3
– Dance in the snow
Il
tè, già caldo di suo,
le pareva
ancor più bollente mentre
teneva la tazza con le dita intirizzite per il gelo.
L’inverno stava arrivando
e si sentiva parecchio: la temperatura s’era abbassata tutta
d’un colpo e lei
si era trovata con indosso una magliettina di cotone e dodici gradi al
sole.
Shiho
sorseggiò la bevanda mentre sfogliava il giornale:
le foto dell’esplosione erano agghiaccianti, ma almeno gli
inviati avevano
avuto il buongusto di non mostrare i corpi. C’era lo zampino
dell’Organizzazione sotto quell’attacco, lei poteva
riconoscerlo senza
problemi; avrebbe voluto illudersi che, fatta esplodere una bomba in
uno dei
palazzi più importanti della città, Gin avesse
portato a termine il suo
compito. Ma c’era un piccolo particolare riportato dalla
cronaca che aveva
fatto calare un’ombra sulla sua speranza.
“La
figlia ventenne del signor Lenher, Erika Lenher,
è attualmente dispersa. Il suo corpo non è stato
rinvenuto tra le macerie, ove
son stati trovati gli uomini della sua scorta…”
Miyano
fissò quelle righe sentendo il gelo farsi più
acuto: non invidiava minimamente quella ragazza. Sperava vivamente che
fosse
riuscita a fuggire, o che qualcuno l’avesse aiutata a
sottrarsi
all’Organizzazione. Altrimenti per lei sarebbe stato un
inferno.
*
Il
risveglio non era stato dei più traumatici: la
sua testa non era mai stata così leggera, anche se le doleva
fortemente se
faceva movimenti troppo bruschi. Non c’era nessuno a vegliare
su di lei e,
quando aveva aperto gli occhi e aveva visto che era sola, si era
sentita come
se le avessero levato un gran peso dal petto.
Così
aveva avuto un po’ di tempo per pensare. Troppo
tempo, a dire il vero. Più i minuti passavano e
più si augurava che qualcuno
aprisse quella stramaledetta porta; non indossava i suoi abiti e questo
la mise
nel panico: la camicia azzurro chiaro che si ritrovava addosso sapeva
di pulito,
ma era decisamente troppo grande per lei, come un paio di pantaloncini
che le
coprivano le gambe sino al ginocchio.
Aveva
sete, ma quando provò ad alzarsi la testa
cominciò a girare. Infilò la porta del bagno e
vomitò l’anima nel lavandino, le
gambe le tremavano e sentiva il volto caldo e febbricitante; ogni volta
che
chiudeva gli occhi le si ripresentava davanti quella terribile scena:
il
corridoio, i calcinacci, i corpi.
Si
accasciò a terra, tremante. Respirò a fondo una
volta, due volte, poi, reggendosi al lavandino e ad ogni appiglio che
trovava,
si trascinò nuovamente verso il letto e vi si
gettò, affondando il volto nel
cuscino. C’era una benda sulla sua gamba, un gran dolore al
gomito e la testa
che la stava uccidendo.
Ma
ogni volta che provava a ripensare a quanto era
successo, la sua mente si rifiutava di collaborare: sentiva come un
grande
vuoto dentro di sé, profondo, terribile. Avrebbe voluto
provare qualcosa:
rabbia, dolore, indignazione, paura. Non sentiva niente e questo
l’angosciava.
Si addormentò dopo quelli che le parvero secoli, il volto
rigato di lacrime.
*
Vodka
sapeva quando era meglio lasciare il suo
compare da solo, davvero. Dopo anni di collaborazione aveva imparato a
leggere
i messaggi subliminali giusti e a tagliare la corda quando Gin era in
una di
quelle giornate in cui avrebbe volentieri fatto saltare le cervella a
qualcuno.
Quello
era uno di quei giorni, ma il povero Vodka
non poteva assolutamente fuggire dal suo partner: dovevano progettare
un
secondo piano, per rimediare al loro parziale fallimento. Vermouth era
stata
abbastanza chiara su quel punto, altro elemento che aveva mandato Gin
su tutte
le furie.
Ora
il biondo stava, guarda caso, fumando una
sigaretta nel tentativo di calmarsi mentre sul monitor davanti a loro
scorrevano
le riprese delle telecamere di sicurezza; Vodka non aveva idea di come
fosse
riuscito a procurarsele, ma aveva smesso di stupirsi anni prima di
quanto una
pistola in mano al suo compagno fosse assai persuasiva.
<
Eccoli qui.> La voce del biondo sferzò
l’aria
come una frusta. L’uomo si avvicinò per fissare i
due individui colti sul fatto
dalla telecamera: erano alti e magri, uno con una faccia molto stupida,
l’altro
con un cappello a tesa larga calcato in testa.
Osservò
in silenzio mentre Gin faceva le sue
ricerche, le labbra strette in una linea sottile, gli occhi che
lanciavano
fulmini. Non era abituato a farsi fregare a quel modo: aveva avuto la
ragazza a
portata di tiro, aveva sparato più e più volte,
ma quella piccola serpe era più
veloce di un furetto. Ancora non riuscivano a capire come avesse fatto
a
sfuggire all’esplosione. Forse c’era proprio lo
zampino di quei due tipi.
<
Trovati.>
*
<
Perché io? Dovresti andarci tu, è un affare da
donne!>
Se
Jigen aveva avuto dei dubbi sul conto di Fujiko
fino a quel momento, tutte le sue perplessità stavano
svanendo molto in fretta;
lui non aveva alcuna intenzione di occuparsi della ragazzina, questo
non era
contrattabile. Avrebbe dovuto pensarci Lupin, ma il suo collega era
sparito Dio
solo sapeva dove, lasciando la sua fidata spalla nei casini.
L’idea
di trovarsi davanti un’adolescente in preda a
crisi di pianto lo terrorizzava, per questo aveva sperato per un
millesimo di
secondo che la ladra, in quanto donna, avrebbe avuto la
sensibilità giusta per
consolare quella povera ragazzina. Ma lei aveva un’opinione
completamente
diversa.
<
Ah, no, carino! I patti erano ben diversi: io
mi sarei occupata del signor Lenher, non certo di una mocciosa. Quello
spetta a
voi!> replicò lei a voce alta, afferrando la tesa del
suo cappello e
tirandogliela giù sugli occhi.
<
E che diamine…> borbottò seccato,
risistemandosi il copricapo e accendendosi una sigaretta. Il brutto
tempo di
qualche giorno prima aveva lasciato il posto ad un gelo improvviso e
singoli
fiocchi cadevano dal cielo per sciogliersi appena toccato il suolo.
<
Uffa, e io che volevo un bel miliardario tutto
per me…> continuò a lamentarsi la donna,
alzandosi dal divanetto su cui era
praticamente sdraiata e afferrando il cellulare che teneva in borsa.
Jigen capì
che il suo tentativo era fallito alla grande: si alzò,
sommamente irritato, e
s’incamminò verso la stanza in cui avevano
lasciato la ragazzina.
Davanti
alla porta esitò, bussò leggermente e si
fece coraggio. Entrò lentamente, schiarendosi la gola.
<
Si può?>
Non
venne risposta e l’uomo ci mise qualche secondo
per abituare gli occhi all’oscurità della stanza;
per un attimo temette di
averla svegliata, ma la signorina Lenher non stava affatto dormendo.
Era là,
seduta a letto, la schiena appoggiata contro il cuscino, la benda alla
testa leggermente
macchiata di rosso: il suo volto era una maschera di cera.
Si
mosse piano, facendo attenzione a non spaventare
quella creatura così fragile; passo dopo passo, raggiunse il
comodino accanto a
lei, accese la lampada da lettura e si sedette, sempre con
circospezione, ai
piedi del letto. C’era qualcosa, negli occhi di quella
ragazzina, che lo
turbava profondamente…
<
Come ti senti?> In tutta la sua vita non
credeva di aver mai fatto una domanda così stupida; Cristo,
faceva schifo a
confortare le persone! Persino quella voltafaccia di Fujiko Mine
avrebbe fatto
un lavoro migliore. La ragazza lo guardò, gli occhi
improvvisamente vivi.
<
Chi sei?> La sua voce era strana: sicura, ma
rassegnata. Non c’era voglia di combattere, di reagire, di
vendicarsi, ma v’era
la certezza che, qualunque cosa accadesse, la sua sopravvivenza era
assicurata.
Jigen mascherò il suo disagio, ma dentro di lui la
risentiva: quella dannata
tempesta, l’acqua che tornava a prenderlo.
<
Non si risponde ad una domanda con un’altra
domanda, ragazzina.> Diamine, avrebbe dovuto rassicurarla, non
certo
rischiare di spaventarla. Ma Erika Lenher, con le sue profonde occhiaie
e la
testa fasciata, non sembrava affatto impaurita, solo terribilmente
stanca.
<
Ho la testa avvolta in bende, un gran male al
gomito e alla schiena e la gamba sinistra che fa un male del diavolo.
Senza
contare che da un momento all’altro mi sono trovata coinvolta
in quel casino e
ho visto mio padre morire. Come mi sento, secondo te?>
Jigen
si morse l’interno guancia: parlava di
quell’avvenimento con un tale distacco che gli venne da
chiedersi se non
provasse alcuna emozione a riguardo. Proprio come Ariadne, la prima
volta che
l’aveva vista. Ecco cosa gli ricordavano quegli occhi e,
purtroppo, non erano
memorie che voleva rivivere.
Si
costrinse a tornare con la mente alla realtà, ma
altre immagini si sovrapponevano al presente: Ariadne che gli
sorrideva, quella
dannata pioggia, una risata acuta, terribile, che gli penetrava nelle
ossa.
Ancora una volta sentì di essere sbagliato: le persone
normali hanno la
forza di gettarsi
alle spalle certe
cose. Lui no.
<
Mi chiamo Jigen. Soddisfatta?>
No,
Erika Lenher non era soddisfatta. Avrebbe
preferito di gran lunga che quell’uomo magro, che puzzava di
sigarette e alcol
lontano un miglio, la lasciasse dormire; aveva desiderato un
po’ di compagnia,
prima, ma la sua presenza la disturbava. Non poteva vedere gli occhi di
quello
strano tipo, ma aveva la sensazione che non fosse lui la persona che
poteva
aiutarla: anzi, a pelle le sembrava che fosse lui quello che doveva
essere
aiutato.
Lei,
invece, nel momento in cui aveva dichiarato che
suo padre era morto, aveva sentito qualcosa scattare dentro di
sé: una
consapevolezza, cioè che non le importava più di
tanto. Era cresciuta come se
non avesse mai avuto un padre, in fin dei conti. La sua famiglia era
racchiusa
tutta in quell’adorabile donna che l’aveva
cresciuta e che, qualche settimana,
aveva trovato immobile nel suo letto, di un pallore spettrale, gelida.
L’uomo
che era stato dilaniato di fronte ai suoi
occhi non significava più nulla per lei da molto tempo.
Tutto ciò che voleva
ricordare di lui era quell’orologio da taschino che le aveva
regalato per il
suo settimo compleanno, un oggetto antico, che si tramandavano i Lenher
da
generazioni. Quell’orologio ora giaceva accanto a lei,
appoggiato sul comodino
di legno.
<
Sei uno di quelli che mi ha portato via,
vero?> chiese, ricordando man mano qualcosa di più di
quella dannata
esplosione. Gli tornò in mente l’uomo con la
faccia da scimmia a cui aveva dato
la gomitata più forte della sua vita, poi gli spari, infine
la persona che
l’aveva afferrata mentre scendeva dalle scale…
doveva essere proprio l’uomo che
si trovava davanti. Il quale annuì in risposta alla sua
domanda.
<
Chi è che ha piazzato quell’affare? Non avrebbe
dovuto essere possibile, c’è la sicurezza a
controllare ogni porta,
costantemente, e telecamere ovunque… e chi è che
sparava, mentre scappavo? Sai
chi era?>
Jigen
si portò una mano alla tempia: erano tutte
domande a cui poteva rispondere per supposizioni. Fondate sino a un
certo
punto, ma supposizioni. < Chi ha cercato di ucciderti
è probabilmente la
stessa persona che ha piazzato la bomba. Non sappiamo ancora con
certezza di
chi si tratta, ma con ogni probabilità stava cercando di
finire ciò che
quell’esplosione aveva cominciato.>
La
distruzione della famiglia Lenher. Per quel che
poteva significare. Daisuke sentiva nelle ossa che quella era opera di
Gin e
dell’Organizzazione: non poteva essere una coincidenza, il
suo arrivo e,
qualche giorno dopo, quell’attacco così violento.
Ne avrebbe dovuto parlare con
Shiho, per sicurezza: di certo lei riconosceva lo zampino dei suoi
ex-colleghi
meglio di quanto non potesse fare lui.
<
Perché mi avete portato qui? Cosa volete da
me?>
<
Oh oh oh, ma cherì, non fare quel faccino
preoccupato! Non vogliamo farti del male!>
Jigen
sobbalzò e per poco non mise mano alla sua
pistola: non si era accorto che Lupin era entrato nella stanza. Vide un
lampo
negli occhi della ragazza, probabilmente l’aveva riconosciuto
come la causa di
quel livido bluastro sul suo gomito.
<
Vedi, mi è giunta voce che la tua famiglia
conserva un inestimabile tesoro, da qualche parte in questo paese. E
che tu, mia
cara, possiedi la chiave per accedervi.>
Ci
fu un attimo di pausa. Poi lo sguardo della
ragazza si posò inevitabilmente sull’orologio da
taschino del padre.
*
Era
una gran brutta storia e più ci pensava più se
ne convinceva. La ragazza non aveva affatto voglia di collaborare,
questo era
evidente, ma d’altro canto non sembrava per niente
interessata al tesoro di
famiglia: con ogni probabilità era reticente solo
perché non si fidava di loro
e, ad esser sincero, Jigen non poteva darle torto.
In
fin dei conti era miracolosamente scampata per ben
due volte all’Organizzazione, prima all’esplosione
e poi a quella scarica di
proiettili, e poteva ben dirsi fortunata. Un po’ di
diffidenza era più che
naturale. Col tempo, quasi certamente, Lupin sarebbe riuscito a
conquistare la
sua fiducia.
Fiducia…
quel termine lo faceva sorridere, ma senza
allegria. C’erano poche persone di cui si era veramente
fidato, in tutta la sua
vita, gente a cui dava le spalle senza preoccuparsi di che cosa poteva
accadere. Purtroppo il tempo gli aveva dimostrato che aveva commesso
molti
errori.
No,
ciò che preoccupava Jigen non era certo quella
povera ragazzina. Doveva contattare Shiho e in fretta: gli servivano
certezze
e, probabilmente, l’ex scienziata aveva delle informazioni di
vitale
importanza.
Fuori
gli sparuti fiocchi di neve avevano lasciato
il posto ad una tormenta vera e propria: folate di nevischio e vento
facevano
sbattere le imposte esterne e le strade cominciavano a diventare sempre
più
bianche man mano che la notte calava.
L’uomo
imprecò a denti stretti mentre si preparava
ad affrontare il suo destino: prima Fujiko, poi il mal
tempo… qualcuno lassù
doveva proprio avercela con lui. Si calcò con forza il
cappello in testa e uscì
dalla porta d’ingresso, diretto alla macchina.
Un’ombra di fronte a lui catturò
la sua attenzione e la mano corse automaticamente verso la fidata
pistola.
Poi
si bloccò, un groppo in gola. Non poteva essere,
non in così poco tempo. Fece un passo verso quella figura in
nero, poi un
altro, sforzando gli occhi in modo da scoprire se era davvero chi
pensava lui o
se la neve gli giocava brutti scherzi.
<
Quanto tempo, Jigen.>
No,
non era quel maledetto nevischio a confondere i
suoi sensi, quella voce l’avrebbe riconosciuta tra mille. Il
barlume di un
accendino portato alla bocca fugò gli ultimi dubbi: davanti
a lui, stretto nel
suo cappotto nero, cappello in testa e sigaretta in bocca, stava Gin.
<
Anni, a dire il vero. Non posso dire di aver
sentito la tua mancanza.> replicò asciutto. Si chiese
se valeva la pena
correre il rischio e allontanare la mano dall’arma: una
vocina nella sua testa
lo informò che al biondo non piaceva sentirsi minacciato.
Con lentezza spostò
la destra e andò a recuperare una cicca dalla tasca interna
della giacca.
<
Un vero peccato… eravamo un’ottima squadra a
quei tempi. Ma ho sentito che hai trovato un nuovo partner ora, giusto?
Quel
ladruncolo con la faccia da scimmia…>
Jigen
non poté trattenere un sorrisetto a quelle
parole. Si accese la sigaretta, ignorando il freddo e quella sensazione
di
pericolo che gli martellava nel petto.
<
Da quel che mi risulta, Gin, tu non lavori in
squadra.>
Anche
il killer dell’Organizzazione sorrise, un
sorriso freddo come la neve che non raggiunse gli occhi.
<
Solo quando sono obbligato.> C’era qualcosa,
nel suo tono, che mandò un brivido lungo la schiena
dell’altro. Ricordava fin
troppo bene il periodo passato a lavorare al fianco del biondo e di
quell’altro
folle… Dio, non poteva credere di essere caduto
così in basso. Poi Gin era
sparito, di punto in bianco, attirato da una proposta molto
più allettante,
mentre Mash… con Mash era finita diversamente. Ancora lo
prendeva un moto di
disgusto quando per caso sfiorava con le dita le cicatrici che quelle
pallottole gli avevano lasciato in ricordo.
Sbuffò,
una nuvola di fiato e fumo gli passò davanti
agli occhi.
<
Fa freddo, Gin, e io ho altro da fare che
scambiare convenevoli qui con te. Che cosa vuoi?>
Sapeva
già la risposta, è vero, ma contava di
mandare avanti il discorso per molto: Lupin era nella casa con la
ragazzina e
Fujiko, se fosse riuscito a dilungarsi e guadagnare tempo forse tutti
loro
sarebbero riusciti a mettersi in salvo.
<
Lo sai già, Jigen. Cerco Erika Lenher e, se le
mie informazioni non sono errate, si trova proprio nel palazzo alle tue
spalle.>
<
Ma davvero? Che coincidenza.>
<
Proprio. Bé, immagino che non ci sia più molto
da dirci.>
Il
movimento improvviso delle sue mani lo prese alla
sprovvista, ma prima che la sua amata pistola potesse trovarsi nelle
sue mani
si bloccò: Gin non stava estraendo nessuna arma
né si preparava ad attaccarlo.
Gettò semplicemente la sigaretta in terra e, mani nelle
tasche, cominciò ad
avanzare nella neve.
Era
come se il tempo fosse stato improvvisamente
rallentato: lo vide dirigersi verso di lui, quello sguardo gelido, i
lineamenti
affilati, tutto faceva pensare ad un predatore e Jigen non era certo
abituato
ad essere una preda. Non si rese conto di aver trattenuto il fiato
finché Gin,
senza degnarlo di un’ulteriore occhiata, non lo
superò, sfiorandolo appena con
un lembo del cappotto.
Ci
mise un secondo per capire cosa stava accadendo,
solo uno: un attimo di troppo e non sarebbe riuscito a fermarlo. Il
calcio
della pistola era più freddo che mai, le sue dita
protestarono flebilmente al
contatto; un brivido, una sorta di brutto presentimento, gli
attraversò la
spina dorsale mente puntava l’arma verso quella figura nera:
era, stranamente,
una sensazione che aveva già provato tempo addietro.
<
Non fare un altro passo, Gin.>
Se
il biondo non gli avesse dato le spalle, Jigen
sarebbe stato certo che un sorriso beffardo gli increspava le labbra in
quel
preciso istante. La porta era a meno di due metri da lui,
l’unico ostacolo tra
quell’uomo spietato e la povera ragazzina travolta dagli
eventi. Forse Lupin
sarebbe stato in grado di difenderla, forse no.
Più
ci pensava e più ricordava le parole che aveva
rivolto a Shiho: era giunto il momento di mettere da parte il suo
egoistico
buonsenso e fare quello che non avrebbe mai voluto fare.
Perché mettersi contro
Gin e l’Organizzazione equivaleva più o meno a
suicidarsi.
<
Da te non me lo sarei mai aspettato, Jigen…>
Percepì
il movimento della mano e la rotazione del
busto prima ancora che il biondo potesse effettivamente compierli. I
suoi
riflessi non lo tradirono, ma qualcosa, che non riuscì ad
identificare subito,
gl’impedì di sparare: una risata, alta, acuta, una
di quelle risate che ti
tormentano nei tuoi peggiori incubi.
Anche
Gin si congelò sul posto, quel suono era
familiare anche per lui. Poi una scarica di proiettili si
abbatté nel poco
spazio che separava i due contendenti, mentre la risata si faceva
sempre più
ossessiva. Jigen scattò di lato, trovando rifugio dietro una
macchina di lusso
nuova di zecca: di certo il suo proprietario non sarebbe stato felice
la
mattina seguente.
Il
primo pensiero che gli passò per la mente fu che
almeno Lupin doveva aver sentito gli spari e quindi, con ogni
probabilità, si
era già attivato perché Erika Lenher fosse messa
in salvo. Il secondo fu che
quella dannatissima risata che ancora echeggiava nell’aria
l’aveva già sentita
tanto tempo prima.
<
Mad Mash…> bofonchiò e
nell’attimo in cui
pronunciò quel nome sentì un moto di disgusto
risalirgli dallo stomaco: aveva
sperato di non vederlo mai più, di non dover più
sentire quella terribile
risata. Un movimento alla sua destra lo prese di sprovvista, vide la
figura
scura di Gin cercare di raggiungere la porta d’ingresso.
Sparò.
Il rumore del proiettile gli sibilò nelle
orecchie, mentre un grugnito di dolore e un tonfo gli confermavano che
il colpo
era andato a segno; vide il biondo sgattaiolare via, una mano premuta
sul
fianco. Una nuova risata gli piovve addosso, mescolandosi alla neve e
al
freddo.
Una
sensazione opprimente lo prese, cominciò a
pesargli sulla gola, sullo stomaco. La testa gli girava, le mani
tremavano.
Prima che quel folle di Mash lo trovasse ancora, prima che potesse
sfoderare il
suo sorriso beffardo e riportargli alla mente tutto quello che avrebbe
preferito dimenticare, fece l’unica cosa possibile: ventre a
terra, si trascino
da una macchina all’altra, facendo attenzione a non perdere
di vista la
posizione del suo avversario.
Pregò
affinché Lupin e la ragazzina fossero riusciti
a mettersi in salvo; imprecò a denti stretti e
scappò con la coda tra le gambe,
vergognandosi come un cane.