficilmente comprensibile nelle sue seghe mentali e nei
suoi discorsi sconclusionati. Figuriamoci quando fa il vago… è come parlare con
un sordomuto e cercare di capire i suoni inarticolati e scarsi che provengono
dalla sua bocca. Mi strinsi nella giacca, faceva freddo quella sera, nonostante
fosse giugno ormai. La strada era deserta, c’eravamo solamente lui ed io che
percorrevamo il viale comune che portava alle nostre case. Avevamo lasciato
Kana a casa, dopo aver messo a letto Ayako, e lei ci aveva detto che ci avrebbe
fatto sapere se ci fossero state delle novità. Non che ci tenessi a saperle,
comunque… avevamo lasciato Haruko a casa, più o meno cinque isolati prima, e
adesso io ed Hanamichi eravamo rimasti soli. Soli, con i nostri pensieri. O
perlomeno, io volevo rimanere solo con i
miei pensieri, ma Hanamichi evidentemente era di un altro parere. Adesso la capisco
Kana, quando si spara a palla la musica nelle orecchie. Altro che mistero o
cosa nascosta, lo fa per non sentire l’idiota… deve essere così… poveretta, mi
fa davvero un’enorme pena. Quel coglione c’ha sempre il sincronismo di rompere
nel momento meno opportuno…
“Come, su cosa??!!” mi
fece tutto incazzato “Di che cosa dovremmo star parlando, scusa?! Di Ayako!”.
Sospirai, fosse stato un
altro momento l’avrei già sbattuto di testa contro un lampione, ma non avevo
nemmeno la voglia di fare quello. Fissai lo sguardo su una stupida falena che
volava attorno ad una luce. Baluginò qualche secondo, quasi spegnendosi, forse
anch’essa rotta di palle dal gracchiare di Hanamichi. Ma purtroppo io me lo
dovevo sopportare per altri cinquanta metri e passa, considerando il passo da
processione che avevamo. Quindi, una fottuta risposta gliela dovevo per forza.
La mia mente trovò la strada giusta per metterlo a tacere e,
contemporaneamente, per dare sfogo a quello che premeva sotto la mia pelle da
quando ne avevo sentito parlare.
“Potremmo anche parlare
di Anko, per esempio… del motivo per cui torna in Giappone…” dissi in un
soffio, le parole che bruciavano le mie labbra. Ecco, l’avevo detto… era da
quando avevamo lasciato casa di Ayako che quel pensiero si era attaccato ostinato
alla mia mente. O meglio… era sempre rimasto lì, da quando Hanamichi me ne
aveva parlato. Ma la faccenda di Ayako lo aveva fatto passare in secondo piano.
Era come una nota stonata nel sottofondo di una melodia apparentemente
armonica… insomma, la ignoravo perché il resto comunque era accettabile o più
importante. E quella, per tutto dispetto, continuava a vibrare in me, riducendo
in frammenti quel poco di equilibrato che ancora esisteva. Sbirciai il profilo
di Hanamichi, reso buio dalla scarsa presenza di illuminazione. Non indovinai i
suoi pensieri, né vidi la sua espressione, soltanto le sue spalle si erano
irrigidite. Ed anche il silenzio sembrava diverso. Stava pensando a che cosa
dirmi.
“Non te l’ho detto?”
disse con tono casuale e tranquillo “Ha litigato con la madre…”.
Stavo per chiedere su che
cosa, ma mi fermai. Lo conosco troppo bene Hanamichi, e le sue scarne parole mi
avevano già fatto capire tutto. Di solito, è logorroico. Cazzo, parlerebbe
anche per ore. Se non lo fa, c’è un motivo. E il motivo non può essere nulla di
diverso dal fatto che non ha intenzione di parlare della vicenda, o comunque di
darmi spiegazioni eccessive. Tutto quello mi sembrava strano, ovviamente… era
da quando Anko aveva deciso di partire che Hanamichi mi aveva sempre detto
tutto quello che riguardava la sua famiglia. Solo prima, quando c’eravamo
appena conosciuti, lui manteneva un ostinato riserbo su tutto quello che aveva
a che vedere con la madre. Adesso, sembrava essere tornato a quei tempi. Non
sapevo spiegarmene la ragione e la fottuta curiosità faceva il resto, scuotendo
i miei nervi con la sensazione che non ci fosse niente di buono nel ritorno di
Anko. Ma sapevo bene che, se Hanamichi si stava comportando in quella maniera,
non avrei cavato un ragno dal buco. Cercai di eludere la risposta che non
voleva darmi con altre domande, in modo da avere qualche altro pezzo per
capire: “L’hai più sentita da allora? Intendo da quando è partita…” chiesi
cautamente, abbassando un po’ la voce.
Hanamichi sembrò pensarci
sopra, poi con la medesima calma di poco prima, la calma che sapevo solamente
apparente, rispose: “Una sola volta, credo… quando gli dissi della morte di mio
padre… e poi altre due volte… ma… insomma, non avevo molta voglia di
sentirla…”, la sua voce si interruppe quasi imbarazzata e la accolsi con un
silenzio partecipe. Chi cazzo avrebbe avuto voglia di risentire Anko?
Certamente non io. E, per lui, se mai questo fosse possibile, doveva essere
anche peggio.
“E tu, invece?” mi chiese
Hanamichi a sua volta, voltandosi per guardarmi in faccia.
Ci pensai anch’io su.
Incerto su che cosa dire. Non l’avevo sentita, questo era un fatto. Ed era un
fatto se per sentire si intendeva
parlare o comunque comunicare con una persona. Se si intendeva altro, allora
non lo so… doveva essere più o meno lo stesso. Le chiamate con il prefisso
internazionale venivano puntualmente rifiutate, non appena me ne accorgevo, e
le lettere… bè, quelle le facevo a mille pezzi, gettandole prima che dai
frammenti potessi distinguere la più piccola sillaba. Sì, credo proprio di non
averla sentita.
Negai con il capo con
decisione, in fondo anche lui l’aveva cancellata dai suoi pensieri e dai suoi
gesti, ed era suo fratello. Io c’avevo meno motivi di lui per mantenere un
minimo contatto con lei.
“Non ci credo…” rise
Hanamichi.
Nervoso, sbottai: “E
perché non ci credi, razza di imbecille?!”.
“Sì, come se io non sapessi che cosa c’era tra te ed Anko…” continuò a ridere in maniera alquanto irritante “Che c’è, hai paura che lo dica ad Haruko?!”. Il suo sghignazzare me li fece girare clamorosamente, mi trattenni finché ci riuscii, ma alla fine esplosi, urlando: “Figurati a me che cazzo me ne sbatte di Anko!”. Lui continuò a ridere per un po’, il suo accesso di risa accompagnato dal latrare di un cane che avevo spaventato nel mio urlo. Lo lasciai fare, in fondo aveva diritto di riderci sopra. Anche se mi faceva incazzare… come tutte le persone che ridono per non fare… altro…
Mancava poco ormai
all’incrocio, dove io avrei proseguito e lui avrebbe girato a destra.
Intravedendolo alla fine del viale, sentii le mie vene permearsi di un
sentimento quasi d’urgenza. C’era ancora qualcosa che volevo dirgli, qualcosa
che mi pesava, qualcosa che forse solamente lui avrebbe capito. Qualcosa che mi
faceva sentire in colpa, ma che al contempo mi faceva stare bene. Esitai prima
di parlare, poi mi mandai a fanculo mentalmente e decisi di svuotarmi la
coscienza.
“Ehi…” lo chiamai.
“Eh?”.
“Sai che c’è?” sorrisi
leggermente tra me e me, guardandolo “Mi ero davvero cagato sotto, quando ho
visto Ayako in quelle condizioni…”.
“A chi lo dici…” rispose
lui complice “Quando siamo entrati in casa… non lo so… mi sembrava che fosse
successa un’altra tragedia… come l’anno scorso, insomma… cazzo, capisco che sta
male e tutto il resto… ma in fondo Sendo se ne va in America, mica muore! Ci
potessi andare io! Sai come si fotterebbe Rukawa?!” ghignò soddisfatto.
Sorrisi, era esattamente tutto quello che avevo pensato io. È davvero il
fratello che non ho mai avuto. Poche parole che riassumevano tutto quello che
mi oscillava dentro. Aggiunsi, poco prima che ci separassimo: “Se ci andassi
tu, Kana salterebbe di gioia!”. Minacce di morte come saluti, urlati mentre ci
allontanavamo. Poi, finalmente, silenzio.
Avrei aiutato Ayako, se
fosse stato necessario. Avrei anche potuto parlare con Sendo, se ce ne fosse
stato bisogno. Ma potevo anche non farlo. E questa era la cosa più bella del
mondo.
Potevo continuare a
ridere con Hanamichi, a interrogarmi su Kana, a stringere la mano di Haruko.
Avevo una scelta. Cazzo,
potevo anche starmene fermo al posto mio. O farmi coinvolgere, sapendo che
nulla di mio sarebbe venuto a rischio.
Nella vita, quella vera,
arriva sempre il momento in cui l’eroe posa per terra la sua spada scintillante
e sceglie di andarsene. Il momento in cui capisce che non può perdere tutto
quello che ha solo per aiutare un altro. Il momento in cui capisce che è
solamente uno come gli altri. Il momento in cui si scopre egoista e non si
sente in colpa.
Perché essere un eroe non
è essere invincibile.
È solo un’altra maschera,
un’altra lastra di ghiaccio tra l’anima e il mondo.
Come ridere, se si
vorrebbe piangere.
Come non parlare, se si
vorrebbe gridare.
Come affogarsi di musica
a tutto volume, se si teme il silenzio.
… come indossare le
spoglie del leone ed essere infingardi gattini.
Nella vita, quella vera,
arriva sempre il momento in cui l’eroe scopre di dover soccombere.
Perché non è invincibile.
Perché è solamente un uomo. Perché ha paura.
Per me, quel momento
sarebbe arrivato una settimana dopo. Con l’atterraggio di un aereo e con il
ritorno di una persona che avevo solo finto di dimenticare.
La persona che mi avrebbe
insegnato che nella vita, quella vera, arriva sempre il momento in cui l’eroe,
prima di morire, capisce quanto è stato coglione a credersi immortale.
Perché nella vita, quella
vera, l’eroe non vince mai.
Ah già, e quel che è
peggio le prende più di tutti.
I am so high. I can hear heaven
I
am so high. I can hear heaven.
No
heaven, no heaven dont hear me.
And
they say that a hero can save us.
Im
not gonna stand here and wait.
I'll
hold onto the wings of the eagles.
Watch
as they all fly away.
Someone
told me love will all save us.
But how can that be, look what love gave us.
A
world full of killing, and blood-spilling
That
world never came.
And they say that a hero can save us.
Im
not gonna stand here and wait.
I'll
hold onto the wings of the eagles.
Watch
as they all fly away.
Now
that the world isnt ending, its love that Im sending to you.
It
isnt the love of a hero, and thats why I fear it wont do.
And
they say that a hero can save us.
Im
not gonna stand here and wait.
I'll
hold onto the wings of the eagles.
Watch
as they all fly away.
And
they're watching us
(Watching
Us)
As
they all fly away
Chiedo perdono! Allora, in questo periodo, mi è davvero
successo di tutto! Non so nemmeno da dove cominciare! Per prima cosa, il mio
computer se ne è andato completamente di cervello, cosa abbastanza risaputa, ma
che è diventata gravissima, quando mi ha completamente cancellato il capitolo
nove della mia storia! Volevo morire, considerando quanta fatica ci avevo messo
nello scriverlo! L’ho dovuto riscrivere e, quando ho finito, mi è partito
Internet… mio padre per formattare il computer, ci ha messo altri vent’anni, ed
ecco il motivo del mio ritardo! Chiedo ancora scusa! Sono, stranamente per me,
molto soddisfatta di questo capitolo! Ero indecisa se effettivamente il punto
di vista di Yohei sarebbe stato pertinente o meno, e soprattutto se sarei
riuscita a scrivere di un personaggio di cui nell’anime si sa veramente poco!
Ho dato di lui una mia personale interpretazione che risente di alcune mie
caratteristiche caratteriali, come la paura di innamorarsi o il nascondere
quando si sta male dietro un sorriso o dietro il coraggio, ma è anche
leggermente ispirato ad un mio amico, che cerca sempre di aiutare tutti,
mettendosi spesso proprio a fare “l’eroe” e poi le prende da tutti quelli che
cerca di aiutare! Nel caso la mia interpretazione non vi piaccia, fatemelo
sapere; alla fine, è solamente un mio punto di vista, non deve essere per forza
corretto! Ancora una volta vorrei fare un enorme GRAZIE ai miei lettori sia per
la loro pazienza per le mie alterne vicende, sia perché lo dico sul serio, le
vostre recensioni sono veramente stupende! L’attenzione che ci mettete nel
leggere la mia storia, nel trarne fuori ogni cosa che io stessa posso aver
lasciato in secondo piano, è un qualcosa di veramente meraviglioso. Lo ripeto,
sono stata molto fortunata a trovare dei lettori così attenti e, posso dirlo,
anche così appassionati e sensibili da cogliere ogni sfumatura della mia
storia. L’ho detto in svariate occasioni, questa come altre, ma particolarmente
questa, è una storia a cui tengo moltissimo, quindi vederla così apprezzata mi
fa più piacere che in altre situazioni simili! Per questo, grazie davvero,
potrà sembrare esagerato ma per me, che sogno di fare tra le altre cose anche
la scrittrice, è davvero una cosa importante! Avrei voluto ringraziarvi uno per
uno, ma purtroppo non ho molto tempo, devo ancora rivedere l’intero capitolo ed
altrimenti perdo la possibilità di aggiornare entro oggi. Comunque, davvero
grazie… il prossimo capitolo sarà il decimo, l’ho quasi finito e vi do
un’anticipazione. Sarà da tre punti di vista diversi… provate ad indovinare di
chi! Un enorme bacione, Cassie!