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Autore: J O A N    16/12/2012    0 recensioni
Ea Mansit, tradotto dal latino "Ella restò." 
Restare ad osservare, in una notte di luna, il proprio mondo che crolla in frantumi.

“Sei completamente dipendente da me.” Le bisbigliò all’orecchio mentre osservava, quasi disinteressato, in basso, verso le vene del suo collo e le sue clavicole che, alla luce della luna, apparivano più bianche di quanto non fossero. Poi percorse con la punta del dito tutta la lunghezza della sua spalla, in un tocco così lieve che, inutile dirlo, lei non mostrò nemmeno di essersene resa conto. Ma lui ovviamente notò i brividi che solcavano irregolari la sua pelle.
“Illuditi.” Mormorò con una voce più spezzata ed incerta di quanto avesse voluto che fosse, quando le sue dita accarezzarono gentili il lobo dell'orecchio.
Lui rise, inclinando la testa leggermente in avanti. “Non sono illusioni, io ti ho portato via. E tu mi hai seguito di tua volontà.”
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ehledwhen
Capitolo secondo.













 
Era sera inoltrata. Forse la mezzanotte era addirittura già passata, e l’aria incominciava a farsi fredda.  Nel Palazzo si stava svolgendo un ricevimento di gala. Erano arrivate dame, re, principi da ogni dove, a quanto pareva si trattava di qualcosa di molto considerevole, anche se alla fin fine, tutto era considerato considerevole, quando si trattava dei membri di qualche famiglia reale.

L’ambiente era surreale, aveva pensato Genevieve, appena Clara l’aveva condotta all’interno del palazzo. Era un magione delle Vecchie Reggenze, perciò l’ambiente rispecchiava pienamente il susseguirsi delle varie famiglie che avevano abitato il Palazzo. L’architettura era gotica, risaliva agli anni successivi alle rivolte e ai periodi bui, ma all’interno era decorato con arazzi di parecchi secoli successivi, e intersi d’oro e di bronzo decoravano porte e finestre. Era come se brandelli di epoche differenti fossero stati gettati alla rinfusa in quella sala, anche se alla fine, lei doveva ammetterlo, l’effetto non era malvagio, per quanto opprimente.

Si ritrovò a pensare a quanto freddo e strambo fosse quel Palazzo, e a quanto calda e accogliente fosse la sua reggia. Quanto diversa, quanto più casa.

Con una scusa, mentre discuteva sulle riserve d’oro delle miniere con una vecchia signora che sembrava disprezzare ogni parola dicesse, si era dileguata dalla festa ed era uscita a prendere una boccata d’aria.

Aveva pensato di non rientrare più, di prendere il cavallo e di andarsene e basta, a dire il vero. Ma Clara l’avrebbe uccisa, e con gli anni e l’esperienza aveva imparato che non era il caso farla arrabbiare, dato che la maggior parte delle volte, te ne faceva pentire.  Non aveva alcuna voglia di rientrare, o almeno non subito. Avrebbe aspettato ancora una quindicina di minuti e poi magari, avrebbe fatto una veloce scappatella nella reggia, giusto per scambiare qualche frivola chiacchiera con qualche altrettanto frivola donna attempata, o almeno per compiacere…

“Genevie!” Una giovane donna si sollevava la gonna con la punta della dita e camminava in punta di piedi perché l’’orlo del vestito non si sporcasse di fango. “Dio mio, Genevie, cos’è quell’aria da funerale? C’è una festa la dentro!”

Ci siamo, pensò Genevieve.

Si avvicinò, sempre attenda a non chiazzare l’abito, a Genevieve, seduta su uno dei rami di un faggio ai confini più esterni del boschetto del palazzo, con l’aria assorta e le gambe che penzolavano dall’alto.  

“Oh Clara, andiamo, ci conosciamo da quando siamo nate e non hai ancora capito quanto io odi queste cose mondane?” Fece ridacchiando e scostando il vestito per coprirsi le gambe.
“Oh, ti conosco ben troppo bene.”  Rispose Clara, zittendola con un cenno della mano.

Clara aveva l’aspetto della classica ragazza allevata e cresciuta a corte. Non era particolarmente bella, ma nemmeno brutta. Le lentiggini le coprivano le guance e i capelli rossi le scivolavano graziosi sulle spalle, circondandole il viso tondo. Era stretta in un abito verde scuro, che evidenziava le sue forme già da donna, con la gonna lunga e un corpetto color bronzo che la stringeva in vita, le sue mani erano velate da guanti bianchi.

 A differenza di Genevieve, Clara amava i balli e le feste effimere, che le davano un’opportunità di sprigionare il suo spirito frivolo e festaiolo. A volte Genevieve si chiedeva come avesse fatto a sopportare di seguirla a tutti quei ricevimenti per tutti quegli anni, nei quali più volte aveva rischiato di mandare al diavolo il buon nome della sua famiglia, inciampando in vestiti di vecchie dame, rischiando di rovesciare lo champagne addosso ai camerieri e restandosene in disparte desiderando null’altro che la fine di quella serata.

Genevie sbuffò. “Si da il caso che mi ci hai trascinato tu qui, sarei già a letto. Non farmene una colpa, se almeno non mi fiondo in mezzo alla folla!”

“Sei perché ti ho portato qui! Te l’ho detto e ripetuto, che il principe delle Alte Nazioni non ha occhi che per te. E sarebbe anche un modo perché aiutassi tuo padre in politica, un matrimonio tra due figli di re…”

Genevieve abbandonò la testa alla corteccia dell’albero, sorridendo alla sensazione del vento gelido del nord che le sfiorava il viso.  Era cresciuta, tra quei venti, e tra le montagne, sognando per tutta l’infanzia di essere da un’altra parte. E ora che era altrove, non desiderava altro che poter tornare a casa. Lasciò che la voce di Clara sfumasse e di essa rimanesse solo un’eco nella sua mente. Ricordò quando era ancora bambina e si sedeva sulle gambe di suo padre nella sala più immensa della reggia a farsi raccontare storie davanti al camino, mentre fuori le grandi vetrati le nevi perenni…

“Genevie, ti giuro che ti uccido con le mie stesse mani se ora non mi segui.”  Clara era il tipo da perdere la pazienza facilmente, soprattutto quando si trattava di principi di nazioni remote e di avere la possibilità di far maritare la sua migliore amica.

La ragazza sbuffò rumorosamente - sei più sgraziata di uno spaccalegna a volte, borbottò Clara a mezza voce, e dire che un giorno sarai regina –

Fece finta di non aver sentito, e si calò piano dal ramo, atterrando in una pozzanghera fangosa. Alla faccia scandalizzata di Clara, dopo aver visto l’orlo del suo vestito, Genevieve scoppiò a ridere allegra. “Dai, non è niente, prestami il soprabito!”
 
Il ricevimento era una noia. Non era nemmeno mondano e frivolo, era una vera e semplice noia. Dame che parlavano di Dame, Re che discutevano di cose da re. Genevieve pregò con tutto il suo cuore di essere altrove, quando Clara la presentò al principe Faramèr delle Alte Nazioni.

Molte ragazze lo trovavano attraente, ma a lei sembrava solamente stupido. Era carino, questo glielo concedeva, con quei capelli neri e la pelle chiara e tutto il resto, ma era davvero un idiota. Le era stato appiccicato per tutta la serata, senza dare segno di concederle tregua, portandole da bere, presentandole gente importante.

Non mi farò mai più trascinare ad una festa del genere. Pensò sfoderando il sorriso più falso che possedesse, mentre lui le baciava la mano, congedandosi.
Genevieve sospirò di sollievo, quando lo vide allontanarsi.

Si sedette in disparte, ai piedi di una vetrata, osservando a tratti le montagne, a tratti il suo riflesso nel vetro. La finestra rimandava l’immagine di una ragazza giovane, anche se nei suoi occhi vi si leggeva la stessa inquietudine di chi ha vissuto molto e di chi ha conosciuto la sofferenza.

I capelli neri le circondavano il viso, le cadevano lungo le spalle in due ciocche, mentre aveva raccolto in uno chignogn dietro la testa quelli che avanzavano.
Il vestito rosa era coperto dal soprabito bianco che Clara le aveva prestato per coprire le macchie di fango.

Smise di guardarsi, e cercò di concentrarsi sulle montagne. Sperava, per quanto sapesse che fosse impossibile, che se avesse guardato molto attentamente, avrebbe visto casa sua.
Magari, anche solo la luce della città nel buio.

Sospirò, bevve un sorso di vino, che le scese in gola e le scaldò il petto.

Si stava già alzando con l’intenzione di cercare Clara, quando qualcuno le afferrò un polso e il bicchiere le cadde di mano, frantumandosi a terra in mille scheggie di vetro.

Si voltò di scatto, ma quando il suo viso trovò quello del ragazzo che la tratteneva si bloccò stupefatta, e quasi urlò dalla sorpresa, al ricordo di parole, di anni, di gesti che aveva sperato di aver dimenticato.

Lui era il suo demone. Era un mostro che non sembrava tale, la sua voce suadente la costringeva ad aggrapparsi alle sue mani come se fossero la sua unica ancora.
Affogava nella marea, e lui le porgeva la salvezza. Si dimenava tra le onde, ma invano. Come avrebbe potuto non accettare?

 


“Ciao, Ehledwen.” Disse lui dopo un momento di interminabile silenzio.












***

Joanie's Corner, ovvero l'angolo di quella che si ripresenta così, con un nuovo capitolo dopo quasi tre mesi.

Mi faccio quasi pietà, lo devo dire. 
Cioè, mesi.
Si parla di mesi.
Mesi in cui in pratica ho scritto come una matta e non ho mai postato niente.
Che sollievo, avrete pensato. E invece no, pronta a rompervi con un altro capitolo.
Lo so, lo so, non si capisce niente della storia. 
Ma siamo ancora all'inizio, suvvia. 
Okay, me ne vado, altrimenti incominciano ad arrivare i pomodori in faccia,
Adios!
(Pipe, Hells, Claire e Ceci, ogni capitolo che scrivo è always per voi <3 )
 
Jo;
 
 
 
 

  
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