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Autore: Patta97    29/12/2012    3 recensioni
- E tu chi e che cosa saresti? – chiese Sherlock, ostentando il suo tono più pragmatico.
- Io sono io, Sherlock – rispose la creatura, con una voce bassa e leggermente acuta, come se si trovasse a metri di distanza dal letto e non a un passo. – Sono lo Spirito del Natale Passato –

E se Sherlock ricevesse la visita di tre Spiriti natalizi?
Note: Johnlock, Post Reichenbach
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao! Rieccomi col secondo capitolo. Anche se, in effetti, adesso non ha più molto senso... ma facciamo che lo spirito Natalizio dura fino al 6 gennaio, eh? *si guarda attorno speranzosa*
Vi lascio a questo piccolo parto non betato... lasciatemi un parere!

PS Ho dovuto cambiare il raiting in giallo, perché questo capitolo è particolarmente triste (per me, almeno xD ).
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- Come dovrei seguirti? – chiese Sherlock, sospettoso.
 
- Volando – rispose lo Spirito.
 
- Il sarcasmo non è il mio forte – commentò l’altro.
 
- Non sono sarcastico – le immagini sul petto dello Spirito si incepparono un attimo, mentre si stupiva. – Il mio ombrello è tutto ciò che ci serve – e si tolse l’oggetto da sotto il braccio e lo aprì. – Afferra il manico – suggerì, mentre faceva lo stesso.
 
Sherlock roteò gli occhi e maledisse per l’ennesima volta quello stupido sogno. – In caso tu, Spirito, non lo sapessi – spiegò lentamente, beffardo. – Sono un essere umano dotato di una certa massa e soggetto a cadere a causa di una robetta chiamata forza di gravità. E per quanto il tuo ombrello possa essere resistente non è di certo in grado di sorreggere il mio peso, soprattutto se sommato al tuo… - aggiunse, ammiccando alla leggera pancetta del piccolo Spirito.
 
Un lampo e un boato scossero il corpo dello Spirito. – Sherlock Holmes – tuonò. – Afferra il manico del mio ombrello –
 
Sherlock sbuffò e fece come gli era stato detto.
 
Un vento improvviso spinse l’ombrello – e Sherlock e lo Spirito con lui – attraverso il muro della stanza del consulente investigativo. E poi stavano volando, sospesi e dritti, appesi a quell’ampio ombrello nero. Sherlock si ritrovò a pensare che John avrebbe sicuramente trovato un paragone per quella situazione con un qualche film di fama mondiale di cui non era a conoscenza.
 
E Sherlock non seppe dire quando il paesaggio si era trasformato, ma non si trovava più nell’aria pungente di Londra, ma al chiuso.
 
- È il salotto di casa mia – sussurra, flebilmente.
 
Ma lo Spirito lo udì comunque ed annuì.
 
- È il Natale del 1984 – continua, osservando e analizzando ciò che lentamente i suoi occhi iniziano a visualizzare. – Ho otto anni. Mio padre è ancora vivo. Sto scartando i regali… -
 
Ma s’interruppe, guardando stupito la scena.
 
Quello che aveva davanti era proprio un piccolo se stesso di otto anni, seduto su un enorme e morbido tappeto persiano, con davanti un grande pacco incartato. Alle spalle del bambino dinoccolato, magro e ricciuto vi era un albero di Natale enorme e riccamente decorato. Su un pouf accanto a lui stava accomodato suo fratello Mycroft – davvero lui, non lo Spirito – e aveva sedici anni. E sul sontuoso e morbido divano, a guardare attenti i figli, stavano Holmes Senior e consorte.
 
- È stato l’ultimo Natale che ho passato a casa prima del collegio – ricordò lo Sherlock adulto ad alta voce.
 
Due mesi dopo quel 25 Dicembre, a suo padre sarebbe stata diagnosticata la cirrosi alcolica**** e poi sarebbe morto.
 
Una particolare stilettata a livello emotivo percorse il corpo di Sherlock, avvolto nel suo pigiama grigio e nella sua vestaglia blu.
 
E nello stesso istante si rese conto di essere parecchio esposto agli sguardi di quelli che erano (sono?) i suoi parenti.
 
Ma lo Spirito precedette la sua domanda con una rassicurante risposta: - Non possono vederci. Loro sono solo ombre di ciò che è stato –
 
Non aveva molto senso. Ma quello era solo un sogno, in fondo.
 
Poi una giovane voce interruppe le congetture mentali del consulente investigativo, facendolo quasi sussultare.
 
- Sherlock, apri i tuoi regali – suggerì Temperance* Holmes.
 
L’adolescente Mycroft, coi capelli rossi ondulati ben pettinati all’indietro, porse al fratellino due pacchi dalle dimensioni considerevoli.
 
Erano impacchettati entrambi in modo impeccabile, con una carta bianca e lucida e un fiocco argento in cima.
 
Lo Sherlock adulto l’avrebbe scosso pian piano e ne avrebbe giudicato il contenuto con aria di sufficienza, ma il lo Sherlock bambino non lo fece.
 
Non perché non ne sarebbe stato in grado – l’avrebbe dedotto, applicandosi un po’, anche dal comportamento della madre nei giorni precedenti -, ma scartò comunque l’involucro anonimo del primo che gli capitò fra le manine, con parecchio entusiasmo.
 
Temperance si sporse un po’ avanti col busto, trattenendo il fiato, coi capelli rossi e lisci ai due lati del volto pallido.
 
- Oh! Un microscopio! – esultò il curioso bambino, davvero felice. – Grazie, papà – disse, tutto impettito.
 
Arthur Holmes guardò la moglie in maniera strana e poi rivolse al minore dei suoi figli un debole sorriso stirato.
 
- Adesso apri questo – esortò Mycroft, spingendo ancora di più verso il fratellino l’altro pacco col fiocco argentato. Era parecchio emozionato, perché era stato lui a scegliere quel regalo - insieme alla madre - e voleva davvero sapere cosa ne pensava Sherlock, ma non voleva farsi vedere troppo sopra le righe dal padre.
 
Sherlock fece una linguaccia al fratello di nascosto e prese a scartare l’involucro elegante.
 
Una bellissima custodia per violino di pelle nera si presentò agli occhi dell’ammirato bambino.
 
Fece scattare le due argentate chiusure a gancio e sollevò il coperchio: un superbo violino di legno rossiccio era adagiato in un letto di velluto rosso.
 
Un piacevole odore di legno si diffuse nella stanza: Sherlock – adulto – poteva sentirlo benissimo. Quello era stato il suo primo amatissimo violino personale e si sentì scaldare il cuore nel rivederlo.
 
- Grazie, mamma! – esclamò il piccolo Sherlock, emozionato. – E grazie, Mycroft – aggiunse, lasciandosi scappare un sorrisetto in direzione del fratello.
 
Avrebbe voluto saltare al collo della madre e abbracciarla forte, ma aveva timore dello sguardo severo del padre.
 
Fu lei però a lasciare il fianco del marito per abbracciare il suo figlio prediletto.
 
Arthur rimase impassibile e Mycroft distolse lo sguardo, geloso. Ma la madre rivolse anche a lui una piccola carezza sul capo.
 
Il consulente investigativo si sentì salire un pizzicorino agli occhi mentre provava a ricordare la sensazione di quando veniva abbracciato da sua madre; quando lei era ancora giovane e felice.
 
Ma lo Spirito – del quale aveva quasi dimenticato la presenza – gli afferrò stretto un braccio e la scena che Sherlock aveva di fronte mutò.
 
Erano in un luogo pieno di bianco che Sherlock riconobbe immediatamente: una stanza d’ospedale.
 
Un letto asettico era il fulcro dell’attività della scena, pieno di persone in abito scuro come se fosse stato un formicaio.
 
Voci confuse riempivano lo spazio vasto dedicato a quell’unico giaciglio.
 
- Via! Via! Andate tutti via! – quasi urlò una voce giovane e arrochita dal pianto e dalla rabbia. – Siete solo delle sanguisughe! Il testamento non si leggerà di certo qui e io non ho bisogno di voi! -
 
Dalla piccola folla si distinse una delle uniche tre figure colorate fra i tanti vestiti di nero.
 
Temperance Holmes, nonostante la piccola statura, sembrava sovrastare su tutti grazie al suo maglione verde e alla sua rabbia piena di dolore; e le voci si spensero all’istante.
 
- Andate via – ribadì, distrutta. – Qui resteremo solo io e i miei figli, com’è giusto che sia -.
 
Tutta la sfilza di parenti più o meno lontani iniziò a uscire in processione dalla stanza, passando davanti a Sherlock e allo Spirito, sempre compito e silenzioso, con le immagini veloci sul suo petto cangiante.
 
Sherlock udì il commento inacidito di una che riconobbe come una pro prozia: - Morto il giorno di Natale! Arthur Holmes è riuscito a rubare l’attenzione anche a Gesù bambino! –
 
La bisbetica che le stava accanto, chiudendo la fila, ridacchiò. – Che se lo tenga, quella sgualdrina di sua moglie. Lo sanno tutti che lo ha sposato aspettando questo momento –
 
Sherlock, in moto di risentimento, fu tentato di rivelare a tutti i presenti le frustrazioni segrete di quelle due zitelle, in ordine alfabetico**. Ma nessuno avrebbe potuto udirlo, così si concentrò nuovamente sul letto.
 
Al capezzale del corpo senza vita di suo padre c’erano lui, un Mycroft diciottenne e sua madre. La giovane donna che aveva visto nel ricordo precedente era l’opposto di quella che osservava adesso.
 
Il volto era magro così come il resto del corpo e aveva pesanti borse sotto gli occhi. La malattia aveva consumato lei insieme al marito – di dieci anni maggiore dei trentotto di Temperance – e in quel momento l’unica differenza fra i due volti cadaverici dei coniugi Holmes era che l’una respirava, l’altro no.
 
Temperance chiuse la porta della stanza con delicatezza, a contrasto con la sua rabbia di un attimo prima, e si sedette accanto al letto. Allungò le braccia, con gli occhi chiusi, e il piccolo Sherlock, gli occhi arrossati dal pianto – uno dei pochi - andò a sedersi sulle sue ginocchia. Stette però attento a non gravarle addosso col suo – misero – peso, perché aveva la sensazione che la madre avrebbe potuto spezzarsi da un momento all’altro.
 
Poi Temperance guardò il figlio maggiore, il quale si manteneva rigido, a schiena dritta, col volto solcato da una lacrima solitaria – l’ultima -. Quello scongelò la propria posa per andarsi a posizionare alle spalle della madre, mettendole una mano sulla testa, in una tacita carezza sui capelli rossi identici ai suoi.
 
Sherlock ricordava bene che rimasero in quel modo per almeno un’ora, a fissare il volto del grande, ricco e intelligente Arthur Holmes, deceduto il 25 Dicembre 1986.
 
- Spirito, basta – provò ad ordinare il consulente investigativo, sentendosi di nuovo afferrare per il braccio.
 
Ma quello quasi rise in risposta. – Non ancora, Sherlock Holmes. C’è un ultimo Natale che voglio portare alla tua memoria – annunciò, con la sua strana voce, bassa, melodiosa e lontana.
 
Sherlock sapeva quale sarebbe stato, quel Natale. E avrebbe voluto assestare un pugno a quel viso misterioso coi tratti di suo fratello.
 
Avrebbe preferito di gran lunga fuggire – morire -, piuttosto che rivivere quel ricordo. Ma quello era un sogno e, nonostante ne avesse fatti ben pochi nella sua vita, lui sapeva che dai sogni non si poteva fuggire.
 
Contrariamente a tutte le precedenti scene, si trovavano all’aperto.
 
Una brezza frizzante mischiata a fiocchi di neve colpì Sherlock in pieno viso.
 
Erano al cimitero e nevicava, il Natale antecedente a quello corrente.
 
Sherlock abbassò lo sguardo e trovò una lapide di marmo nero e lucido, col proprio nome inciso.
 
Fece un passo indietro e girò il volto di novanta gradi: poteva scorgere la propria figura slanciata da dietro un cipresso a poca distanza.
 
Lui, se stesso di un anno prima e lo Spirito attendevano una sola persona in quel cimitero deserto: e i passi ovattati di John Hamish Watson non tardarono a farsi sentire, mentre arrancava fra la neve fresca.
 
Il dottore si fermò davanti alla lapide, così vicino allo Sherlock-ombra che questi poteva avvertire il calore.
 
- È il terzo Natale senza di te – sentenziò John ad alta voce, come se Sherlock lo udisse sotto quei due metri buoni di terra ghiacciata, sigillato nella sua nera - e vuota - bara. – Mi… ci manchi. Molly mi ha regalato tre libri deprimenti, Lestrade una bottiglia di vino e la signora Hudson un maglione. L’ho indosso adesso… lo odieresti. Ha renne e abeti ricamati sopra. Ne avresti già fatto legna da ardere, suppongo -
 
Il viso di John venne smosso da qualcosa simile a un sorriso, che però venne subito cancellato; non si ride in due casi: davanti a una scena del crimine*** e al cimitero. E poi John non era dell’umore adatto per ridere, da circa tre anni a quella parte.
 
Sherlock, accanto a lui, sorrise davvero: non aveva mai udito le conversazioni che John aveva davanti alla sua tomba, limitandosi a guardarlo da lontano.
 
Poi John si porto una mano al viso e sembrò stremato, esausto.
 
Ed era stato allora che lo Sherlock dietro il cipresso aveva istintivamente mosso un passo, calpestando un rametto secco, provocando un rumore quasi assordante nel rigoroso silenzio del cimitero.
 
John si era voltato di scatto, vedendo un lembo di cappotto nero svettare contro la neve candida. Poi si erano messi a correre entrambi, l’uno fuggendo da un pericolo che avrebbe mandato a monte tre dolorosi anni di lavoro, l’altro scappando pure, da un terribile incubo.
 
Ma Sherlock riuscì a nascondersi dentro una rimessa per gli attrezzi del giardiniere, inutilizzata in quel periodo.
 
E John camminava alla cieca, mentre la certezza di ciò che aveva visto sfumava di nuovo nel dolore sordo.
 
E Sherlock – dentro la rimessa e fuori sotto la neve, accanto al sadico Spirito – sentì quel dolore pure, che raschiava le pareti del suo cuore svuotato, che pompava sangue per il puro – e cattivo – gusto di farlo. Perché essere morto davvero sarebbe stato più semplice e più definitivo.
 
- Sherlock! – gridò John, con le guance arrossate per il freddo, per l’imbarazzo, per la delusione. – Sherlock, torna. Torna! Non ha più senso, non ha più senso… – quasi invocò, mentre la voce andava a sfumare in un unico, silenzioso e straziante singulto.
 
E lo Sherlock-ombra ricordò di essersi avvolto le braccia attorno alle gambe, seduto sul pavimento di legno della rimessa, per costringersi a non correre fuori a rassicurare John. Ricordò di aver pianto. Ricordò di essere rimasto irrigidito in quel modo finché non aveva sentito John allontanarsi e il cuore tornare a battere in modo meno doloroso.
 
Ma adesso Sherlock poteva vedere anche il volto di John e, nonostante ormai fossero di nuovo insieme e quel lungo periodo di sofferenza era terminato, si sentì nuovamente spezzato in due, come allora.
 
- Tu non sei uno Spirito – sputò contro l’impassibile essere grigio tempesta. – Sei solo una proiezione onirica, particolarmente stronza e sadica, lo ammetto, ma solo questo. Dimmi come posso svegliarmi. Adesso – ordinò a denti stretti.
 
- No, e per due motivi: primo, perché questo non è un sogno; secondo, perché meriti di vedere tutto questo – lo provocò.
 
E le immagini sul suo petto furono sorprendenti: volti.
 
Temperance Holmes distrutta dal dolore, poi Mycroft da ragazzo, poi John, poi suo padre. E ancora sua madre, Mycroft, John, suo padre. E ancora e ancora, sempre più veloce.
 
- Basta! Smettila! – gli intimò Sherlock, incapace di chiudere gli occhi.
 
Ma lo Spirito non accennava a voler smettere quella piccola tortura. E allora Sherlock afferrò l’ombrello dalle sue mani e lo aprì sopra la sua testa: le immagini cessarono, lasciando trasparente il corpo dello Spirito.
 
Il consulente investigativo si sentì soddisfatto per un attimo, prima di vedere che lo Spirito sorrideva fetente.
 
E un vento non reale ma prepotente sollevò Sherlock, aggrappato stretto all’ombrello.
 
Quel vento sovrannaturale turbinava, sbatteva, percuoteva e urtava l’unico consulente investigativo del mondo, facendogli perdere sempre più la presa dal manico dell’ombrello.
 
Scivolava, sentiva le dita cedere… e cadde.
 
Una caduta lunga, surreale e terrorizzante.
 
E Sherlock si ritrovò aggrovigliato fra le lenzuola del proprio letto.
 
Si districò in fretta da quel nido, balzando in piedi, col battito accelerato.
 
Rimase immobile per qualche minuto, spaesato e incredulo.
 
Ma era stato solo un sogno. Un vivido, spaventoso… sogno. Ed era finito.
 
- Ovviament… - provò a dire, per tranquillizzarsi; ma un rumore dalla cucina interruppe il suo mantra.
 
Un rumore insolito che gli fece sospettare che tutte quelle scemenze erano solo all’inizio.
 
Ovviamente. mormorò mentalmente la sua parte più codarda.
 
 
 
*No, non sono pazza, questo nome esiste davvero e mi ha particolarmente ispirata per lei! xD
 
**Piccola semi – citazione dal film “Sherlock Holmes”.
 
***Citazione da “A study in pink”, ovviamente.

****In realtà sarebbe "cirrosi epatica", ma si può dire in entrambi i modi. Per chi non lo sapesse, è una malattia al fegato che, se non curata subito, può anche portare alla morte, ed è principalmente dovuta all'abuso di alcool, appunto.
  
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