Capitolo
2
I
ribelli
L’atmosfera
a poco a poco si era acquietata, tornando tersa e tranquilla: la cupa foschia e
le nubi che fino a pochi istanti prima correvano lungo la volta del cielo,
mostrando e a tratti nascondendo il volto della luna piena, si erano diradate,
aprendo un varco nitido nella notte. Era come se un mostro, appollaiato sino a
quel momento sull’astro paglierino dopo aver dato la caccia alla preda, si fosse
ritirato a rimirare da un cantuccio nascosto l’effetto della propria opera,
leccandosi le labbra, fiero del proprio operato.
Dopo la
tempesta, era tornata quella calma ingannevole che pareva nascondere le proprie
insidie sotto un’apparenza vagamente ostile e carica di
languore.
Un’ombra
dai contorni incerti, rivelata dai raggi della luna piena, parve far capolino
come un fantasma fuggiasco in quella stanza in cui ancora vibravano note dense
di sangue.
Ma, più
probabilmente, doveva essersi trattato di un incubo momentaneo… Una sorta di
tremenda suggestione: nessuno lo spiava.
Il corpo
privo di vita di Lucien giaceva inerte sul piccolo divanetto scuro e, ad
un’occhiata sommaria alle sue spalle, sarebbe parso tranquillamente assopito
nella lettura di un libro, in attesa degli ospiti della serata. Ma la sua posa,
agli occhi di Auguste che indugiavano febbrili e ossessivi su ogni singolo
particolare, aveva qualcosa d’innaturale: troppo molle ed abbandonata per
appartenere ad una figura addormentata, il busto reclinato, il viso esangue che
puntava verso il cielo in un ultimo anelito di libertà, le lunghe gambe
distese.
Auguste
si risolse a distogliere momentaneamente lo sguardo da quella visione. Ansante,
bagnato di un gelido madore, il cuore che pareva schizzargli fuori dal petto,
scosse nervosamente la testa, come a volersi liberare di angosciosi pensieri
ancorati tenacemente al cervello.
Lucien
non poteva essere morto.
Riprese
a scrutarlo, sforzandosi di restare lucido. Forse, avrebbe potuto fare qualcosa,
o almeno così cercava d’illudere la propria mente in subbuglio. Sbatté le
palpebre fino a vedere più chiaro nella penombra e, facendosi coraggio, portò la
mano tremante a sfiorare la gola di Lucien con il gesto razionale di un medico,
sì da constatare se respirasse ancora. Lo tastò convulsamente, un tocco delicato
e malfermo. Nulla, nulla, neppure il più flebile movimento che potesse lasciar
presagire un soffio di vita. Non una sola molecola d’ossigeno nelle vie
respiratorie, nessun alito vitale a rinfrescare i polmoni inerti. Il battito
assente. Immobile, le povere vene svuotate d’ogni energia vitale, il volto
livido ed esanime.
Il suo
viso. Sembrava bello e disteso come sempre, non il minimo accenno di sofferenza
o di paura in quel che restava dei suoi ultimi istanti. Sarebbe parso
addirittura normale, se non fosse stato per il gelido pallore che conferiva al
volto senza vita quella venatura innaturale.
Auguste
non poté sostenere ulteriormente quella vista ed i pensieri folli e confusi che
lo tormentavano. Ogni singolo dettaglio sembrava pulsare di vita propria,
suscitando in lui un’attenzione morbosa che si risolveva in una fitta al cuore
sempre più intensa. Stava impazzendo! Era impazzito, ne era
sicuro.
Le gambe
non lo ressero. Ricadde sulle ginocchia, a peso morto, il capo fra le mani,
troppo scosso persino per lasciar sfuggire qualche lacrima dagli occhi lucidi e
congestionati o strapparsi i capelli per la disperazione. Era…
troppo.
Non era
giunto in tempo, aveva lasciato che tutto si consumasse nel silenzio, fragile ed
impotente di fronte alla fatalità; incapace, ancora una volta, di mitigare
quella piega così amara in cui mai avrebbe immaginato potessero volgere gli
eventi.
E, in
mezzo a quel vortice a senso unico di dolore, panico e disperazione, una rabbia
cieca e devastante si fece strada in lui, gelandogli ogni goccia di
sangue.
Perché
Lucien aveva lasciato che accadesse? Il sangue purpureo che impregnava la sua
pelle e la seta leggera della camicia era fresco e continuava a colare
lentamente, imbevendo tutto.
Stupido!
Se si fosse reso conto in tempo del pericolo, avrebbe potuto resistere ancora,
solo qualche istante: istante che gli avrebbe concesso d’intervenire e stornare
da lui la morte.
Perché
hai permesso che accadesse, Lucien? Perché non mi hai lasciato il tempo
d’intervenire, perché hai voluto dannarmi per
l’eternità…?
* *
*
-
Un’aggressione. Ritorsioni di qualche potente al quale è stata inavvertitamente
pestata la coda? Un “simpatico” avvertimento da parte del bastardo che pensa di
soggiogarci - non ancora per molto, volesse Dio… Qualcosa tipo “fattevi gli
affaracci vostri o farete la stessa fine”? – proruppe concitata una figura alta
alle sue spalle.
- Taci,
Dorian! – lo redarguì una voce dalla cadenza più bassa e roca – Nessuno ha
chiesto il tuo parere.
- Ma deve esserci, per Giuda, una ragione a
tutto questo – rincarò la dose il più giovane,
irremovibile.
Auguste
non li ascoltava, estraneo a tutto ciò che era accaduto intorno a lui
nell’ultima mezz’ora. Poco gli importava delle vaghe supposizioni degli altri
ribelli e del capo della polizia cittadina: ipotesi confuse e senza alcun
fondamento che non avrebbero fatto altro che ingolfargli il cervello d’inutili
perplessità.
- Bada a
come parli, Dorian! Anche i muri hanno orecchie, di questi
tempi.
Il
giovane dai capelli biondi si limitò a scuotere nervosamente il capo, scoccando
un’occhiata insofferente in direzione del commissario, un’espressione di sfida
dipinta sul bel volto. Per poi riprendere a misurare con passi tesi e concitati
il perimetro della stanza.
Dorian
era così diverso da lui, si ritrovò a meditare Auguste; così diverso nel modo di
catalizzare l’angoscia e la tensione in eccesso: il suo temperamento collerico
gli lasciava esternare con rinnovato impeto il dolore, la rabbia, il crescente
nervosismo.
La
tensione che impregnava la stanza era diventata per tutti così densa e palpabile
da non concedere quasi neppure lo spazio di un respiro. E quel piccolo sfacciato
si prendeva la libertà di insultare il signore di Noir Trésor persino di fronte
ad un uomo che, lì di fronte a loro, in quel momento si ergeva a rappresentante
di un’autorità.
Era una
fortuna che il capo della polizia cittadina fosse del tutto dissimile da quegli
uomini rigorosi, ligi al proprio dovere al servizio del duca; un bene per
Dorian, incappare non nel commissario intransigente capace di fargli passare il
peggior quarto d’ora della sua vita, ma in un questurino indolente che, per
codardia, fingeva di non sentire: troppo vigliacco per fare la spia o
intervenire con mano pesante contro le voci sovversive in città, altrettanto
vile per risolversi definitivamente a schierarsi dalla parte dei
ribelli.
E forse,
convenne Auguste, quell’uomo sarebbe stato capace, se ciò avesse prodotto per
lui dei vantaggi, di prostrarsi ai piedi del tiranno. Era Alphonse du Lac,
dopotutto, l’uomo al quale quel viscido di Lambert doveva la propria fortuna:
era stato lui ad avergli elargito su un piatto d’argento quella posizione che
gli permetteva di mantenere un alone di rispettabilità, nonché di percepire un
ragguardevole compenso. Al cospetto del suo benefattore, teneva un contegno
tanto rigido e compito quanto ipocrita, comportamento che non di rado gli aveva
alienato la stima e la simpatia della popolazione. Ma, voltate le spalle e
smessa la propria divisa, assicuratosi di avere le spalle adeguatamente coperte,
era un uomo del popolo che sapeva menar le parole nella giusta direzione,
sparando in tutta tranquillità su quanto non gli andasse dell’amministrazione
del duca, dei suoi collaboratori, del suo regime, senza per questo pervenire ad
alcuna soluzione concreta che chiarisse la sua posizione. Auguste lo reputava
senza mezzi termini uno che sputava nel piatto in cui mangia, e gli altri
avevano finito per compatire quell’uomo opaco ed untuoso. E, tutto sommato,
innocuo, per loro fortuna.
Auguste
udiva i tacchi degli stivali di Dorian battere sul pavimento come martelli,
finché il ragazzo non si fermò accanto a lui, lo sguardo fisso sul corpo senza
vita di Lucien adagiato compostamente sul divano, mentre i due uomini, il medico
che lo stesso Dorian si era preoccupato di mandare a chiamare e quell’intrigante
questurino, scrutavano la salma con occhi gelidi e parlottavano fitto fitto tra
loro, attenti a non lasciarsi udire dai presenti.
Con la
coda dell’occhio, Auguste vide Dorian strapparsi in un moto isterico il nastro
stretto intorno alla coda di folti capelli ondulati che gli ricadeva oltre le
scapole. Il giovane scosse le chiome bionde come un cane infastidito dal caldo,
riavviandole all’indietro, e si riannodò il codino.
Dorian
era un fascio di nervi pronto ad esplodere: Auguste poteva quasi avvertire
l’aria intorno a sé, come un miraggio, risentire del respiro alterato e nervoso
del compagno e delle vibrazioni di collera. Al contrario di lui, che si ostinava
tenacemente a ricacciare dentro di sé un dolore che lo stava
uccidendo.
Giaceva
miseramente accoccolato sul pavimento, sconvolto e del tutto assente agli eventi
circostanti, lo sguardo vacuo inchiodato al pavimento, reggendosi la fronte con
la mano. Di rado si era sentito così debole, sconfitto, in balia di forze
superiori.
Gli
uomini presenti nella stanza insieme con lui non erano altro che ombre
inconsistenti che, per una semplice casualità, si agitavano davanti ai suoi
occhi. Percepiva le loro parole ed i loro gesti incredibilmente lontani da sé,
ovattati, come forme evanescenti viste attraverso uno
specchio.
Non gli
importava di ciò che si muoveva senza posa intorno a lui; non aveva più alcuna
importanza che quelli continuassero a blaterare inutilmente ipotesi più o meno
realistiche circa i motivi e la dinamica dell’accaduto. Non gli sarebbe
importato nulla neppure se avessero preso ad azzuffarsi nella speranza di
trovare un colpevole fra loro; neppure se l’avessero preso, gettato in mezzo
alla mischia e condotto in catene fino ai carceri.
No, si
era immerso senza neppure rendersene conto in una dimensione mentale parallela
dove macabre e sfuggenti illusioni, opera di entità malvagie, lo stavano
conducendo fino alla follia.
Si
riscosse lievemente, quando intercettò l’occhiata eloquente che il commissario
Lambert indirizzò a Dorian, per poi rivolgere un gesto della mano nella sua
direzione.
-
Portalo fuori a prendere una boccata d’aria, Dorian – biascicò con voce incolore
– Questo sta per sentirsi male, e un morto, per stanotte, è più che
sufficiente.
Dorian
si limitò ad una smorfia d’insofferenza, circondandogli le spalle con il braccio
e obbligandolo, quasi, a risollevarsi in piedi.
Gli
occhi di Auguste erano pozzi senza fondo. Per un istante, meditò se fosse stato
sufficiente strangolare il commissario per quell’infelice
affermazione.
Cosa
credi di saperne di me, stupido asino imparruccato? Avrebbe
voluto gridargli, se solo la sua mente non fosse stata immersa altrove,
dall’altra parte dello specchio che confondeva la sua
realtà.
Attraversò
la stanza come un automa, scortato da Dorian che gli teneva insistentemente la
mano sulla spalla come se fosse stato sul punto di crollare da un momento
all’altro, simile ad un fuscello mosso dal vento.
La sala
sembrava diversa da quando vi aveva buttato lo sguardo l’ultima volta – solo
pochi istanti prima di apprendere la fine del suo amico. Le pareti gli parevano
più buie e scure, come se l’alito dell’angoscia e della disperazione, in qualche
modo, vi fosse rimasto appiccicato.
Vide i
volti dei presenti, ma senza prendersi la briga d’identificarli. Ombre… Solo
ombre evanescenti. Forse si sarebbe svegliato in tempo dall’incubo. Forse. Se
già non fosse stato troppo tardi.
-
Auguste, sei sicuro di sentirti bene?
La voce
di Dorian lo riscosse definitivamente. La vista gli si snebbiò, dissipando
quella patina d’opacità che fino a quel momento gli aveva impedito di vedere
lucidamente.
- Certo,
Dorian. Io sto bene. Non è questo il problema – replicò con rinnovata
freddezza.
Già: non
era lui il problema. A chi credeva di darla a bere? Per quanto ancora? Oh, Dorian! Possibile che
nessuno di voi si renda conto di cos’ha veramente di
fronte?
Vide i
lineamenti delicatamente scolpiti sul volto del ragazzo contrarsi
nell’incertezza alle sue parole. Distolse lo sguardo. Quando
Fernand
sapeva fare persino di peggio. Se Auguste riusciva ancora a controllare e tenere
a freno l’impetuoso Dorian, sebbene egli agisse fondamentalmente in modo
autonomo, infischiandosene di tutto e spesso pentendosi delle sue stesse azioni,
Fernand era addirittura subdolo. Con lui, parlare era sempre tempo sprecato:
l’avrebbe contraddetto fino alla nausea ed avrebbe agito comunque di propria
iniziativa, qualunque cosa ne pensasse, operando in segreto e presentandosi
davanti a lui con fare così sfacciato, da finto innocente, da muovergli il
desiderio istantaneo di prenderlo a pugni.
L’aveva
scorto di sfuggita, ritto ed impassibile come una statua di marmo, lo sguardo
indolente. Aveva percorso distrattamente con lo sguardo la linea del suo volto
sottile, così fredda e pura da sembrare innaturale, e, come un gioco, aveva
tentato di cogliere qualche vaga emozione su quei lineamenti distesi in
un’espressione atarassica sul volto pallido.
I
capelli sciolti, lunghi fino alle spalle, come un’ombra ai lati del suo viso, a
rimarcare il taglio affilato dei lineamenti che ne attutiva l’impatto androgino;
la camicia, allacciata disordinatamente sul petto a scoprire una stretta
porzione del torace, circonfuso di quella grazia dimessa che gli conferiva
un’apparenza quasi aristocratica, una venatura vagamente inquietante: se non
fosse stato per quei penetranti occhi azzurri e per la sfumatura fredda che la
luce smorta conferiva al castano chiaro dei suoi capelli, il quadro d’insieme
sarebbe stato nettamente bicromatico.
Fernand,
i modi che talvolta si configuravano non troppo differenti da quelli di un
ragazzo riottoso ed imprudente: voleva tutto e subito. Nella sua ingenuità
giovanile, doveva essersi persuaso, insieme al suo degno compare, che fosse
tanto eroico quanto fattibile buttar giù un tiranno dal suo trono a suon di
pugnalate. Dorian e Fernand sembravano fatti della stessa pasta, meditò Auguste,
e la malefica accoppiata rischiava piuttosto di mettere a repentaglio la loro
sicurezza e mandare tutto in fumo. Fernand, in particolare, ai suoi occhi non
era che un ragazzo impulsivo la cui sconsideratezza andava tenuta a freno prima
che divenisse troppo tardi.
Fissava
diritto dinnanzi a sé, impassibile come una scultura
classica.
Fernand.
Lui, al contrario degli altri, non sembrava particolarmente scosso dagli ultimi
avvenimenti. Se ne stava lì, calmo e distaccato.
Piccolo
serpente malefico,
considerò fra sé Auguste, mordendosi nervosamente il labbro. Negli ultimi tempi,
Fernand non era stato esattamente in buoni rapporti con Lucien. Certo, questo
non rappresentava un motivo sufficiente a non fare una piega alla notizia della
sua morte, ma non era umanamente credibile che quel ragazzino appena svezzato
riuscisse a mostrarsi ancora più freddo e criptico di lui.
Non del
tutto, forse: il fatto stesso che Fernand avesse aderito con trasporto alla loro
causa e fosse uno dei principali fautori delle opere di sedizione, lasciava
presagire che un fondo di generosità dovesse pur possederlo, sepolto in qualche
angolo remoto di quel cuoricino di ghiaccio, al di là di contorte ambizioni o di
personali smanie di rivalsa.
Nonostante
tutto, ad Auguste era balenata per un attimo nella mente l’espressione ferita e
furiosa di Fernand in occasione della loro ultima discussione, solo pochi giorni
addietro.
Fernand
non doveva aver gradito di ritrovarsi sbattuto senza appello nel torto palese,
privo di qualunque consenso e con le spalle al muro a proposito di quella
questione che al momento, per quanto si sforzasse di far mente locale, Auguste
non riusciva proprio a rammentare nella sua interezza. Ricordava però l’energia
con cui Lucien l’aveva diffidato da intraprendere qualsiasi iniziativa, da
muovere anche solo un passo senza le certezze necessarie ed il benestare di
tutti. Rivedeva ancora la fermezza scolpita negli occhi d’acquamarina, fissi con
disarmante franchezza sugli oceani in tempesta che erano divenute le iridi di
Fernand, tanto cupe e fosche da sembrare quasi sprizzare scintille per il
profondo rancore che vi si annidava.
Ed
avendo Fernand un carattere fiero, con ogni probabilità non avrebbe regalato
tanto facilmente l’occasione di farsi rimirare in quello stato; se non fosse
stato così orgoglioso – Auguste ne era quasi sicuro – forse non sarebbe riuscito
a contenere le lacrime di rabbia che gli erano lampeggiate furiosamente negli
occhi, a quella che doveva aver sentito bruciare sulla pelle come una cocente
umiliazione. Vulnerabile, per un istante, insospettabilmente
vulnerabile.
Talvolta
Auguste cercava di convincersi che Fernand non fosse altro che un ragazzo
arrabbiato e un po’ allo sbando: forse innocuo, dopotutto, nella sua prevedibile
smania di voler crescere un po’ in fretta. Solo un
ragazzo.
Al suo
fianco, Auguste posò lo sguardo sulla sorella di Fernand, Ambrosie, lo sguardo
molle e indolente, lo stesso piglio distaccato e lievemente arrogante del
fratello.
La
somiglianza spiccata che i due condividevano nell’aspetto non sarebbe stata mai
paragonabile a ciò che accomunava i loro atteggiamenti. Ambrosie era più bionda
del fratello, aveva un viso minuto dallo sguardo incisivo, forse un po’
particolare per essere definito esattamente bello, quasi un’antitesi dei canoni
di bellezza femminile in voga, idealizzati nei dipinti e nei ritratti di gusto
vagamente barocco, recanti figure femminili dai corpi procaci, i volti slavati e
gli occhi sottili e sfuggenti.
Ambrosie
si muoveva con una grazia nervosa, troppo decisa per essere attribuita
immediatamente ad una donna. In lei, piuttosto, sembravano convivere
paradossalmente la sfrontata alterigia di un’aristocratica e la genuina
risolutezza di una ragazza del popolo, lo sguardo fresco e malinconico pervaso
di un lieve sottofondo d’inadeguatezza e sospetto.
Per
tutto il resto, quella donna restava un mistero, almeno quanto
Fernand.
Com’erano
giunti a Noir Trésor? Cosa li aveva condotti in quel nucleo di tirannide e
corruzione? Quali obiettivi si proponevano? Poteva ancora fidarsi di
loro?
Interrogativi
destinati in quel momento a giacere insoluti: per quanto Auguste si fosse
sforzato di penetrare quella rigida corazza di reticenza, non era riuscito a
comprendere a fondo fino a che punto Ambrosie fosse idealmente coinvolta nel
loro progetto, e se e dove risiedesse in lei il confine fra l’ambizione di
protagonismo e l’aspirazione sincera. Sembrava essere entrata a far parte della
congrega quasi per caso, forse sulla falsariga di suo fratello, forse spinta
dall’amicizia che la legava a Dorian, da qualche arcana aspirazione personale o
dal vanitoso, giovanile desiderio di far convergere le proprie traboccanti
energie verso un punto concreto.
-
Torniamo dentro – si rivolse asciutto a Dorian – Questo venticello mi ha fatto
venire mal di testa.
Finalmente,
capitolo concluso! Purtroppo, è un periodo un po’ “maledetto”, tra la fine della
scuola e l’imminente Maturità.
Spero
sia almeno all’altezza delle aspettative e che non deluda i lettori di “Noir
Trésor.
Dunque,
ringrazio con grande affetto Cami,
Mikiinsa e Monella che hanno recensito i capitoli
precedenti, nonché per le belle cose che mi avete detto e per il vostro
incoraggiamento. Comunque sia… Grazie, grazie, grazie, anche a tutti coloro che
stanno leggendo “Noir Trésor”, ancora “in incognito”!
Con
affetto,
Alla
prossima!