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Autore: Cassandra Morgana    02/06/2007    3 recensioni
Un tiranno ed una città a un soffio dalla guerra civile.
Un gruppo di ragazzi improvvisati ribelli, persi nelle sfuggenti sfaccettature del loro essere e del loro ruolo, fra le trame di un complesso interagire nel mondo.
Una minaccia soffusa che aleggia nell'aria...
Un luogo immaginario e un momento storico immaginario, "riconducibile" al XVIII secolo europeo.
Benvenuti a Noir Trésor!
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta, Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Noir Trésor ~'
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Capitolo 2

I ribelli

 

 

L’atmosfera a poco a poco si era acquietata, tornando tersa e tranquilla: la cupa foschia e le nubi che fino a pochi istanti prima correvano lungo la volta del cielo, mostrando e a tratti nascondendo il volto della luna piena, si erano diradate, aprendo un varco nitido nella notte. Era come se un mostro, appollaiato sino a quel momento sull’astro paglierino dopo aver dato la caccia alla preda, si fosse ritirato a rimirare da un cantuccio nascosto l’effetto della propria opera, leccandosi le labbra, fiero del proprio operato.

Dopo la tempesta, era tornata quella calma ingannevole che pareva nascondere le proprie insidie sotto un’apparenza vagamente ostile e carica di languore.

Un’ombra dai contorni incerti, rivelata dai raggi della luna piena, parve far capolino come un fantasma fuggiasco in quella stanza in cui ancora vibravano note dense di sangue.

Ma, più probabilmente, doveva essersi trattato di un incubo momentaneo… Una sorta di tremenda suggestione: nessuno lo spiava.

Il corpo privo di vita di Lucien giaceva inerte sul piccolo divanetto scuro e, ad un’occhiata sommaria alle sue spalle, sarebbe parso tranquillamente assopito nella lettura di un libro, in attesa degli ospiti della serata. Ma la sua posa, agli occhi di Auguste che indugiavano febbrili e ossessivi su ogni singolo particolare, aveva qualcosa d’innaturale: troppo molle ed abbandonata per appartenere ad una figura addormentata, il busto reclinato, il viso esangue che puntava verso il cielo in un ultimo anelito di libertà, le lunghe gambe distese.

Auguste si risolse a distogliere momentaneamente lo sguardo da quella visione. Ansante, bagnato di un gelido madore, il cuore che pareva schizzargli fuori dal petto, scosse nervosamente la testa, come a volersi liberare di angosciosi pensieri ancorati tenacemente al cervello.

 

Lucien non poteva essere morto.

 

Riprese a scrutarlo, sforzandosi di restare lucido. Forse, avrebbe potuto fare qualcosa, o almeno così cercava d’illudere la propria mente in subbuglio. Sbatté le palpebre fino a vedere più chiaro nella penombra e, facendosi coraggio, portò la mano tremante a sfiorare la gola di Lucien con il gesto razionale di un medico, sì da constatare se respirasse ancora. Lo tastò convulsamente, un tocco delicato e malfermo. Nulla, nulla, neppure il più flebile movimento che potesse lasciar presagire un soffio di vita. Non una sola molecola d’ossigeno nelle vie respiratorie, nessun alito vitale a rinfrescare i polmoni inerti. Il battito assente. Immobile, le povere vene svuotate d’ogni energia vitale, il volto livido ed esanime.

Il suo viso. Sembrava bello e disteso come sempre, non il minimo accenno di sofferenza o di paura in quel che restava dei suoi ultimi istanti. Sarebbe parso addirittura normale, se non fosse stato per il gelido pallore che conferiva al volto senza vita quella venatura innaturale.

Auguste non poté sostenere ulteriormente quella vista ed i pensieri folli e confusi che lo tormentavano. Ogni singolo dettaglio sembrava pulsare di vita propria, suscitando in lui un’attenzione morbosa che si risolveva in una fitta al cuore sempre più intensa. Stava impazzendo! Era impazzito, ne era sicuro.

Le gambe non lo ressero. Ricadde sulle ginocchia, a peso morto, il capo fra le mani, troppo scosso persino per lasciar sfuggire qualche lacrima dagli occhi lucidi e congestionati o strapparsi i capelli per la disperazione. Era… troppo.

Non era giunto in tempo, aveva lasciato che tutto si consumasse nel silenzio, fragile ed impotente di fronte alla fatalità; incapace, ancora una volta, di mitigare quella piega così amara in cui mai avrebbe immaginato potessero volgere gli eventi.

E, in mezzo a quel vortice a senso unico di dolore, panico e disperazione, una rabbia cieca e devastante si fece strada in lui, gelandogli ogni goccia di sangue.

Perché Lucien aveva lasciato che accadesse? Il sangue purpureo che impregnava la sua pelle e la seta leggera della camicia era fresco e continuava a colare lentamente, imbevendo tutto.

Stupido! Se si fosse reso conto in tempo del pericolo, avrebbe potuto resistere ancora, solo qualche istante: istante che gli avrebbe concesso d’intervenire e stornare da lui la morte.

 

Perché hai permesso che accadesse, Lucien? Perché non mi hai lasciato il tempo d’intervenire, perché hai voluto dannarmi per l’eternità…?

 

* * *

 

- Un’aggressione. Ritorsioni di qualche potente al quale è stata inavvertitamente pestata la coda? Un “simpatico” avvertimento da parte del bastardo che pensa di soggiogarci - non ancora per molto, volesse Dio… Qualcosa tipo “fattevi gli affaracci vostri o farete la stessa fine”? – proruppe concitata una figura alta alle sue spalle.

- Taci, Dorian! – lo redarguì una voce dalla cadenza più bassa e roca – Nessuno ha chiesto il tuo parere.

- Ma deve esserci, per Giuda, una ragione a tutto questo – rincarò la dose il più giovane, irremovibile.

Auguste non li ascoltava, estraneo a tutto ciò che era accaduto intorno a lui nell’ultima mezz’ora. Poco gli importava delle vaghe supposizioni degli altri ribelli e del capo della polizia cittadina: ipotesi confuse e senza alcun fondamento che non avrebbero fatto altro che ingolfargli il cervello d’inutili perplessità.

- Bada a come parli, Dorian! Anche i muri hanno orecchie, di questi tempi.

Il giovane dai capelli biondi si limitò a scuotere nervosamente il capo, scoccando un’occhiata insofferente in direzione del commissario, un’espressione di sfida dipinta sul bel volto. Per poi riprendere a misurare con passi tesi e concitati il perimetro della stanza.

Dorian era così diverso da lui, si ritrovò a meditare Auguste; così diverso nel modo di catalizzare l’angoscia e la tensione in eccesso: il suo temperamento collerico gli lasciava esternare con rinnovato impeto il dolore, la rabbia, il crescente nervosismo.

La tensione che impregnava la stanza era diventata per tutti così densa e palpabile da non concedere quasi neppure lo spazio di un respiro. E quel piccolo sfacciato si prendeva la libertà di insultare il signore di Noir Trésor persino di fronte ad un uomo che, lì di fronte a loro, in quel momento si ergeva a rappresentante di un’autorità.

Era una fortuna che il capo della polizia cittadina fosse del tutto dissimile da quegli uomini rigorosi, ligi al proprio dovere al servizio del duca; un bene per Dorian, incappare non nel commissario intransigente capace di fargli passare il peggior quarto d’ora della sua vita, ma in un questurino indolente che, per codardia, fingeva di non sentire: troppo vigliacco per fare la spia o intervenire con mano pesante contro le voci sovversive in città, altrettanto vile per risolversi definitivamente a schierarsi dalla parte dei ribelli.

E forse, convenne Auguste, quell’uomo sarebbe stato capace, se ciò avesse prodotto per lui dei vantaggi, di prostrarsi ai piedi del tiranno. Era Alphonse du Lac, dopotutto, l’uomo al quale quel viscido di Lambert doveva la propria fortuna: era stato lui ad avergli elargito su un piatto d’argento quella posizione che gli permetteva di mantenere un alone di rispettabilità, nonché di percepire un ragguardevole compenso. Al cospetto del suo benefattore, teneva un contegno tanto rigido e compito quanto ipocrita, comportamento che non di rado gli aveva alienato la stima e la simpatia della popolazione. Ma, voltate le spalle e smessa la propria divisa, assicuratosi di avere le spalle adeguatamente coperte, era un uomo del popolo che sapeva menar le parole nella giusta direzione, sparando in tutta tranquillità su quanto non gli andasse dell’amministrazione del duca, dei suoi collaboratori, del suo regime, senza per questo pervenire ad alcuna soluzione concreta che chiarisse la sua posizione. Auguste lo reputava senza mezzi termini uno che sputava nel piatto in cui mangia, e gli altri avevano finito per compatire quell’uomo opaco ed untuoso. E, tutto sommato, innocuo, per loro fortuna.

Auguste udiva i tacchi degli stivali di Dorian battere sul pavimento come martelli, finché il ragazzo non si fermò accanto a lui, lo sguardo fisso sul corpo senza vita di Lucien adagiato compostamente sul divano, mentre i due uomini, il medico che lo stesso Dorian si era preoccupato di mandare a chiamare e quell’intrigante questurino, scrutavano la salma con occhi gelidi e parlottavano fitto fitto tra loro, attenti a non lasciarsi udire dai presenti.

Con la coda dell’occhio, Auguste vide Dorian strapparsi in un moto isterico il nastro stretto intorno alla coda di folti capelli ondulati che gli ricadeva oltre le scapole. Il giovane scosse le chiome bionde come un cane infastidito dal caldo, riavviandole all’indietro, e si riannodò il codino.

Dorian era un fascio di nervi pronto ad esplodere: Auguste poteva quasi avvertire l’aria intorno a sé, come un miraggio, risentire del respiro alterato e nervoso del compagno e delle vibrazioni di collera. Al contrario di lui, che si ostinava tenacemente a ricacciare dentro di sé un dolore che lo stava uccidendo.

Giaceva miseramente accoccolato sul pavimento, sconvolto e del tutto assente agli eventi circostanti, lo sguardo vacuo inchiodato al pavimento, reggendosi la fronte con la mano. Di rado si era sentito così debole, sconfitto, in balia di forze superiori.

Gli uomini presenti nella stanza insieme con lui non erano altro che ombre inconsistenti che, per una semplice casualità, si agitavano davanti ai suoi occhi. Percepiva le loro parole ed i loro gesti incredibilmente lontani da sé, ovattati, come forme evanescenti viste attraverso uno specchio.

Non gli importava di ciò che si muoveva senza posa intorno a lui; non aveva più alcuna importanza che quelli continuassero a blaterare inutilmente ipotesi più o meno realistiche circa i motivi e la dinamica dell’accaduto. Non gli sarebbe importato nulla neppure se avessero preso ad azzuffarsi nella speranza di trovare un colpevole fra loro; neppure se l’avessero preso, gettato in mezzo alla mischia e condotto in catene fino ai carceri.

No, si era immerso senza neppure rendersene conto in una dimensione mentale parallela dove macabre e sfuggenti illusioni, opera di entità malvagie, lo stavano conducendo fino alla follia.

Si riscosse lievemente, quando intercettò l’occhiata eloquente che il commissario Lambert indirizzò a Dorian, per poi rivolgere un gesto della mano nella sua direzione.

- Portalo fuori a prendere una boccata d’aria, Dorian – biascicò con voce incolore – Questo sta per sentirsi male, e un morto, per stanotte, è più che sufficiente.

Dorian si limitò ad una smorfia d’insofferenza, circondandogli le spalle con il braccio e obbligandolo, quasi, a risollevarsi in piedi.

Gli occhi di Auguste erano pozzi senza fondo. Per un istante, meditò se fosse stato sufficiente strangolare il commissario per quell’infelice affermazione.

Cosa credi di saperne di me, stupido asino imparruccato? Avrebbe voluto gridargli, se solo la sua mente non fosse stata immersa altrove, dall’altra parte dello specchio che confondeva la sua realtà.

Attraversò la stanza come un automa, scortato da Dorian che gli teneva insistentemente la mano sulla spalla come se fosse stato sul punto di crollare da un momento all’altro, simile ad un fuscello mosso dal vento.

La sala sembrava diversa da quando vi aveva buttato lo sguardo l’ultima volta – solo pochi istanti prima di apprendere la fine del suo amico. Le pareti gli parevano più buie e scure, come se l’alito dell’angoscia e della disperazione, in qualche modo, vi fosse rimasto appiccicato.

Vide i volti dei presenti, ma senza prendersi la briga d’identificarli. Ombre… Solo ombre evanescenti. Forse si sarebbe svegliato in tempo dall’incubo. Forse. Se già non fosse stato troppo tardi.

- Auguste, sei sicuro di sentirti bene?

La voce di Dorian lo riscosse definitivamente. La vista gli si snebbiò, dissipando quella patina d’opacità che fino a quel momento gli aveva impedito di vedere lucidamente.

- Certo, Dorian. Io sto bene. Non è questo il problema – replicò con rinnovata freddezza.

Già: non era lui il problema. A chi credeva di darla a bere? Per quanto ancora? Oh, Dorian! Possibile che nessuno di voi si renda conto di cos’ha veramente di fronte?

Vide i lineamenti delicatamente scolpiti sul volto del ragazzo contrarsi nell’incertezza alle sue parole. Distolse lo sguardo. Quando mai Dorian si sarebbe umanamente preoccupato per lui, se fino a quel momento la sua principale occupazione era stata sì appoggiare le sue idee, anche se superficialmente e in un’ottica del tutto personale, e poi cercare costantemente di combinargliene sotto il naso qualcuna delle sue? Forse, non poteva considerarlo degno di fiducia a pieno titolo, benché, a dire il vero, nessuno seguisse regole precostituite. E, purtroppo per lui, Dorian doveva trovare sin troppo divertente, come una sfida appetitosa, agire di testa propria, guidato dalla sua passionalità, sfuggendo a qualsiasi supervisione e spesso procurando sfilze di grane.

Fernand sapeva fare persino di peggio. Se Auguste riusciva ancora a controllare e tenere a freno l’impetuoso Dorian, sebbene egli agisse fondamentalmente in modo autonomo, infischiandosene di tutto e spesso pentendosi delle sue stesse azioni, Fernand era addirittura subdolo. Con lui, parlare era sempre tempo sprecato: l’avrebbe contraddetto fino alla nausea ed avrebbe agito comunque di propria iniziativa, qualunque cosa ne pensasse, operando in segreto e presentandosi davanti a lui con fare così sfacciato, da finto innocente, da muovergli il desiderio istantaneo di prenderlo a pugni.

 

L’aveva scorto di sfuggita, ritto ed impassibile come una statua di marmo, lo sguardo indolente. Aveva percorso distrattamente con lo sguardo la linea del suo volto sottile, così fredda e pura da sembrare innaturale, e, come un gioco, aveva tentato di cogliere qualche vaga emozione su quei lineamenti distesi in un’espressione atarassica sul volto pallido.

I capelli sciolti, lunghi fino alle spalle, come un’ombra ai lati del suo viso, a rimarcare il taglio affilato dei lineamenti che ne attutiva l’impatto androgino; la camicia, allacciata disordinatamente sul petto a scoprire una stretta porzione del torace, circonfuso di quella grazia dimessa che gli conferiva un’apparenza quasi aristocratica, una venatura vagamente inquietante: se non fosse stato per quei penetranti occhi azzurri e per la sfumatura fredda che la luce smorta conferiva al castano chiaro dei suoi capelli, il quadro d’insieme sarebbe stato nettamente bicromatico.

Fernand, i modi che talvolta si configuravano non troppo differenti da quelli di un ragazzo riottoso ed imprudente: voleva tutto e subito. Nella sua ingenuità giovanile, doveva essersi persuaso, insieme al suo degno compare, che fosse tanto eroico quanto fattibile buttar giù un tiranno dal suo trono a suon di pugnalate. Dorian e Fernand sembravano fatti della stessa pasta, meditò Auguste, e la malefica accoppiata rischiava piuttosto di mettere a repentaglio la loro sicurezza e mandare tutto in fumo. Fernand, in particolare, ai suoi occhi non era che un ragazzo impulsivo la cui sconsideratezza andava tenuta a freno prima che divenisse troppo tardi.

Fissava diritto dinnanzi a sé, impassibile come una scultura classica.

Fernand. Lui, al contrario degli altri, non sembrava particolarmente scosso dagli ultimi avvenimenti. Se ne stava lì, calmo e distaccato.

Piccolo serpente malefico, considerò fra sé Auguste, mordendosi nervosamente il labbro. Negli ultimi tempi, Fernand non era stato esattamente in buoni rapporti con Lucien. Certo, questo non rappresentava un motivo sufficiente a non fare una piega alla notizia della sua morte, ma non era umanamente credibile che quel ragazzino appena svezzato riuscisse a mostrarsi ancora più freddo e criptico di lui.

Non del tutto, forse: il fatto stesso che Fernand avesse aderito con trasporto alla loro causa e fosse uno dei principali fautori delle opere di sedizione, lasciava presagire che un fondo di generosità dovesse pur possederlo, sepolto in qualche angolo remoto di quel cuoricino di ghiaccio, al di là di contorte ambizioni o di personali smanie di rivalsa.

Nonostante tutto, ad Auguste era balenata per un attimo nella mente l’espressione ferita e furiosa di Fernand in occasione della loro ultima discussione, solo pochi giorni addietro.

Fernand non doveva aver gradito di ritrovarsi sbattuto senza appello nel torto palese, privo di qualunque consenso e con le spalle al muro a proposito di quella questione che al momento, per quanto si sforzasse di far mente locale, Auguste non riusciva proprio a rammentare nella sua interezza. Ricordava però l’energia con cui Lucien l’aveva diffidato da intraprendere qualsiasi iniziativa, da muovere anche solo un passo senza le certezze necessarie ed il benestare di tutti. Rivedeva ancora la fermezza scolpita negli occhi d’acquamarina, fissi con disarmante franchezza sugli oceani in tempesta che erano divenute le iridi di Fernand, tanto cupe e fosche da sembrare quasi sprizzare scintille per il profondo rancore che vi si annidava.

Ed avendo Fernand un carattere fiero, con ogni probabilità non avrebbe regalato tanto facilmente l’occasione di farsi rimirare in quello stato; se non fosse stato così orgoglioso – Auguste ne era quasi sicuro – forse non sarebbe riuscito a contenere le lacrime di rabbia che gli erano lampeggiate furiosamente negli occhi, a quella che doveva aver sentito bruciare sulla pelle come una cocente umiliazione. Vulnerabile, per un istante, insospettabilmente vulnerabile.

Talvolta Auguste cercava di convincersi che Fernand non fosse altro che un ragazzo arrabbiato e un po’ allo sbando: forse innocuo, dopotutto, nella sua prevedibile smania di voler crescere un po’ in fretta. Solo un ragazzo.

Al suo fianco, Auguste posò lo sguardo sulla sorella di Fernand, Ambrosie, lo sguardo molle e indolente, lo stesso piglio distaccato e lievemente arrogante del fratello.

La somiglianza spiccata che i due condividevano nell’aspetto non sarebbe stata mai paragonabile a ciò che accomunava i loro atteggiamenti. Ambrosie era più bionda del fratello, aveva un viso minuto dallo sguardo incisivo, forse un po’ particolare per essere definito esattamente bello, quasi un’antitesi dei canoni di bellezza femminile in voga, idealizzati nei dipinti e nei ritratti di gusto vagamente barocco, recanti figure femminili dai corpi procaci, i volti slavati e gli occhi sottili e sfuggenti.

Ambrosie si muoveva con una grazia nervosa, troppo decisa per essere attribuita immediatamente ad una donna. In lei, piuttosto, sembravano convivere paradossalmente la sfrontata alterigia di un’aristocratica e la genuina risolutezza di una ragazza del popolo, lo sguardo fresco e malinconico pervaso di un lieve sottofondo d’inadeguatezza e sospetto.

Per tutto il resto, quella donna restava un mistero, almeno quanto Fernand.

Com’erano giunti a Noir Trésor? Cosa li aveva condotti in quel nucleo di tirannide e corruzione? Quali obiettivi si proponevano? Poteva ancora fidarsi di loro?

Interrogativi destinati in quel momento a giacere insoluti: per quanto Auguste si fosse sforzato di penetrare quella rigida corazza di reticenza, non era riuscito a comprendere a fondo fino a che punto Ambrosie fosse idealmente coinvolta nel loro progetto, e se e dove risiedesse in lei il confine fra l’ambizione di protagonismo e l’aspirazione sincera. Sembrava essere entrata a far parte della congrega quasi per caso, forse sulla falsariga di suo fratello, forse spinta dall’amicizia che la legava a Dorian, da qualche arcana aspirazione personale o dal vanitoso, giovanile desiderio di far convergere le proprie traboccanti energie verso un punto concreto.

- Torniamo dentro – si rivolse asciutto a Dorian – Questo venticello mi ha fatto venire mal di testa.

 

 

 

 

 

Finalmente, capitolo concluso! Purtroppo, è un periodo un po’ “maledetto”, tra la fine della scuola e l’imminente Maturità.

Spero sia almeno all’altezza delle aspettative e che non deluda i lettori di “Noir Trésor.

Dunque, ringrazio con grande affetto Cami, Mikiinsa e Monella che hanno recensito i capitoli precedenti, nonché per le belle cose che mi avete detto e per il vostro incoraggiamento. Comunque sia… Grazie, grazie, grazie, anche a tutti coloro che stanno leggendo “Noir Trésor”, ancora “in incognito”!

 

 

Con affetto,

Alla prossima!

 

 

 

 

   
 
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