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Autore: Nezu    16/12/2012    2 recensioni
[Gin/Shiho, Jigen/Fujiko] Gin e Vodka hanno una missione: eliminare il ricco signor Lenher e la sua figliola. Lupin ha puntato gli occhi sul tesoro di quella famiglia e non ha intenzione di farselo soffiare. Jigen è inevitabilmente tirato dentro allo scontro, mentre Shiho Miyano è inquieta per la presenza di Gin e Crazy Mash, dopo anni di silenzio, torna a tormentare il suo vecchio collega.
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Gin
Note: Cross-over, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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3 – Dance in the snow

Il tè, già caldo di suo, le pareva ancor più bollente mentre teneva la tazza con le dita intirizzite per il gelo. L’inverno stava arrivando e si sentiva parecchio: la temperatura s’era abbassata tutta d’un colpo e lei si era trovata con indosso una magliettina di cotone e dodici gradi al sole.

Shiho sorseggiò la bevanda mentre sfogliava il giornale: le foto dell’esplosione erano agghiaccianti, ma almeno gli inviati avevano avuto il buongusto di non mostrare i corpi. C’era lo zampino dell’Organizzazione sotto quell’attacco, lei poteva riconoscerlo senza problemi; avrebbe voluto illudersi che, fatta esplodere una bomba in uno dei palazzi più importanti della città, Gin avesse portato a termine il suo compito. Ma c’era un piccolo particolare riportato dalla cronaca che aveva fatto calare un’ombra sulla sua speranza.

“La figlia ventenne del signor Lenher, Erika Lenher, è attualmente dispersa. Il suo corpo non è stato rinvenuto tra le macerie, ove son stati trovati gli uomini della sua scorta…”

Miyano fissò quelle righe sentendo il gelo farsi più acuto: non invidiava minimamente quella ragazza. Sperava vivamente che fosse riuscita a fuggire, o che qualcuno l’avesse aiutata a sottrarsi all’Organizzazione. Altrimenti per lei sarebbe stato un inferno.

*

Il risveglio non era stato dei più traumatici: la sua testa non era mai stata così leggera, anche se le doleva fortemente se faceva movimenti troppo bruschi. Non c’era nessuno a vegliare su di lei e, quando aveva aperto gli occhi e aveva visto che era sola, si era sentita come se le avessero levato un gran peso dal petto.

Così aveva avuto un po’ di tempo per pensare. Troppo tempo, a dire il vero. Più i minuti passavano e più si augurava che qualcuno aprisse quella stramaledetta porta; non indossava i suoi abiti e questo la mise nel panico: la camicia azzurro chiaro che si ritrovava addosso sapeva di pulito, ma era decisamente troppo grande per lei, come un paio di pantaloncini che le coprivano le gambe sino al ginocchio.

Aveva sete, ma quando provò ad alzarsi la testa cominciò a girare. Infilò la porta del bagno e vomitò l’anima nel lavandino, le gambe le tremavano e sentiva il volto caldo e febbricitante; ogni volta che chiudeva gli occhi le si ripresentava davanti quella terribile scena: il corridoio, i calcinacci, i corpi.

Si accasciò a terra, tremante. Respirò a fondo una volta, due volte, poi, reggendosi al lavandino e ad ogni appiglio che trovava, si trascinò nuovamente verso il letto e vi si gettò, affondando il volto nel cuscino. C’era una benda sulla sua gamba, un gran dolore al gomito e la testa che la stava uccidendo.

Ma ogni volta che provava a ripensare a quanto era successo, la sua mente si rifiutava di collaborare: sentiva come un grande vuoto dentro di sé, profondo, terribile. Avrebbe voluto provare qualcosa: rabbia, dolore, indignazione, paura. Non sentiva niente e questo l’angosciava. Si addormentò dopo quelli che le parvero secoli, il volto rigato di lacrime.

*

Vodka sapeva quando era meglio lasciare il suo compare da solo, davvero. Dopo anni di collaborazione aveva imparato a leggere i messaggi subliminali giusti e a tagliare la corda quando Gin era in una di quelle giornate in cui avrebbe volentieri fatto saltare le cervella a qualcuno.

Quello era uno di quei giorni, ma il povero Vodka non poteva assolutamente fuggire dal suo partner: dovevano progettare un secondo piano, per rimediare al loro parziale fallimento. Vermouth era stata abbastanza chiara su quel punto, altro elemento che aveva mandato Gin su tutte le furie.

Ora il biondo stava, guarda caso, fumando una sigaretta nel tentativo di calmarsi mentre sul monitor davanti a loro scorrevano le riprese delle telecamere di sicurezza; Vodka non aveva idea di come fosse riuscito a procurarsele, ma aveva smesso di stupirsi anni prima di quanto una pistola in mano al suo compagno fosse assai persuasiva.

< Eccoli qui.> La voce del biondo sferzò l’aria come una frusta. L’uomo si avvicinò per fissare i due individui colti sul fatto dalla telecamera: erano alti e magri, uno con una faccia molto stupida, l’altro con un cappello a tesa larga calcato in testa.

Osservò in silenzio mentre Gin faceva le sue ricerche, le labbra strette in una linea sottile, gli occhi che lanciavano fulmini. Non era abituato a farsi fregare a quel modo: aveva avuto la ragazza a portata di tiro, aveva sparato più e più volte, ma quella piccola serpe era più veloce di un furetto. Ancora non riuscivano a capire come avesse fatto a sfuggire all’esplosione. Forse c’era proprio lo zampino di quei due tipi.

< Trovati.>

*

< Perché io? Dovresti andarci tu, è un affare da donne!>

Se Jigen aveva avuto dei dubbi sul conto di Fujiko fino a quel momento, tutte le sue perplessità stavano svanendo molto in fretta; lui non aveva alcuna intenzione di occuparsi della ragazzina, questo non era contrattabile. Avrebbe dovuto pensarci Lupin, ma il suo collega era sparito Dio solo sapeva dove, lasciando la sua fidata spalla nei casini.

L’idea di trovarsi davanti un’adolescente in preda a crisi di pianto lo terrorizzava, per questo aveva sperato per un millesimo di secondo che la ladra, in quanto donna, avrebbe avuto la sensibilità giusta per consolare quella povera ragazzina. Ma lei aveva un’opinione completamente diversa.

< Ah, no, carino! I patti erano ben diversi: io mi sarei occupata del signor Lenher, non certo di una mocciosa. Quello spetta a voi!> replicò lei a voce alta, afferrando la tesa del suo cappello e tirandogliela giù sugli occhi.

< E che diamine…> borbottò seccato, risistemandosi il copricapo e accendendosi una sigaretta. Il brutto tempo di qualche giorno prima aveva lasciato il posto ad un gelo improvviso e singoli fiocchi cadevano dal cielo per sciogliersi appena toccato il suolo.

< Uffa, e io che volevo un bel miliardario tutto per me…> continuò a lamentarsi la donna, alzandosi dal divanetto su cui era praticamente sdraiata e afferrando il cellulare che teneva in borsa. Jigen capì che il suo tentativo era fallito alla grande: si alzò, sommamente irritato, e s’incamminò verso la stanza in cui avevano lasciato la ragazzina.

Davanti alla porta esitò, bussò leggermente e si fece coraggio. Entrò lentamente, schiarendosi la gola.

< Si può?>

Non venne risposta e l’uomo ci mise qualche secondo per abituare gli occhi all’oscurità della stanza; per un attimo temette di averla svegliata, ma la signorina Lenher non stava affatto dormendo. Era là, seduta a letto, la schiena appoggiata contro il cuscino, la benda alla testa leggermente macchiata di rosso: il suo volto era una maschera di cera.

Si mosse piano, facendo attenzione a non spaventare quella creatura così fragile; passo dopo passo, raggiunse il comodino accanto a lei, accese la lampada da lettura e si sedette, sempre con circospezione, ai piedi del letto. C’era qualcosa, negli occhi di quella ragazzina, che lo turbava profondamente…

< Come ti senti?> In tutta la sua vita non credeva di aver mai fatto una domanda così stupida; Cristo, faceva schifo a confortare le persone! Persino quella voltafaccia di Fujiko Mine avrebbe fatto un lavoro migliore. La ragazza lo guardò, gli occhi improvvisamente vivi.

< Chi sei?> La sua voce era strana: sicura, ma rassegnata. Non c’era voglia di combattere, di reagire, di vendicarsi, ma v’era la certezza che, qualunque cosa accadesse, la sua sopravvivenza era assicurata. Jigen mascherò il suo disagio, ma dentro di lui la risentiva: quella dannata tempesta, l’acqua che tornava a prenderlo.

< Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda, ragazzina.> Diamine, avrebbe dovuto rassicurarla, non certo rischiare di spaventarla. Ma Erika Lenher, con le sue profonde occhiaie e la testa fasciata, non sembrava affatto impaurita, solo terribilmente stanca.

< Ho la testa avvolta in bende, un gran male al gomito e alla schiena e la gamba sinistra che fa un male del diavolo. Senza contare che da un momento all’altro mi sono trovata coinvolta in quel casino e ho visto mio padre morire. Come mi sento, secondo te?>

Jigen si morse l’interno guancia: parlava di quell’avvenimento con un tale distacco che gli venne da chiedersi se non provasse alcuna emozione a riguardo. Proprio come Ariadne, la prima volta che l’aveva vista. Ecco cosa gli ricordavano quegli occhi e, purtroppo, non erano memorie che voleva rivivere.

Si costrinse a tornare con la mente alla realtà, ma altre immagini si sovrapponevano al presente: Ariadne che gli sorrideva, quella dannata pioggia, una risata acuta, terribile, che gli penetrava nelle ossa. Ancora una volta sentì di essere sbagliato: le persone normali hanno la forza  di gettarsi alle spalle certe cose. Lui no.

< Mi chiamo Jigen. Soddisfatta?>

No, Erika Lenher non era soddisfatta. Avrebbe preferito di gran lunga che quell’uomo magro, che puzzava di sigarette e alcol lontano un miglio, la lasciasse dormire; aveva desiderato un po’ di compagnia, prima, ma la sua presenza la disturbava. Non poteva vedere gli occhi di quello strano tipo, ma aveva la sensazione che non fosse lui la persona che poteva aiutarla: anzi, a pelle le sembrava che fosse lui quello che doveva essere aiutato.

Lei, invece, nel momento in cui aveva dichiarato che suo padre era morto, aveva sentito qualcosa scattare dentro di sé: una consapevolezza, cioè che non le importava più di tanto. Era cresciuta come se non avesse mai avuto un padre, in fin dei conti. La sua famiglia era racchiusa tutta in quell’adorabile donna che l’aveva cresciuta e che, qualche settimana, aveva trovato immobile nel suo letto, di un pallore spettrale, gelida.

L’uomo che era stato dilaniato di fronte ai suoi occhi non significava più nulla per lei da molto tempo. Tutto ciò che voleva ricordare di lui era quell’orologio da taschino che le aveva regalato per il suo settimo compleanno, un oggetto antico, che si tramandavano i Lenher da generazioni. Quell’orologio ora giaceva accanto a lei, appoggiato sul comodino di legno.

< Sei uno di quelli che mi ha portato via, vero?> chiese, ricordando man mano qualcosa di più di quella dannata esplosione. Gli tornò in mente l’uomo con la faccia da scimmia a cui aveva dato la gomitata più forte della sua vita, poi gli spari, infine la persona che l’aveva afferrata mentre scendeva dalle scale… doveva essere proprio l’uomo che si trovava davanti. Il quale annuì in risposta alla sua domanda.

< Chi è che ha piazzato quell’affare? Non avrebbe dovuto essere possibile, c’è la sicurezza a controllare ogni porta, costantemente, e telecamere ovunque… e chi è che sparava, mentre scappavo? Sai chi era?>

Jigen si portò una mano alla tempia: erano tutte domande a cui poteva rispondere per supposizioni. Fondate sino a un certo punto, ma supposizioni. < Chi ha cercato di ucciderti è probabilmente la stessa persona che ha piazzato la bomba. Non sappiamo ancora con certezza di chi si tratta, ma con ogni probabilità stava cercando di finire ciò che quell’esplosione aveva cominciato.>

La distruzione della famiglia Lenher. Per quel che poteva significare. Daisuke sentiva nelle ossa che quella era opera di Gin e dell’Organizzazione: non poteva essere una coincidenza, il suo arrivo e, qualche giorno dopo, quell’attacco così violento. Ne avrebbe dovuto parlare con Shiho, per sicurezza: di certo lei riconosceva lo zampino dei suoi ex-colleghi meglio di quanto non potesse fare lui.

< Perché mi avete portato qui? Cosa volete da me?>

< Oh oh oh, ma cherì, non fare quel faccino preoccupato! Non vogliamo farti del male!>

Jigen sobbalzò e per poco non mise mano alla sua pistola: non si era accorto che Lupin era entrato nella stanza. Vide un lampo negli occhi della ragazza, probabilmente l’aveva riconosciuto come la causa di quel livido bluastro sul suo gomito.

< Vedi, mi è giunta voce che la tua famiglia conserva un inestimabile tesoro, da qualche parte in questo paese. E che tu, mia cara, possiedi la chiave per accedervi.>

Ci fu un attimo di pausa. Poi lo sguardo della ragazza si posò inevitabilmente sull’orologio da taschino del padre.

*

Era una gran brutta storia e più ci pensava più se ne convinceva. La ragazza non aveva affatto voglia di collaborare, questo era evidente, ma d’altro canto non sembrava per niente interessata al tesoro di famiglia: con ogni probabilità era reticente solo perché non si fidava di loro e, ad esser sincero, Jigen non poteva darle torto.

In fin dei conti era miracolosamente scampata per ben due volte all’Organizzazione, prima all’esplosione e poi a quella scarica di proiettili, e poteva ben dirsi fortunata. Un po’ di diffidenza era più che naturale. Col tempo, quasi certamente, Lupin sarebbe riuscito a conquistare la sua fiducia.

Fiducia… quel termine lo faceva sorridere, ma senza allegria. C’erano poche persone di cui si era veramente fidato, in tutta la sua vita, gente a cui dava le spalle senza preoccuparsi di che cosa poteva accadere. Purtroppo il tempo gli aveva dimostrato che aveva commesso molti errori.

No, ciò che preoccupava Jigen non era certo quella povera ragazzina. Doveva contattare Shiho e in fretta: gli servivano certezze e, probabilmente, l’ex scienziata aveva delle informazioni di vitale importanza.

Fuori gli sparuti fiocchi di neve avevano lasciato il posto ad una tormenta vera e propria: folate di nevischio e vento facevano sbattere le imposte esterne e le strade cominciavano a diventare sempre più bianche man mano che la notte calava.

L’uomo imprecò a denti stretti mentre si preparava ad affrontare il suo destino: prima Fujiko, poi il mal tempo… qualcuno lassù doveva proprio avercela con lui. Si calcò con forza il cappello in testa e uscì dalla porta d’ingresso, diretto alla macchina. Un’ombra di fronte a lui catturò la sua attenzione e la mano corse automaticamente verso la fidata pistola.

Poi si bloccò, un groppo in gola. Non poteva essere, non in così poco tempo. Fece un passo verso quella figura in nero, poi un altro, sforzando gli occhi in modo da scoprire se era davvero chi pensava lui o se la neve gli giocava brutti scherzi.

< Quanto tempo, Jigen.>

No, non era quel maledetto nevischio a confondere i suoi sensi, quella voce l’avrebbe riconosciuta tra mille. Il barlume di un accendino portato alla bocca fugò gli ultimi dubbi: davanti a lui, stretto nel suo cappotto nero, cappello in testa e sigaretta in bocca, stava Gin.

< Anni, a dire il vero. Non posso dire di aver sentito la tua mancanza.> replicò asciutto. Si chiese se valeva la pena correre il rischio e allontanare la mano dall’arma: una vocina nella sua testa lo informò che al biondo non piaceva sentirsi minacciato. Con lentezza spostò la destra e andò a recuperare una cicca dalla tasca interna della giacca.

< Un vero peccato… eravamo un’ottima squadra a quei tempi. Ma ho sentito che hai trovato un nuovo partner ora, giusto? Quel ladruncolo con la faccia da scimmia…>

Jigen non poté trattenere un sorrisetto a quelle parole. Si accese la sigaretta, ignorando il freddo e quella sensazione di pericolo che gli martellava nel petto.

< Da quel che mi risulta, Gin, tu non lavori in squadra.>

Anche il killer dell’Organizzazione sorrise, un sorriso freddo come la neve che non raggiunse gli occhi.

< Solo quando sono obbligato.> C’era qualcosa, nel suo tono, che mandò un brivido lungo la schiena dell’altro. Ricordava fin troppo bene il periodo passato a lavorare al fianco del biondo e di quell’altro folle… Dio, non poteva credere di essere caduto così in basso. Poi Gin era sparito, di punto in bianco, attirato da una proposta molto più allettante, mentre Mash… con Mash era finita diversamente. Ancora lo prendeva un moto di disgusto quando per caso sfiorava con le dita le cicatrici che quelle pallottole gli avevano lasciato in ricordo.

Sbuffò, una nuvola di fiato e fumo gli passò davanti agli occhi.

< Fa freddo, Gin, e io ho altro da fare che scambiare convenevoli qui con te. Che cosa vuoi?>

Sapeva già la risposta, è vero, ma contava di mandare avanti il discorso per molto: Lupin era nella casa con la ragazzina e Fujiko, se fosse riuscito a dilungarsi e guadagnare tempo forse tutti loro sarebbero riusciti a mettersi in salvo.

< Lo sai già, Jigen. Cerco Erika Lenher e, se le mie informazioni non sono errate, si trova proprio nel palazzo alle tue spalle.>

< Ma davvero? Che coincidenza.>

< Proprio. Bé, immagino che non ci sia più molto da dirci.>

Il movimento improvviso delle sue mani lo prese alla sprovvista, ma prima che la sua amata pistola potesse trovarsi nelle sue mani si bloccò: Gin non stava estraendo nessuna arma né si preparava ad attaccarlo. Gettò semplicemente la sigaretta in terra e, mani nelle tasche, cominciò ad avanzare nella neve.

Era come se il tempo fosse stato improvvisamente rallentato: lo vide dirigersi verso di lui, quello sguardo gelido, i lineamenti affilati, tutto faceva pensare ad un predatore e Jigen non era certo abituato ad essere una preda. Non si rese conto di aver trattenuto il fiato finché Gin, senza degnarlo di un’ulteriore occhiata, non lo superò, sfiorandolo appena con un lembo del cappotto.

Ci mise un secondo per capire cosa stava accadendo, solo uno: un attimo di troppo e non sarebbe riuscito a fermarlo. Il calcio della pistola era più freddo che mai, le sue dita protestarono flebilmente al contatto; un brivido, una sorta di brutto presentimento, gli attraversò la spina dorsale mente puntava l’arma verso quella figura nera: era, stranamente, una sensazione che aveva già provato tempo addietro.

< Non fare un altro passo, Gin.>

Se il biondo non gli avesse dato le spalle, Jigen sarebbe stato certo che un sorriso beffardo gli increspava le labbra in quel preciso istante. La porta era a meno di due metri da lui, l’unico ostacolo tra quell’uomo spietato e la povera ragazzina travolta dagli eventi. Forse Lupin sarebbe stato in grado di difenderla, forse no.

Più ci pensava e più ricordava le parole che aveva rivolto a Shiho: era giunto il momento di mettere da parte il suo egoistico buonsenso e fare quello che non avrebbe mai voluto fare. Perché mettersi contro Gin e l’Organizzazione equivaleva più o meno a suicidarsi.

< Da te non me lo sarei mai aspettato, Jigen…>

Percepì il movimento della mano e la rotazione del busto prima ancora che il biondo potesse effettivamente compierli. I suoi riflessi non lo tradirono, ma qualcosa, che non riuscì ad identificare subito, gl’impedì di sparare: una risata, alta, acuta, una di quelle risate che ti tormentano nei tuoi peggiori incubi.

Anche Gin si congelò sul posto, quel suono era familiare anche per lui. Poi una scarica di proiettili si abbatté nel poco spazio che separava i due contendenti, mentre la risata si faceva sempre più ossessiva. Jigen scattò di lato, trovando rifugio dietro una macchina di lusso nuova di zecca: di certo il suo proprietario non sarebbe stato felice la mattina seguente.

Il primo pensiero che gli passò per la mente fu che almeno Lupin doveva aver sentito gli spari e quindi, con ogni probabilità, si era già attivato perché Erika Lenher fosse messa in salvo. Il secondo fu che quella dannatissima risata che ancora echeggiava nell’aria l’aveva già sentita tanto tempo prima.

< Mad Mash…> bofonchiò e nell’attimo in cui pronunciò quel nome sentì un moto di disgusto risalirgli dallo stomaco: aveva sperato di non vederlo mai più, di non dover più sentire quella terribile risata. Un movimento alla sua destra lo prese di sprovvista, vide la figura scura di Gin cercare di raggiungere la porta d’ingresso.

Sparò. Il rumore del proiettile gli sibilò nelle orecchie, mentre un grugnito di dolore e un tonfo gli confermavano che il colpo era andato a segno; vide il biondo sgattaiolare via, una mano premuta sul fianco. Una nuova risata gli piovve addosso, mescolandosi alla neve e al freddo.

Una sensazione opprimente lo prese, cominciò a pesargli sulla gola, sullo stomaco. La testa gli girava, le mani tremavano. Prima che quel folle di Mash lo trovasse ancora, prima che potesse sfoderare il suo sorriso beffardo e riportargli alla mente tutto quello che avrebbe preferito dimenticare, fece l’unica cosa possibile: ventre a terra, si trascino da una macchina all’altra, facendo attenzione a non perdere di vista la posizione del suo avversario.

Pregò affinché Lupin e la ragazzina fossero riusciti a mettersi in salvo; imprecò a denti stretti e scappò con la coda tra le gambe, vergognandosi come un cane.

   
 
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