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Autore: Padmini    04/12/2012    11 recensioni
Sherlock è un bambino timido che, nonostante la sua buona volontà, non riesce a farsi nessun amico. Forse per il suo carattere introverso, forse perché si annoia con i giochi dei suoi compagni di classe, forse perché è troppo intelligente e saccente, perfino con le maestre. Forse tutte queste cose insieme.
Eppure, da qualche parte, c'è un amico che aspetta solo lui.
AU Child!Sherlock; Teen!John; Child!Moriarty
Genere: Avventura, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jim Moriarty , John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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La festa di compleanno

 

 

 



 

 

 

 

Sherlock teneva stretti gli inviti, come se quei pezzi di carta potessero dargli coraggio.

Guardò la maestra, al suo fianco. Gli sorrideva incoraggiante. Guardò di nuovo verso i suoi compagni di classe. Erano tutti distratti. Deglutì a fatica e cercò di nuovo gli occhi dell'insegnante che, comprendendo la difficoltà del bambino, decise di aiutarlo.

“Bambini” disse ad alta voce, attirando l'attenzione di tutti “Sherlock vorrebbe dirvi qualcosa”

Tante testoline si erano girate verso la cattedra. Sherlock strinse ancora di più le dita sulla carta, al massimo della tensione.

“Io ...” cominciò, ma la timidezza era più forte di lui.

“Tu cosa?” gli chiese Sally “Muoviti, Sherlock! Non abbiamo tutto il giorno”

Il viso del bambino diventò, se possibile, ancora più rosso. Chiuse gli occhi e disse velocemente ciò che doveva.

“Il sei gennaio sarà il mio compleanno” disse tutto d'un fiato “Volevo invitarvi a casa mia per una festa”

Allungò le braccia verso i banchi per mostrare gli inviti e aprì lentamente gli occhi per verificare la reazione dei suo compagni di classe.

Si stavano stringendo sulle spalle. A quanto pareva l'idea gli piaceva, ma non li entusiasmava più di tanto. Sally, la bambina che prima lo aveva maldestramente incoraggiato a parlare, si alzò impaziente.

“Dai a me” disse, prendendo bruscamente le buste dalla mano serrata di Sherlock “Ci penso io a distribuirli”

Così, mentre Sherlock tornava mestamente al suo posto, Sally faceva il giro dei banchi per dare ad ognuno il suo invito.

Era stato facile dopotutto, si diceva Sherlock, mentre la maestra cominciava a spiegare.

 

 

 

Era passato quasi un mese da quel giorno. Le vacanze invernali erano trascorse tranquillamente. La neve era scesa placidamente e aveva imbiancato il giardino. Sherlock avrebbe voluto giocare a palle di neve con Mycroft o fare con lui un pupazzo, ma suo fratello era impegnato con i compiti per le vacanze invernali.

Lui i suoi li aveva finiti da tempo. Troppo facili. Aveva passato il resto del tempo leggendo e guardando fuori dalla finestra. Contava i minuti che lo separavano dal suo compleanno.

Quel giorno avrebbe rivisto i suoi compagni di classe dopo tanti giorni e avrebbe festeggiato con loro. Quella sarebbe stata l'occasione d'oro per fare amicizia.

 

 

 

Il giorno del suo compleanno era finalmente giunto. Gli era sembrato che il tempo scorresse al rallentatore, ma finalmente la mattina tanto attesa era arrivata.

Era ancora in vacanza perciò Violet, sua madre, non l'aveva svegliato prima delle nove. Era entrata discretamente in camera sua e aveva sussurrato.

“Sherlock, amore mio … è il tuo compleanno! Tanti auguri!” disse, avvicinandosi al lettino.

Sherlock era sveglio da tempo. Guardò la madre e le sorrise nel buio. Violet lo notò e andò alla finestra per aprire gli scuri.

“Oggi è il gran giorno, tesoro mio” disse la donna, girandosi verso di lui “Ora vestiti così farai colazione. Dopo cominceremo a preparare il rinfresco per la tua festa”

La prospettiva di aiutare la madre con i preparativi lo entusiasmò. Cacciò via le coperte dal letto e balzò in piedi. In cinque minuti era pronto, lavato e vestito in cucina.

“Siediti” lo accolse la madre, posando davanti alla sedia una ciotola piena di latte e cacao e un piattino con dei biscotti “Tu mangia tranquillo. Io intanto imposto gli ingredienti, va bene?”

Violet aveva già preparato quasi tutto. Mancavano solo gli ultimi ritocchi ai panini e ai tramezzini e, ovviamente, la torta di compleanno. Non l'aveva voluta comprare. Voleva farla con Sherlock.

Sapeva che, crescendo, suoi figlio si sarebbe sempre più staccato da lei e voleva goderselo il più possibile finché era ancora in tempo.

“Ho finito, mamma!” gridò Sherlock, posando la tazza grande quasi come la sua testa sul tavolo “Adesso facciamo la torta?”

Violet sorrise al figlio e annuì.

“Mentre io peso la farina, tu rompi le uova in questa ciotola” gli disse la donna “Pensi di esserne capace?”

“Certo mamma” rispose lui, arrampicandosi sulla sedia per lavorare con più facilità e cominciò ad eseguire il lavoro che gli era stato dato.

Violet lo osservò intenerita. Sherlock era davvero concentrato su quello che stava facendo. Sapeva che quel pomeriggio sarebbe stato importantissimo per suo figlio.

Da quando aveva cominciato la scuola non si era ancora fatto nessun amico. Non le aveva ancora chiesto di invitare un suo compagno di classe a merenda, come spesso aveva fatto Mycroft alla sua età, e questo la preoccupava.

Sherlock era il più grande di età tra tutti i bambini della sua classe perché era nato in gennaio, ma fisicamente era molto più piccolo, cosa che lo faceva sentire perennemente a disagio.

Violet sapeva perfettamente che, crescendo, Sherlock sarebbe diventato alto come suo padre, ma per il momento era ancora un piccolo folletto gracilino, così magro da far sembrare qualsiasi vestito sempre troppo grande. Quelle braccia si perdevano nelle maniche della divisa scolastica e le gambe erano così secche che spesso la gente si chiedeva come potessero sostenere il peso, se non del suo corpo, dei vestiti che lo avvolgevano.

Quella mattina tutto ciò era in secondo piano. Il largo sorriso che increspava le sue labbra lo illuminava di una luce tutta nuova. Era la speranza, l'aspettativa per una giornata fantastica.

 

 

 

Tutto era pronto. I panini, i tramezzini, ciotole piene di patatine fritte, le bibite e, ben conservata in frigorifero, una super torta di compleanno al cioccolato, realizzata con la massima cura. In un cassetto in cucina, aspettavano le sette candeline che Sherlock, di lì a poche ore, avrebbe spento con un solo soffio.

Tutto era perfetto. Mancava solo una cosa.

Gli invitati.

Sherlock guardò pieno di ansia l'orologio appeso alla parete. Segnava le quattro e un quarto.

Sull'invito lui aveva scritto di presentarsi alle quattro in punto. Pensò che, se fosse stato per lui, sarebbe arrivato leggermente prima o poco più tardi, al massimo cinque minuti. Quel quarto d'ora abbondante di ritardo lo angustiava.

Lanciò un'occhiata preoccupata alla madre, che si strinse sulle spalle. Sherlock abbassò lo sguardo e andò a raggomitolarsi in poltrona. Violet si avvicinò per dirgli sedersi composto, poi rinunciò.

Sherlock nascose il viso tra le braccia incrociate e rimase così per molto tempo. Ormai l'orologio segnava le quattro e mezza passate.

Non sarebbe venuto nessuno.

Violet si avvicinò alla poltrona e fece per sedersi sul bracciolo per consolare il figlio, quando vide che la sua schiena sobbalzava ritmicamente. Scivolò vicino a lui e lo prese in braccio.

Grosse lacrime luccicanti gli solcavano il viso. La delusione era più che evidente sul volto del bambino.

“Perché non è venuto nessuno, mamma?” chiese Sherlock, asciugandosi il viso con la manica della giacca.

Violet esitò. Non sapeva cosa rispondere. Cosa avrebbe potuto dirgli per consolarlo? Proprio non lo sapeva.

“Avranno avuto altri impegni ...” iniziò, al massimo del disagio. Nulla avrebbe potuto risollevargli il morale.

“Gli avevo dato gli inviti un mese fa” protestò lui, tirando su col naso “Nessuno vuole essere mio amico ...” aggiunse poi, nascondendosi tra le braccia della madre “Perché?”

Perché. I perché a quell'età sono domande importanti, alle quali non si può dire di no. Eppure, come spiegare ad un bambino qualcosa di così difficile? Nemmeno Violet sapeva spiegarsene la ragione.

“Non lo so, tesoro mio” gli rispose alla fine “Tu però non demoralizzarti. Sono sicura che troverai degli amici. Ne basterebbe anche uno solo. Un solo vero amico è più prezioso di un tesoro raro, non dimenticarlo mai”

Sherlock annuì, poco convinto, ma smise di piangere. Si drizzò sulle gambe della madre e guardò la tavola imbandita.

“Cosa faremo di tutto quel cibo, mamma?” chiese.

“Lo mangeremo!” rispose lei, cercando di farlo ridere “Hai fame?” chiese speranzosa.

Sherlock scosse il capo, deluso.

“Non ho fame, mamma” rispose “Posso andare a disegnare in camera mia?”

Violet restò qualche istante in silenzio.

“Va bene” rispose alla fine e aprì le braccia, per permettergli di scendere dalla poltrona e trotterellare via, mentre lei si avviava verso la sala dove era stato allestito il banchetto per sistemare tutto il cibo in congelatore.

 

 

Sherlock, nel frattempo, aveva raggiunto la sua camera. Si era chiuso bruscamente la porta alle spalle e si era fiondato sul letto. Nuove lacrime avevano cominciato a scendere dagli occhi chiari e stavolta le aveva lasciate scorrere senza freni, con il corpo scosso dai singhiozzi.

Sapeva perché i suoi compagni non volevano essere suoi amici.

Era troppo intelligente per loro. Quando una maestra dava un compito, lui era sempre il primo a terminarlo e non sbagliava mai. Molto spesso gli capitava di sentire delle bestialità. Non importava se a pronunciarle fossero i suoi compagni di classe o le maestre. Lui doveva correggerle. Si sentiva in obbligo di farlo. Così, mentre le insegnanti arrossivano, ma cercavano di tenere un comportamento adulto di fronte a quel bambino saccente, gli altri bambini lo insultavano e lo prendevano in giro.

Inoltre si annoiava durante tutti i giochi che proponevano durante l'intervallo. Non riusciva a sentirsi coinvolto in quei passatempi per lui così noiosi. Mosca cieca, nascondino, indiani e cow boy. Lui avrebbe volentieri fatto il pirata, ma quella volta in cui aveva osato portare una benda e un uncino fatti da lui e addirittura indossarli durante la ricreazione, tutti gli avevano riso dietro. Così aveva cominciato a stare in disparte. Mangiava la sua merenda seduto su un gradino, leggendo un buon libro o stringendo a sé il suo migliore amico.

 

“A quanto pare siamo rimasti soli ancora una volta, John” disse, dopo essersi soffiato il naso con un fazzoletto che teneva sempre vicino al letto, per le emergenze di quel tipo.

Il cane peluche chinò lentamente il capo, appesantito dall'imbottitura. Gli occhi azzurri di plastica lo guardavano senza vederlo, ma a Sherlock sembrò di trovarci una scintilla di compassione, o forse la cercava. Lo prese per una zampa e lo strinse forte al petto.

Il cane John non protestò per quell'eccesso di intimità. Si lasciò semplicemente abbracciare e permise al piccolo Sherlock di sfogare su di lui tutte le sue paure, le sue ansie, le su frustrazioni.

Come tutti i giorni. Tutti i giorni che Sherlock passava da solo, isolato in quel suo mondo personale che aveva creato per sfuggire ad una realtà troppo dolorosa da affrontare.

Aveva costruito una casetta in quel mondo. L'aveva arredata e ci aveva stabilito fissa dimora. La casetta era pian piano cresciuta per poter ospitare tutto ciò che stava apprendendo ma, col passare del tempo, si rendeva conto che quelle mura erano troppo distanti e fredde. Prima o poi, quella che era una piccola casa di poche stanze, si sarebbe trasformata in un palazzo, dove lui sarebbe stato solo con l'eco dei suoi pensieri.

Sarebbe rimasto solo per sempre? Non poteva saperlo, ma cominciava a sospettare per un sì.

Solo. Solitudine. Quelle parole si depositarono sul suo cuore come un grosso masso ingombrante e gli mozzarono il respiro. Aprì la bocca per inspirare più aria e strinse forte John.

Si raggomitolò nel letto e sperò che il sonno venisse a prenderlo presto.

   
 
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