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Autore: clakis    19/02/2013    0 recensioni
Lo sconosciuto mi guardava come se avesse visto il sole per la prima volta. E in fondo era proprio così, Luca non ricordava nulla del suo passato e alla vista di Alice il suo cuore si riempie di un sentimento del tutto nuovo e sconosciuto e si sente come un neonato che messo al mondo inizia a scoprire ogni piccolo dettaglio di ogni cosa. Alice si è persa nel mondo, Luca non ricorda nulla di tutto ciò che lo circonda. Due cuori soli e persi non devono ritrovarsi prima o poi?
Genere: Romantico, Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Terzo Capitolo: Solitudine.

Alice.
Essere stata in coma per una settimana e due giorni è davvero un’esperienza da non rifare. Mi sono sentita come un pesce fuor d’acqua a vagare in uno spazio temporale senza colori né persone, completamente sola. Ogni giorno rimanevo seduta su quel bianco ad ascoltare le voci di qualche parente o amico che mi veniva a trovare, tutti con la consapevolezza che una buona parola mi avrebbe rimossa da quel mondo incolore in cui ero caduta. La voce di mia madre era un susseguirsi di parole dolci e scuse per tutto quello che si rimproverava di aver fatto. Le quattro stronze che mi avevano mandato in quel letto di ospedale non si erano fatte vive e chissà dov’erano finite anche se non m’importava affatto. Al quinto giorno avevo ricevuto visite da quasi metà del paese e per un po’ mi sentì felice di ricevere tutte quelle attenzioni anche se sapevo erano dovute solo al mio stato malconcio e quasi morto. Al nono giorno cercai con tutte le mie forze di varcare all’indietro quella stanza e di diventare tutt’uno con il mio corpo. A mio malgrado ci riuscii e grazie al cielo potevo avere il completo possesso di ogni mio arto. Quando aprii gli occhi che mi sembrarono due serrande pesanti vidi tutto ciò che mi aspettava da molte ore: un pizzico di vitalità e di gioia che mi era mancata da molto tempo. Sette ampi sorrisi attraversarono la stanza per venirmi incontro e il mio cuore avviò un processo di felicità mai avuto prima. Per la prima volta in vita mia mi sentì entusiasta di vivere. Mi tartassarono di domande confuse e quasi senza senso almeno per quello che riuscivo a comprendere da quel frusciare di parole emesse tutte in una volta. Cercavo di sorridere a tutti e di abbracciare debolmente i miei parenti e qualche amica della pallavolo. Iniziai ad essere stanca e le parole che si scambiavano in quelle quattro mura divennero deboli suoni che sembravano cullarmi in una ninna nanna mai sentita prima. Nella mia mente vi erano un susseguirsi di immagini sbiadite ma un ricordo rinchiuso in fondo al cuore si faceva spazio da solo. Il ricordo di quel viso che dire “bello” è un aggettivo insignificante da dire, in fondo non c’è parola al mondo che possa descriverlo. Non esiste ancora alcuna bellezza che possa fargli giustizia. Quando ,fra l’immensità di quel mare violento in cui ero finita, io ho incontrato il suo viso, il suo corpo, ogni singola particella di me gridava “è lui”. Sentivo dentro ogni minima parte di me, dai filamenti aggrovigliati di pensieri fino al bruciare inconsistente dei polpastrelli, la consapevolezza di conoscere, o aver conosciuto il ragazzo dalla bellezza sovrumana. Anche i suoi occhi di quel color lapislazzuli mi erano famigliari come le coperte della sera, come il calore dell’abbraccio di mia madre o l’odore di mio padre. Ma non avevo la minima idea di come lo potessi conoscere, non avevo nessun ricordo nitido di quel viso ed ero sempre più consapevole che una bellezza del genere ti rimane impressa nella menta, non la scordi più. Eppure.. sentivo il bisogno di avere le sue spalle forti intorno alle mie spalle perché sapevo che erano lì che dovevano stare, era quello il loro posto. Logicamente non potevo avere quei pensieri così strani che quasi mi spaventavano, non potevo farmi film mentali su un ragazzo che avevo visto per una decina di secondi e mi era rimasto impresso così violentemente.. forse perché mi sentivo così sola da lasciare che uno sguardo così dolce e profondamente sincero entrasse dentro di me a colmare quel vuoto insistente che sentivo? Forse perché restando sola per così tanto tempo sentivo il bisogno di avere qualsiasi persona accanto? Se fosse stato così non mi sarei avventata anche su quei due rammolliti che mi venivano dietro come cani bastonati? Non sapevo rispondermi e le domande sembravano crescere dentro di me, come se avessero trovato spiragli di uscita dalla crepe del mio cuore distrutto. Ero troppo nervosa per prendere completamente  sonno, per viaggiare nella quiete del mio animo e scoprire posti che la mia mente mi avrebbe imposto di vedere, situazioni che non potevano sfuggirmi. In fondo ,quando sogni, nessuno può modificare ciò che la tua mente ti vuole fare ricordare o riflettere . La stanza era riempita dal suono odioso e insistente del bip monocorde di un apparecchio e l’odore ospedaliero era incollato in qualsiasi oggetto dentro le quattro mura, era odioso e mi pungeva il naso. Immaginavo a occhi chiusi la presenza del ragazzo “delle acque” accanto a me, lo facevo perché volevo tranquillizzarmi, sperare che il mio pensiero volasse fino a lui e che se ne accorgesse che lo desideravo tanto come quando da bambina guardavo la nutella troppo alta nello scaffale e con gli occhi e con il pensiero speravo che scendesse e volasse verso di me. Ma il vasetto rimaneva lì, incollato nel suo modo inesistente e senza emozioni, un mondo fatto di vasetti e di scatoli chiusi che nessuno filava fin quando non si accorgevano che erano scaduti e gli buttavano come se niente fosse. A casa mia era sempre stato così, a mia madre piaceva comprare tante cose perché pensava e desiderata creare tante bontà per mio padre in modo che il suo viso spento e serio si trasformasse in un sorriso sbiadito. Ma quando tornava a casa e chiedeva a mio padre se avesse fame , lui senza incontrare il suo sguardo gli rispondeva un no secco e brusco e l’aria gelida che oltrepassava il cuore di mia madre si spingeva verso di me fino a diventare una poltiglia di sentimenti negativi e oscuri verso mio padre. Con il passare del tempo la tensione era aumentata e alla fine, grazia a Dio, mia madre decise che non voleva buttare la sua vita seguendo un uomo che non amava più, un uomo che pensava soltanto al suo lavoro e non si degnava nemmeno di salutarmi quando rientrava a casa. Un uomo che pensava che fossi comprabile con una banconota da 50 euro che lasciava nella mia scrivania quando arrivata al limite della sopportazione di quel silenzio spoglio che copriva ogni cosa, uscivo di casa con gli occhi gonfi di lacrime e vagavo da sola nella città. Non desideravo altro che uscisse per sempre dalla mia vita e quando il mio desiderio divenne realtà lui rimase impassibile di fronte agli scatoloni e alle valigie buttate a caso per terra. Non gli importa niente di noi, le uniche donne della sua vita. Così era stato facile rimuoverlo dalla mia vita e trasferirmi in un’altra città, lontano dal suo profumo che sembrava circondarmi sempre in qualsiasi posto. Mia madre non era più uscita con nessuno, aveva deciso di dedicare la sua vita alla sua unica figlia e di riiniziare tutto da capo, riprendendo gli studi e laureandosi come avvocato. Quel vuoto che mi aveva sempre accompagnato fin da bambina, quel vuoto che faceva puzza di troppo silenzio e ansia dei muri della mia vecchia casa, aveva contribuito a farmi diventare la donna che ero adesso, una donna che non riesce ad aprirsi con nessuno, una solitaria senza amici ma con la consapevolezza che se non volevo sentirmi così tanto sola avevo sempre i miei libi a portata di mano che mi facevano vagare in uno spazio di mondo diverso da quello attuale e rendevano ogni cosa meno drastica. Eppure.. sentivo nel profondo di non essere così tanto sola, di avere ancora l’immagine del viso di quel ragazzo impresso nella mente e immaginarlo lì accanto a me creava una barriera di speranza e di amore che non avevo mai conosciuto prima. Gli occhi incominciarono a diventare pesanti e a vagare verso altri spazi dove potevo esserci solo con la mente e non con il corpo, un senso di pace attraversò il mio corpo e mi ritrovai negli immensi campi celesti dove le nuvole sembravano soffici lenzuoli o zucchero filato. Un sole di dimensioni più piccole del mio pollice emanava raggi che mi infastidivano gli occhi e mi fecero lacrimare. Non riuscivo a vedere niente perché i grossi goccioloni che mi rigavano il viso mi impedivano di vedere qualsiasi cosa ma potevo sentire tutto: l’aria afosa che sbatteva furiosamente contro il mio corpo e sembrava quasi una dolce culla naturale, il suono silenzioso e frusciante del vento che emanava una pace inaspettata e silenziosamente il tocco leggero di una mano che premeva dolcemente la mia spalla che mi fece sobbalzare . Incuriosita dalle emozioni che il mio corpo provava senza nemmeno sapere chi fosse l’artefice di quel tocco, mi girai e trovai a due palmi dal mio viso i suoi occhi , dovetti socchiudere i miei perché tutta quella bellezza mi abbagliava. Il suo viso era esattamente come lo ricordavo, i lineamenti del suo volto che per me erano pura arte e mi sembravano modellati dal più esperto degli scultori, i suoi occhi , il colore delle sue labbra sottili e il suo naso incentrato perfettamente nella sincronia del suo viso. Luca, il ragazzo che avevo osservato dentro le acque, il ragazzo che non potevo in alcun modo conoscere il suo nome ma sapevo nel profondo che era quello . Tutto mi sembrava confuso e il suo sguardo di pura agonia mi fece tremare ogni mia singola cellula. Eravamo a debita distanza e nessun nostro arto osava sfiorarsi perché ero terrorizzata dall’idea che anche solo sfiorandolo Luca potesse volatizzarsi . Solo in quel momento mi accorsi del suo piccolo dettaglio nuovo e inaspettato che mi fece bloccare lo stomaco e rimanere di sasso ..perchè dietro la schiena, all’altezza delle spalle, una lunga scia di petali bianchi infiniti creava una sagoma ben leggibile: le ali. Erano di una grandezza enorme e battevano in sincrono lasciando una scia di scintille luminose. Desideravo vederle da vicino, toccarle per analizzare se fossero così morbide come davano a vedere ma quando cercai di divincolarmi dallo sguardo di Luca e alzarmi sulle punte per stringerlo forte a me, qualcuno mi trascinò via da quel sogno così nitido e perfetto facendomi tornare in quella stanza di ospedale che sapeva di morte.  L’ultima cosa che vidi fu il sorriso dell’angelo che mi entrò dentro paralizzandomi le ossa.
 

6 Settembre 2010
 
Essere tristi, piangere diverse ore  non significa essere deboli, il debole è colui che pur affrontando tante volte il dolore non ne sa trovar rimedio perché ha paura di tutto. Ed eccomi qui, con la mia solita faccia affranta e con la matita che cola, gli occhi lucidi e i goccioloni di acqua salata che mi solcano il viso. Non so perché lo faccio, a volte cerco di tenere tutto dentro: emozioni, tristezza, urla, pianti, parole.. poi arriva un giorno dove magari mi sono svegliata anche con il piede giusto e penso, mi immergo nei filamenti dei miei pensieri aggrovigliati, centinaia e centinaia, e ne pesco uno a caso. Continuo così, con il volto rivolto a soffitto, a farmi male da sola. Lo chiamo puro masochismo e non ne posso fare a meno di aggrapparmi a qualcosa, a qualsiasi sentimento; così mi tengo forte al dolore, al vuoto, alla tristezza, solo per il gusto di provare qualcosa. Non so bene cosa mi spinga a essere così diversa dal mondo, mia madre crede che alla base della mia “diversità” ci sia l’uomo che mi ha creato, mio padre per l’esattezza, perché è convinta che tutto ciò che mi ha inflitto in molti anni della mia vita mi è rimasto imprigionato nelle ossa. È facile dare la colpa agli altri quando non si sa veramente la verità su qualcosa ed è ancora più facile per me staccarmi dal mondo perché credo che io abbia paura. Paura di qualcosa lì fuori.. ma non so ancora bene cosa. Così mi lascio cullare dalla convinzione che il mio malessere sia stato inflitto da mio padre e arrivederci e baci. Ma sento sempre che qualsiasi passo io faccia, ogni direzione che prenda  sia sempre perennemente sbagliata, come se avessi impostato male la direzione del Tom Tom. Spero soltanto che a questa mattina, per l’esattezza il primo giorno di scuola, io sopravviva. 

Scendo di corsa le scale e mi scappa un “ciao mamma” molto più alto che credevo, in fretta e furia indosso la giacca che ho preso in salotto e salto (letteralmente) sulla bici. Questa mattina ho fatto veramente tardi! La strada per andare a scuola è sempre la stessa , mia madre mi prega sempre di prendere il motorino e nonostante ho preso il patentino (con 0 errori ) non lo uso quasi mai (per non dire mai). Con la bici mi sento libera da tutto, posso andare a passo di tartaruga sulla pista ciclabile senza che nessuno mi suoni quei stupidi clacson, e nel frattempo posso perdermi nel guardare le infinità di cose che mi circondano. Dai muri griffati , al cielo coperto di nubi vaporose, le vetrine color ocra del panificio di Susy dove vendono delle cupcake favolose, le macchine che corrono quasi tutte per la stessa direzione a una velocità impressionante, i bambini che urlano, i cani che corrono e l’erba verde altissima.. vedo una miriade di cose, persone che hanno scelto strade diverse, mondi imperfetti e non, gente che non sa ancora quale ponte prendere e ragazzine che hanno già scelto percorsi sbagliati. E poi mi vedo “io”, che non so precisamente in che posto devo stare, cosa voglio essere.. chi diventare. E fino ad oggi ho scelto sempre di essere me stessa e non è mai bastato.  Eccola lì la mia scuola, tre piani di struttura spazzolata di bianco cenere con un giardino inglese che circonda tutto, il mio piccolo inferno personale che ospita più di 500 persone divise per “categorie”: i nerd, le popolari, le bellissime, le secchione, gli strafighi, i giocatori di football, basket, le giocatrici di pallavolo, nuoto, i fan accaniti di Michael Jackson e quelle accanite di Justin Bieber, le sognatrici, le ritardate, le troppo “in carne”.. e poi ci sono io, che non ho mai capito in che gruppo devo stare e nessuno si è mai posto il dovere di dirmelo perché in fondo queste cose bisogna capirle da sé, così sono arrivata alla conclusione che il mio posto è invisibile, un luogo senza colori né forme dove la pace,  la calma sono alla base di tutto e così, silenziosamente, mi dirigo al mio banco vuoto senza nessuno che mi aspetti sulla sedia e che mi sorrida. La prima ora sembra non passare mai, odio dover restare chiusa in quattro mura per studiare, sempre sulla stessa sedia con il sedere in fiamme. L’unica cosa buona è che ho la finestra accanto così quando sono al limite della sopportazione fisso un punto nel cielo e mi perdo nel calcolare i minuti che rimangono alla fine della lezione. Questa volta la mia attenzione si sposta di sotto, dove una folla di ragazzi circondano due tipi dall’aria famigliare. Non so bene il perché il mio cuore sia partito in quarta, la mente mi pulsa e le mie mani tremano; so solo che nel momento che i miei occhi si sono fermati all’altezza del suo viso, della sua pelle bianca e all’incavo del suo collo, io sapevo esattamente chi era ,a  chi apparteneva quel cespuglio di capelli neri e quella maschera da duro. Luca, il ragazzo incontrato solo una volta nella burrascosa marea, era lì, a quasi 1 metro da me. La situazione non mi era chiara.. perché quel ragazzo super muscoloso dall’aria tremendamente familiare lo guardava in quel modo? Come se volesse ucciderlo? Non riuscivo più a guardare, non riuscivo a vedere quei pugni meschini che arrivavano fino alla pancia di Luca e lo tramortivano e ogni colpo era come se facessero male anche a me. In quell’istante capii che stavo trattenendo il respiro ma quando me ne accorsi era già troppo tardi. Tutto cominciava a girare vorticosamente.
L’ultima cosa che vidi fu lo spigolo del mio banco a un centimetro dalla mia testa.  




Con la tua immagine e con il tuo amore, benché assente, sei ogni ora presente.
Non puoi allontanarti oltre il confine dei nostri pensieri, perché noi siamo ogni ora con essi, ed essi, con noi.
-- William Shakespeare

 
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