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Autore: northernlight    07/02/2013    4 recensioni
‘Dio, non avete capito un cazzo di me, tutti quanti’ li accusò mentalmente ‘solo lei capisce, lei. Lei che è come suo figlio. Se ci fosse stato Dom a tenermi a galla in questa merda mi avrebbe solo detto buongiorno e non mi avrebbe fissato come state facendo voi ora’.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Christopher Wolstenholme, Dominic Howard, Matthew Bellamy, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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(cornerstone in anticipo)
sono consapevole che non sarà una storia gradita a tutti,
ma ce l'avevo in testa da un po'
e volevo buttare giù qualcosa e questo è il risultato.
non odiatemi.
è stato abbastanza tosto scriverla, ma Showbiz e la rabbia dei Muse in esso contenuta
è stata ispirazione e manna dal cielo.
ovviamente tutto ciò non è reale e spero non lo sia mai,
non potrei mai vivere senza di loro in carne, ossa e disagio puro.
grazie a chi terrà duro e arriverà fino in fondo.
ah e prima di leggere, aprite i link sotto i titoli, vi ringrazio.
vi voglio bene.



Eternally missed, capitolo I.
(aprimi prima di iniziare a leggere)




I soffitti bianchi hanno sempre qualcosa di interessante quando succedono cose terribili, come se fissandoli abbastanza a lungo e altrettanto intensamente essi possano rivelarti il mistero della vita.

Vita.

Anche solo pensare a quella parola gli fece venire i brividi lungo la schiena e così si girò distogliendo lo sguardo dal profetico soffitto bianco della stanza in cui si trovava. Era lì a Teignmouth da un’eternità. No, non era vero, sapeva benissimo da quanti giorni era segregato lì dentro: otto giorni.

Che numero strano che era l’otto’ pensò distraendosi un attimo ‘era a metà strada, l’otto, né cinque e né dieci e se messo in orizzontale ti dà il simbolo dell’infinito.’

Infinito come il tempo e la vita che credeva di avere a disposizione e invece era tutto finito, da otto giorni, dal momento in cui lui era andato via portando con sé tutto l’infinito che avevano davanti. Passarono altri interminabili minuti o forse ore o forse giorni, nel dormiveglia dove tutto era molto vago e confuso. Qualcuno bussò svariate volte alla porta, forse era Kelly che col suo fare così dolce e materno lo portò a desiderare che uno dei suoi bambini iniziasse a piangere così da distoglierla da lui e l’avrebbe lasciato in pace. Si stava comportando da egoista e lo sapeva, lo sapeva benissimo come loro sapevano che quello era il suo modo di affrontare il dolore, la perdita e la sofferenza. Dovevano saperlo, dannazione, erano la sua famiglia, i suoi migliori amici.

Se solo Dom...’ iniziò a pensare ma, grazie a dio, lo scorrere dei suoi pensieri fu interrotto da qualcuno che bussava.

“Matt, amico..” sussurrò una voce maschile da dietro la pesante porta di legno bianco.

Oddio, no’ pensò nel panico più assoluto ‘tutti ma non Chris, non lui!

“Matt, amico, dammi un cenno di vita, ti prego” sussurrò il bassista. Matt rimase in silenzio, finché non sentì Chris scivolare a sedere dietro la porta poggiando la testa contro il legno, sospirando amaramente.

“Okay, rimarrò qui finché non mi darai segni di vita. I bambini sono ancora a letto e Kelly sta aiutando Kate a preparare la colazione per tutti..anzi, più che altro è Kate che sta aiutando Kelly, ma a divorare tutto ciò che trova! Col pancione le vengono le voglie più strane, lo sai
” confessò il bassista. Matt sorrise a quell’affermazione, Kate gli mancava molto. Si alzò ignorando volontariamente l’abito nero, che non avrebbe mai indossato, poggiato sulla sedia accanto alla porta e scivolò a sedere anche lui, probabilmente nella stessa posizione dell’amico. Chris tirò un sospiro di sollievo udendo dei rumori provenire dalla stanza.

Bene, almeno non si è impiccato con la cravatta’ pensò il bassista ma alla fine chiese: “Ti sei vestito?”

Non ottenne risposta e lo interpretò come un no.

“Dovresti farlo, non puoi venire conciato come un barbone. So che Kelly e Kate sono andate a casa di tua madre a prenderti l’abito e so che è anche in quella stanza adesso, con te” disse e, ricevendo solo silenzio in risposta, lo prese come un invito a continuare “Dovresti uscire di lì, farti una doccia e indossare quell’abito, Bells..”

Bells.
Cazzo, perché l’ho chiamato così? Sono un coglione’ pensò Chris dandosi una pesante manata sulla fronte nell’udire un rantolo soffocato dall’altro lato della porta; Matt fissava il nulla davanti a sé.

Bells.
Come suonava male detto da Chris! Non che non l’avesse mai chiamato così, però era diverso. Non era la voce giusta, non era il momento giusto, non era la persona giusta.

Bells.
Non era lui, né Kelly e né Kate e né Tom, che non vedeva e sentiva da giorni, a doverlo consolare. Non era mai stato così, non erano loro a farlo ragionare, non erano loro a tirarlo fuori dai pasticci o a salire in camera tua al buio, dalla finestra, per poterti abbracciare e tenere compagnia quando i tuoi litigavano nella stanza accanto prima di dormire.

Bells.

Era... era tutto così sbagliato. Poggiò la testa sulle ginocchia, circondandosi con le braccia e iniziò a piangere. Gli faceva male il petto nel vano tentativo di soffocare le lacrime, di buttare giù il dolore, di ingoiarlo come aveva fatto per anni, di subire ancora e ancora e ancora. Cercò di ricordare l’ultima volta che aveva pianto ma non ci riuscì. Non piangeva quasi mai, distruggeva tutto, quello sì ma non piangeva. Decise di far risalire il suo ultimo pianto alla fine della storia con Gaia, qualche anno prima. Erano in Italia, nel mezzo dell’ennesima litigata per cose futili. La sua donna gli si avvicinò, dicendogli le peggior cose che si possano dire alla persona che ami e gli strappò dal collo il ciondolo che lei gli aveva regalato qualche anno prima: un plettro, il plettro che Matt aveva regalato a Gaia la prima sera in cui si erano conosciuti dopo un concerto, all’after-show organizzato dalla sua crew. Era l’unico plettro con la serigrafia MUSE in rilievo, nero, semplice, leggermente glitterato e vi era particolarmente affezionato tanto da regalarlo a quella ragazza, quella ragazza che non sapeva mezza parola in inglese, quella ragazza con due enormi occhioni in cui lui si era perso. Lo prese come un segno del destino, raramente si concentrava sugli occhi delle persone, preferendo le labbra o le mani, e perciò le regalò il plettro di impulso. Offuscato dalle lacrime ricordò che dopo avergli tolto il ciondolo dal collo, lei gli diede un bacio sulla guancia e, piangendo, gli chiese scusa e andò via. Matt decise che era troppo, fece le valige e disse addio all’amore della sua vita, alla donna che l’aveva salvato, alla donna che riusciva a portarlo tra le stelle e a spingerlo nell’abisso più scuro con una semplice parola. Sì, anche se non aveva materialmente pianto, quello era stato il momento più doloroso di tutta la sua vita fino a quel momento, momento in cui...

“Matthew, figliolo, ti prego, puoi venire fuori da quella stanza?” una semplice e disarmante frase lo riportò alla realtà. Era la mamma di Dom e per un istante si chiede che ci facesse lì.

Cretino, sei a casa sua e ti sei barricato nella vecchia stanza di suo figlio. Cosa ci fai tu lì, non lei!’ disse a sé stesso Matt.

“Matthew, Christopher è tornato giù. Potresti farmi entrare, per piacere?” ripeté la donna con dolcezza, poggiando la mano sulla maniglia della porta. Matt a lei non poteva dire di no, era sempre stato così sin da quand’erano piccoli. Se Dom lo invitava a casa il pomeriggio dopo scuola e sua madre all’ora del tè tirava fuori una valanga di biscottini, lui doveva mangiarli tutti sennò non poteva tornare a casa e non riusciva mai a dirle di no. Sorrise, ancora tra le lacrime, ripensando a quei momenti. Si alzò, prese un enorme respiro e aprì la porta. Incontrò due immensi, caldi e profondi occhi verdi identici a quelli del suo migliore amico e gli si strinse il cuore, pensava di morire lì sul pianerottolo della vecchia camera di Dom. La signora Howard, che per lui era e sempre sarà la signora Howard, era vestita di tutto punto, impeccabile con nemmeno mezzo capello fuori posto. Portava un’elegante gonna nera nella quale era infilata una camicia bianca, stirata e inamidata che profumava di Dom.

Dom ha sempre quell’odore anche quando è lui a lavarsi i panni’, pensò. 

Era ancora una bellissima donna nonostante l’età e scherzando tutti attribuivano l’eterna giovinezza di Dom, l’unico che a trentaquattro anni sembrava ancora averne venti, ai geni ereditati dalla signora Howard. Si fissarono negli occhi per un tempo che a Matt parve interminabile poi lei gli andò incontro e lo abbracciò. Lui rimase immobile cercando di non respirare il profumo della donna che lo cinse con le sue esili braccia fino a che Matt non ricambiò l’abbraccio. Inalò profondamente quell’odore e ricominciò a piangere.

“Ssssh, Mattie, andrà tutto bene, stai tranquillo” sussurrò la signora Howard al suo orecchio e prese ad accarezzargli la testa.

“Ti sporcherò tutta la camicia” disse lui soffocato nel suo abbraccio. Le diede del tu, cosa a cui Matt aveva acconsentito solo dopo tanti anni di frequentazione di casa Howard.

“Non importa, Mattie, ne ho un’altra, puoi piangere quanto vuoi” disse lei continuando ad accarezzarlo.

“Non sto piangendo...” provò a dire Matt, tra un singhiozzo e l'altro.

“Sssssh” ripeté lei. Lo allontanò un attimo da sé e lo guardò negli occhi ormai rossi “che ne dici di entrare?”

Matt si asciugò rapidamente gli occhi e le fece spazio per entrare, accostando la porta subito dopo che lei entrò. La guardò torcersi le dita delle mani dall’ansia, dal dolore, guardando la vecchia stanza di suo figlio e guardando i suoi poster, la sua prima batteria, i suoi vestiti. Poi il suo sguardo cadde sull’abito nero di Matt nell’angolo.

“Non lo metti?” chiese al ragazzo indicando il vestito. Matt scosse debolmente la testa distogliendo lo sguardo dalla gran cassa di Rage, la batteria rossa di Dom.

“Perché?” chiese lei nuovamente sedendosi sul vecchio letto del figlio.

“Perché non ci vengo” disse secco il cantante. Si accorse di essere stato troppo duro nel dirlo e perciò andò a sedersi accanto a lei sul letto stringendo la t-shirt dei Beatles di Dom. Lei poggiò la sua mano sulle diafane mani del ragazzo che tormentavano il collo della maglia.

“Voglio dire” proseguì lui “non voglio venirci con quello addosso. È così... così triste.”

“Aspetta, ho un’idea” disse lei balzando in piedi e dirigendosi verso l’armadio nella stanza. Dopo aver rovistato un po’, tirò fuori una sacca di quelle lunghe e nere che contengono gli abiti che si mettono poche volte, aprì la cerniera provocando una risatina da parte del cantante.

“Oddio” disse stupito Matt “perché diamine quel coso è qui?” chiese Matt parecchio stupito. Nella lunga sacca nera c’era il suo abito di Wembley, quello rosso, quello rosso con cui lui aveva suonato nel concerto più importante della sua vita, con i suoi migliori amici di sempre.

“Beh, so che Dom ci aveva messo lo zampino nella creazione di questo abito” affermò la donna sorridendo. 

Ha anche il suo stesso sorriso’, pensò Matt con una fitta al cuore. Le andò incontro mentre lei tirava fuori l’abito dalla sacca.

“Sì, dannazione, ha sempre adorato questo vestito! Ricordo ancora quanto ha stressato Sophie per poterla aiutare a crearlo e alla fine lei ha acconsentito, più per esasperazione che per altro” disse lui riprendendo un po’ di sorriso e colorito “pensa che io volevo solo un abito nero e da nero si è trasformato in rosso, stretto, con quella bellissima giacca.”

“Mettilo, Mattie, mettilo oggi” lo interruppe lei improvvisamente.

“C-cosa?”

“Mettilo, ti prego
” implorò la mamma di Dom. Si guardarono negli occhi e Matt vide solo dolore e gratitudine per un piccolo gesto che avrebbe potuto alleviare le sue sofferenze.

“M-ma è rosso!” disse lui.

“E quindi?”

“Non ho una maglia da mettere, la camicia non ci sta bene lì sotto” piazzò una scusa su due piedi.

“Ti scoccerebbe mettere una sua maglia?”

“N-no, non penso.”

“Ecco, allora” disse lei porgendogli una maglia bianca di Dom “dovrebbe starti, avete più o meno la stessa taglia.”

“Ma io sono ingrassa-...
” 

“Sta’ zitto, Mattie, sei identico a come quando avevi vent’anni!”

“Ma magari! Sono ingrassatissimo, guarda!” disse lui afferrando i rotoletti di ciccia tra indice e pollice. La signora Howard rise con lui, per un attimo l'atmosfera nella stanza parve alleggerirsi. 

“Va’ a farti una doccia. Sono tutti impegnati con la colazione perciò non incontrerai nessuno” disse.

“Non... io non... ”

“Mattie, ho bisogno di te oggi, ho bisogno di te per superare tutto questo.”

“Sicura che il rosso vada bene? Sono stanco di sentirmi dire cose dietro”

“Fregatene, te ne prego! Anzi, sai che ti dico? Vado a mettere anche io qualcosa di rosso!” pronunciò uscendo dalla stanza. Non aveva mai amato così tanto la mamma del suo migliore amico come in quel momento. Solo lei poteva capire, solo lei poteva comprendere come si sentiva. Matt prese l’abito rosso di Wembley e si affacciò nel corridoio, l’aria era fresca e non stantia e di chiuso come quella nella stanza. Respirò a pieni polmoni e si diresse in bagno prima di iniziare a piangere di nuovo. Aprì l’acqua della doccia e osservò immobile lo scrosciare dell’acqua. Improvvisamente iniziò a ridacchiare sommessamente e istericamente: quant’era ridicolo essere lì, in quella casa a prepararsi per il funerale del suo migliore amico, per il funerale di Dom?


 
 

 
  
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