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Autore: ValeryJackson    26/12/2012    8 recensioni
La vita di Valeri Hart è sempre stata una vita abbastanza normale, con la scuola, una mamma che le vuole bene e la sua immancabile fantasia.
Già, normale, se si escludono ovviamente i mille trasferimenti da una città ad un'altra, gli atteggiamenti insoliti di sua madre (che poi sua madre vera non è) e quelle strane cicatrici che le marchiano la caviglia, mandandola in bestia. Non sa perchè ce le ha. Non ricorda come se l'è fatte. Non ricorda di aver provato dolore. Ricorda solo di essersi risvegliata, un giorno, e di essersele ritrovate addosso. Sua madre le ha sempre dato mille spiegazioni, attribuendo più volte la colpa alla sua sbadataggine, ma Valeri sa che non è così.
A complicare le cose, poi, arriva John, un ragazzo tanto bello quanto misterioso, che farà breccia nel cuore di Valeri e che, scoprirà, è strettamente collegato alla sua vera identità.
**
Cap. 6:
Mary mi guarda negli occhi. Poi il suo sguardo si addolcisce, e mi fissa in modo molto tenero, come si guarda una bambina quando ti dice che ti vuole bene.
"Oh, Valeri", dice, con dolcezza. "Tu non hai idea di che cosa sei capace".
**
Questa é la mia nuova storia! Spero vi piaccia! :)
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sono in piedi davanti allo specchio.
Mi guardo. Ho i capelli scuri raccolti in una coda. Indosso una semplice camicetta bianca e un paio di jeans. Guardo negli occhi il mio riflesso. Ho occhi grandi e marroni. Ogni tanto vi si scorge un luccichio. Credo sia dovuto ai miei numerosi pianti di quand’ero piccola. Ora non lo faccio più, ho imparato a gestire le mie emozioni.
Lascio scendere lo sguardo sul mio corpo. La mia pelle è olivastra. Non sono una ragazza magra, ma il mio corpo non è male. Posso, forse, quasi dire di essere una ragazza … normale. Non bella, ma nemmeno brutta. Normale. Con le mie curve burrose ho il mio perché. Non che mi interessi più di tanto. Non bado molto al mio aspetto fisico. Non vesto firmata e non mi trucco quasi mai, se non per le occasioni importanti. Non vado dal parrucchiere, i capelli me li taglia mia madre. Un po’ perché mi fido delle mani esperte di mia madre, un po’ perché non ci permettiamo il lusso di andare dal parrucchiere. Comunque mia madre è brava. Potrebbe benissimo fare quel mestiere, se avesse il tempo di trovare un posto fisso. Ci siamo trasferite così tante volte che quando mi chiedono “Da dove vieni?” vorrei quasi rispondere: “Dalla strada”.
In effetti è così.
Quella che chiamo mamma in realtà non è la mia vera madre. Sono stata adottata. Cioè, quando avevo solo un anno la mia vera madre mi ha abbandonato davanti la porta di Mary, che mi ha accolto ed allevato come fossi sua figlia. Ero in una culla, insieme a uno scrigno, un sacchetto pieno di pietre preziose e un biglietto. Lei non ha mai voluto dirmi cosa c’era scritto.
Quando glie lo chiedo mi risponde sempre dicendo: “Quando sarà il momento”. Ma quando sarà il momento? Non lo so.
Abbasso lo sguardo e fisso le mie scarpe. Sono delle semplici Converse bianche. Ne ho altre di scarpe, ma indosso sempre queste. Non so perché. Abitudine.
Da sotto il jeans sbucano le mie cicatrici.
Sono tre, tutte sulla caviglia destra. Sono circolari, stranamente identiche, anche se me le sono procurate in momenti diversi della mia vita.
La prima è “spuntata” quando avevo solo cinque anni. Mia madre mi raccontò che era perché, mentre giocavo al parco giochi della città, caddi in volo dall’altalena e mi feci un taglio enorme alla caviglia. A quei tempi vivevamo in Arizona, in una cittadina al confine con il Messico, ma ero troppo piccola per ricordarmi il nome esatto della città, e Mary non vuole dirmelo. Ci trasferimmo in Minnesota il giorno dopo.
La seconda cicatrice l’ho avuta quando avevo nove anni. Ero a scuola, in Colorado, e stavo partecipando a una gara di atletica. Dovevamo fare un percorso nel bosco e poi uscirne nel minor tempo possibile. Ricordo molto poco. Solo un forte dolore, poi sono svenuta. Mia madre mi disse che ero rimasta bloccata in mezzo a dei massi con il piede e che ho perso i sensi. Lei mi aveva portato al pronto soccorso e poi a casa. Quando avevo ripreso conoscenza, però, ero già nel mio letto, quindi non ricordo neanche se mi hanno fatto male i punti. Presumo di no. Comunque, quando a scuola videro le cicatrici chiamarono la polizia, accusando mia madre di violenza su minore e minacciando di arrestarla. Ma, dato che quando mi procurai la seconda cicatrice lei non era con me, allora dovettero lasciarla stare.
Comunque salimmo in macchina e ce ne andammo via. Nel Maine, questa volta. Non portammo con noi molte valige. Solo qualche vestito, una bambola da cui non volevo separarmi e quello strano scrigno che Mary porta sempre con sé a ogni trasloco. No ho idea di cosa contenga, lei non vuole dirmelo. Non so perché, ma credo che contenga qualcosa sul mio passato. Almeno lo spero. Ho provato ad aprirlo più volte, ma con scarso risultato. Ho anche cercato la chiave per aprire il lucchetto che lo chiude, ma niente. Sigillato.
Finora ci siamo trasferite già diciotto volte. In media è più di una volta all’anno, dato che io ho quindici anni. Siamo sempre state noi due, io e lei, insieme. Non capisco il perché di tutti questi trasferimenti. Mary non me lo ha mai spiegato. All’inizio davo la colpa a quelle sciocche cicatrici. Ogni volta che me ne facevo una dovevamo andarcene. Ma dopo l’altro giorno so che il motivo è un altro.
La terza cicatrice è apparsa due giorni fa. Ero in barca con Mary e quello squallido del suo compagno, Gabe Castellan.
Gabe è rozzo, brutto, antipatico, cattivo, acido, ubriacone, sporco, lurido, squallido e maschilista. Ma è ricco. Non so cosa Mary ci trovi in lui. So che non sono i soldi, ma, a dirla tutta, quella è l’unica cosa bella che ha. Spesso ci porta a fare un giro con la sua barca sul fiume Hudson. Anche quel giorno lo fece. Ma accettare fu un enorme sbaglio.
Ero seduta sul bordo della barca, coi piedi penzoloni nell’acqua, accanto a Mary. Parlavo con lei del più e del meno, mentre Gabe dormiva ubriaco a poppa, quando è successo. L’acqua ha cominciato a ribollire intorno alla mia gamba destra. Un dolore lancinante ha iniziato a pervadermi la gamba. Sapevo, sapevo cosa stava succedendo. O meglio, sapevo cosa sarebbe successo dopo. Avrei avuto la mia terza cicatrice. Mary aveva gli occhi sgranati, ma non so se per il terrore o per lo spavento. Guardò freneticamente prima me, poi Gabe, che stava iniziando a svegliarsi, poi me, poi Gabe, poi di nuovo me.
<< Va!>>mi disse. Mi spinse in acqua. << Va a riva!>> urlò stavolta.
Io feci come diceva lei. Iniziai a nuotare e raggiunsi riva più veloce che potevo, prima di svenire. Non ricordo esattamente cosa successe dopo. A quanto mi ha raccontato Mary sono stata morsa da qualche animale. Non mi ha detto quale, non voglio saperlo. Istintivamente mi sono toccata la caviglia destra. Come sospettavo, eccola lì, circolare come le altre, perfetta e dolorosa, la mia terza cicatrice. Mary non volle dirmi altro sull’animale, ne volle spiegarmi perché l’acqua intorno alla mia gamba ribolliva.
Che importanza ha, d’altronde? Ormai ci sono abituata. Mi aspettavo che mi dicesse di fare i bagagli, ma non lo fece. Questa volta restiamo qui. Gabe, però, non deve saper della cicatrice. E non lo saprà.
Sollevo l’orlo dei pantaloni e le guardo meglio. Sono inquietanti. Solo a guardarle una fitta di dolore mi pervade il corpo.
Sposto lo sguardo sulla gamba sinistra. Anche lì, sempre sulla caviglia, ho una cicatrice. Quella però ce l’ho da quando sono nata. È molto più piccola e, cosa più sinistra, è perfettamente identica all’amuleto che porto al collo, da cui non mi separo mai, dato che è l’unica cosa certa del mio passato che mi rimane. È di un blu intenso, con varie sfumature di grigio all’interno. Nel cuore, poi, c’è una specie di spirale azzurrina che sembra sospesa nel vuoto. È bellissimo, e finora non ne ho visti altri.
Credo, comunque, che la cicatrice me l’abbia fatta la mia vera madre, dato che l’amuleto è il suo. O forse si era fatta costruire questa collana proprio ispirandosi alla mia cicatrice. Non lo so. Non mi è dato saperlo. In effetti, ci sono così tante cose della mia vita che non so spiegarmi che ha volte mi chiedo chi sono io realmente.
Sono una ricca?
Sono una vagabonda?
Sono orfana?
Boh. L’unica cosa che so è che mia madre mi ha abbandonato quando avevo solo un anno e che poi, probabilmente, è morta. Non so nulla invece di mio padre. Non so neanche se ce l’ho un padre in realtà. Ma non mi interessa più di tanto. Non più ormai. Mary è la mia vera famiglia. L’unica che voglio.
Mi abbasso l’orlo dei pantaloni e mi guardo un’ultima volta nello specchio. Faccio un respiro profondo afferro lo zaino sul letto e inizio a scendere lentamente le scale. Mentre scendo, sento la voce di Gabe in cucina che detta ordini a mia madre.
Non lo sopporto, ma non posso farci niente. D’altronde, che potere ha una ragazzina di quindici anni che non sa neanche quale sia il suo vero nome contro un uomo di quaranta, ricco e violento? Nessuno. Ecco perché sto zitta. Nascondo accuratamente la mia collana nel colletto della camicetta, perché se lui la vedesse vorrebbe di sicuro rubarmela, e continuo a scendere le scale.
Come sospettavo, Gabe è in cucina e mia madre è lì che stira accanto a lui, senza fare una piega.
<< Era ora, signorina!>>bofonchia Gabe. << Qui la mattina ci si alza presto >>.
Faccio finta di non sentirlo e vado a prendermi una mela. Lui fa un gesto con la mano e sgola tutto il suo bicchiere di quella che presumo sia birra.
<< Ehi donna! >>dice rivolto a mia madre. << Va a prendermi un’altra birra! >>. Mia madre smette di stirare e va verso il frigo. Quando passa, Gabe le da una pacca sul sedere e sorride maliziosamente.
<< Oh! Potresti evitare? >> gli dico inorridita. << È sempre mia madre quella! >>.
Lui si alza minaccioso e viene verso  di me. Istintivamente mi appoggio con le spalle al muro e lui mi blocca appoggiando le mani sul muro, ai lati della mia testa. La mela mi cade di mano.
<< Senti … >> dice con voce crudele. Il suo alito sa di alcol anche appena mattina. << Non mi faccio mettere i piedi in testa da un’insulsa ragazzina come te. Vivi sempre sotto il mio tetto, ricordalo. Se hai ancora un letto e solo grazie a me! >>.
Sostengo per un po’ il suo sguardo. È spento e poco lucido, ma fa comunque rabbrividire. Fortunatamente in quel momento trona mia madre in cucina. Dice a Gabe di lasciarmi stare e poggia la birra sul tavolo. Gabe va via da me, prende la sua birra e va a sedersi sul divano. Tossicchio un po’ per levarmi il tanfo di quell'uomo dalla faccia.
Non lo sopporto, non lo sopporto, non lo sopporto!
Guardo Mary. Ha l’aria molto calma e rilassata, ma io so che non è così.
<< Mi dici come fai a sopportarlo? Che ci trovi in uno così?!>>sbraito. Mary mi guarda e sospira.
<< Un giorno capirai>>mi dice. Si avvicina e mi sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
No, invece non lo capirò mai.
<< Vuoi qualcosa da mangiare?>>mi chiede.
<< No>> rispondo fredda. Poi addolcisco un po’ il mio tono di voce. << Mangio qualcosa per strada >>.
<< Sicura? Vuoi che ti accompagni a scuola? >>
Scuoto la testa. Non voglio che mi accompagni a scuola. << Vado in bicicletta>> dico.
Mary annuisce. << Ok>> dice, ovviamente delusa. << Sta attenta>>.
Annuisco, anche se non ho idea di cosa voglia dire con quel “Stai attenta”. Attenta a cosa? Boh.
Vado in garage e prendo la mia bici. In realtà non è proprio mia mia. Appena ci siamo trasferite nell’abitazione di Gabe non sopportavo l’ambiente, così mi sono nascosta in garage. Lì ho trovato questa bicicletta, praticamente nuova, e ho deciso, dato che non ne avevo mai avuta una, che quella sarebbe stata mia. Nessuno obbiettò. Credo che Gabe neanche lo sappia.
Comunque sia non mi interessa. La maggior parte delle volte vado a scuola in bici. Un po’ perché così posso stare un po’ da sola, un po’ perché non voglio che Mary mi accompagni.
Non è che mi vergogno di lei, ma a scuola sono già lo zimbello di tutti.
Sono bersagliata di continuo da quelli che noi adolescenti definiamo “i ragazzi in”. Questi ragazzi o hanno i soldi, o sono belli da far paura, oppure sono semplicemente cheerleader o assi dello sport. Poi ci sono, in ordine: gli sportivi, gli emo, gli attori, gli artisti, il dramma club, il giornalino della scuola, la banda, la mascotte, i secchioni, il club audio video, quelli bravi nella musica, quelli che non sono bravi nello sport, il club di scacchi e, infine, ci sono quelli come me, i “non classificabili”.
Sono brava a scuola, quindi potrei benissimo essere una secchiona, ma sono anche molto brava nello sport. Sono la più agile delle ragazze e anche la più forte. Potrei far parte anche degli sportivi. Ma anche del giornalino della scuola o degli artisti, dato che adoro scattare foto e dipingere. Sono le mie uniche, vere passioni. O, perlomeno, le uniche che sono riuscita a coltivare.
Vivere in una città come New York non è facile, ma è bellissimo. Qui sei uno come tanti, e questo mi piace. Non amo essere al centro dell’attenzione. So come passare inosservata, per questo riesco, spesso, a immortalare dei soggetti bellissimi. Poi scannerizzo le foto e le riguardo, perdendomi nei miei numerosi scatti. Mi piace. Mi rilassa.
Sono arrivata a scuola. Scendo dalla bici e mi dirigo verso l’apposito parcheggio, guardandomi intorno. Sono circondata da ragazzi di ogni tipo di categoria. Quelli “in” non sono ancora arrivati.
<< Ehi!>> fa una voce dietro di me che mi fa sobbalzare. Mi giro. È solo la mia amica Mia.
Mia è una ragazza speciale. Il mio primo giorno di scuola nessuno voleva stare con me. Lei faceva parte delle cheerleader, ma si vedeva che non era come loro. Non era antipatica, ne acida, ne truce. Durante l’ora di pranzo io ero seduta da sola, quando mi arriva addosso un contenitore del latte. A buttarmelo addosso era stata Jessica Park. O, come l’ ho rinominata io, Jessica “Sono la migliore del mondo” Park. Lei è perfetta. È alta, snella, con gli occhi scuri e i capelli rossicci. Ha un fisico da modella ed è la migliore in tutto, dallo sport alla scuola. Proviene da una famiglia ricca ed è ufficialmente il capo della scuola, nonché delle cheerleader (che novità!).
Comunque, mi sporcai interamente di latte, facendomi deridere da tutti. Scappai in bagno a lavarmi di dosso quello schifo, con la consapevolezza che quella era solo la prima di tante ingiustizie che dovevo subire. Poco dopo in bagno entrò Mia. Indossava un vestito “Dolce e Gabbana” e delle scarpe col tacco. Era truccata come le altre e portava anche i capelli sciolti come loro. Mi si avvicinò lentamente.
<< Cosa c’è?>> sbraitai io. << Sei venuta a insultarmi anche tu?>>
Lei alzò le spalle. << In realtà>> disse << Volevo solo sapere come stavi>>.
Io feci uno sbuffo sarcastico << Come sto? Sto come sta la ragazza nuova che è appena diventata il bersaglio preferito dei bulli della scuola. Come sto? Sto di merda>>.
Lei mi scrutò da sopra a sotto con finta indifferenza. << Se vuoi>> cominciò << Io ho dei vestiti puliti nell’armadietto>>.
Io alzai lo sguardo. << Sempre se ti piace Versace>> concluse. Mi sorrise e io ricambiai con il mio miglior sorriso. Le ero grata per quello che stava facendo, e lo sono tutt’ora.
Da quel giorno è diventata la mia migliore amica, nonché l’unica. Quel giorno lei si è messa contro tutto e tutti, ha rinunciato ai suoi amici, ha rinunciato alla sua popolarità, e questo solo per aiutarmi. Come potrei non adorarla?
<< Ehi!>> dico e sorrido. Lei sorride a sua volta. Indossa una semplice gonna di jeans e una maglietta con su scritto “Carpe Diem” comprata al mercatino dell’usato. Porta i capelli sciolti e non è molto truccata. Non le serve. È bella lo stesso. È alta, ha la pelle scura e gli occhi marroni. Ha un fisico allenato, non a caso era anche lei una cheerleader, prima di diventare mia amica.
A volte mi sento a disagio. Lei aveva davvero tutto ciò che una ragazza poteva desiderare, e l'ha abbandonato solo per proteggermi. Ci sono giorni in cui mi chiedo se si sia pentita di quello che ha fatto, ma poi non ho mai il coraggio di chiederglielo.
Prendo il mio zaino e mi avvio insieme a lei verso l’entrata.
Ad un tratto una decappottabile rossa ci sfreccia davanti, tagliandoci la strada, e va a parcheggiarsi. Dalla macchina escono Jessica e le sue leccapiedi, insieme a Mark e altri della squadra di football. Mark è il quarterback della squadra della scuola, oltre a essere il ragazzo più bello e ricco di tutti. Ha i capelli neri, pieni di gel, fissati con cura in modo che vadano in tutte le direzioni. Le basette sono tagliate in modo meticoloso. A fare da contorno ai suoi occhi verdi c’è un paio di sopracciglia folte. Lui è un senior, cioè uno studente del quarto e ultimo anno. Lo si capisce anche dal giubbotto che indossa; il suo nome è ricamato in corsivo, in lettere dorate. È carino, ma è odioso, e io non lo sopporto.
Jessica ci vede e ci saluta con un sorriso maligno.
<< Che stronzi>> commenta Mia. Io non dico nulla e distolgo lo sguardo. Non mi va di mettermi a discutere, non questa mattina almeno.
<< Dai, andiamo>> dico con un filo di voce. Mia annuisce e distoglie anche lei lo sguardo. Si guarda intorno per un po’ mentre io cerco il mio cellulare nello zainetto. Mary vuole che lo tenga sempre con me, e che la chiami per qualsiasi evenienza. Non so di preciso quando è diventata così apprensiva. Forse da quando ha capito che in giro possono esserci tipi come Gabe. In tal caso anche io avrei il terrore per mia figlia.
<< Ehi!>> Mia mi da una gomitata. << Mi sa tanto che non sarai più l’ultima arrivata>> dice facendo un cenno con la testa.
Io guardo nella direzione indicata da lei. All’inizio non noto nulla, ma poi lo vedo. Un ragazzo. È alto, con un corpo abbastanza muscoloso da poter giocare a football. Indossa una felpa e un paio di jeans. So che è nuovo, si vede. E poi, io non l’ho mai visto da queste parti, e io ricordo sempre i volti di chi ho incontrato. Si volta e si guarda intorno. Da sotto il cappuccio della felpa noto che ha i capelli biondi. Per un attimo incrocio il suo sguardo. Ha gli occhi di un blu intenso, quasi come il mio amuleto. Poi accade l’impensabile.
Vedo immagini sfocate. Vedo un’astronave, gente che piange, persone che corrono, vedo una donna anziana che abbraccia un bambino di circa un anno, vedo una donna giovane che corre con in grembo un fagotto. Vedo la distruzione, l’odio, la guerra. Poi svanisce tutto. Mia mi sta scrollando una spalla.
<< Vale! Vale stai bene?>>
Io scuoto la testa per scacciare via quelle immagini. Torno a guardare il ragazzo. Mi fissa stranito , come se avesse visto un fantasma. Poi si volta ed entra a scuola.
<< Sembra che qualcuno ha fatto colpo!>> dice Mia dandomi un colpetto sul braccio.
<< Oh, ma smettila!>> dico, con un sorriso da ebete in faccia. Mi avvio verso l’entrata e lei mi segue.
Voglio dimenticare tutto questo. Non può essere successo davvero. Forse me lo sarò immaginato. Devo essermelo immaginato, per forza.
Continuo a camminare finché non inizio a confondermi tra la folla di ragazzi che entra.
Suona la campanella.
È iniziata la scuola.



Angolo Scrittrice.
Salve! Eccomi qui con una storia. Spero di avervi interessato e che continuiate a leggere quando pubblicherò i prossimi capitoli.
Vi avverto, prima di ricevere altre critiche. Uno. Come penso sia normale, per avere l'ispirazione di una storia bisogna avere il lampo di genio mentre si guarda, legge o ascolta qualcosa. Il mio lampo di genio l'ho avuto grazie a Sono il numero Quattro, libro di Pittacus Lore. Die. La scena presente in questo capitolo? Si, mi sono ispirata a Percy Jackson. Io AMO ALLA FOLLIA QUEL RAGAZZOO!! Sarebbe stato scorretto, da una fan come me, non renderlo partecipe, no?
Sarei molto felice se commentate! ;>
Baci baci
ValeryJackson
  
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