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Autore: Theredcrest    22/02/2013    0 recensioni
Attorno ad un pianeta lontano orbitano sette lune, sette satelliti che vegliano sulle luci della Città, immenso agglomerato abitato da alieni non troppo diversi da noi. Il fulgore della Città è l'unica cosa in grado di squarciare la vasta desolazione di questo mondo, immerso nelle tenebre eterne. Mentre le lune brillano, la Stella Oscura brucia distante. Le leggende la vogliono in grado di esprimere i desideri, ma nessuno osa farlo all'ombra della sua influenza malsana. Le superstizioni, tuttavia, non fermano un bambino dal farlo, Cor.
E un giorno, molti anni dopo, qualcosa cambia.
Genere: Guerra, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Perché viviamo di desideri irrealizzati, di speranze? É la nostra natura che ci suggerisce di farlo davanti all'insipido vuoto di una vita uguale a sé stessa, del tutto inanimata e priva di emozioni. La familiarità di una ripetitività costante ci rasserena e al contempo ci distrugge, facendoci struggere di sogni e preghiere per un mondo che vorremmo avere, uno scorcio di paradiso realizzato in terra per l'amore di un indefinito altissimo nei nostri confronti.
La verità è che non esiste nessun altissimo, e non c'è amore nel gelido cielo che ci guarda. La fredda logica e la razionalità lo suggeriscono, le uniche entità di cui sappiamo sono le facce di satelliti e pianeti, vuoti crateri che immaginiamo abbiano un alito di coscienza e ci guardino dall'alto, benevolenti, solo perché abbiamo l'inespresso bisogno di ricevere approvazione da qualcosa di superiore e di più bello. Ma qualora ci fossero altri esseri vivi lassù, a parte noi e voi, io credo che essi sarebbero sì superiori, ma freddi e vuoti come lo spazio che li accoglie.
Dovrebbe forse essere altrimenti? Se foste dotati di una mente riflessiva, pensereste a come la vostra mitologia spieghi bene l'interesse degli Dei per le formiche che corrono loro al fianco. Voi stessi non vi preoccupate di calpestare cose piccole e insignificanti, e non accorrete per aver schiacciato accidentalmente un insetto sotto la suola del vostro stivale, o la mano di un vostro rivale. Ed eliminato il comune senso civico, di noi, di voi, non rimane altro che disgregazione e angoscia. E la disperazione, l'ultima barriera prima del crollo sociale.
Mi svegliai di soprassalto, steso di lato, sentendomi braccato da qualcosa o qualcuno. Dovevo essermi addormentato all'improvviso, realizzai notando le luci spente del visore, perché il modello del mio software era programmato per entrare automaticamente in stand-by durante il sonno e non avevo mai disattivato quella funzione. Per quanto ami la luce al pari dei miei simili, alzarsi con una sottospecie di lampada puntata nelle palpebre non fa piacere a nessuno.
Percepivo una presenza posizionata in un punto cieco della visuale, probabilmente al mio fianco, e ne riconoscevo la stessa entità che mi aveva angosciato nel sonno. Nonostante sapessi dove mi trovavo e non mi facessi illusioni riguardo a chi mi circondava, mi sentii discretamente intimorito dallo sguardo che immaginavo avrei trovato a fissarmi non appena mi fossi voltato.
Mi chiesi il motivo di tanto interessamento, o se fosse possibile che uno degli invasori si fosse furtivamente introdotto tra noi per eliminarci uno dopo l'altro. In tal caso, avrebbe dovuto disporre di capacità mimetiche invidiabili o di un aspetto consueto. Inoltre, pensai, non avrei potuto essere l'ultimo, né uno dei tanti infilati nel mezzo, come potevo constatare dal vociare attorno: nel primo caso mi sarei trovato circondato da un silenzio irreale; nel secondo sarebbero risuonati i passi in fuga e le grida di almeno una ventina di persone.
Certo, questo escludendo che simili esseri disponessero della capacità di comunicare vocalmente. Includendola, la prospettiva cambiava percettibilmente: sarei stato circondato dalle voci ovattate di boia alieni pronti a terminare un altro superstite, l'ultimo.
Le congetture non mi avrebbero aiutato, stando immobile col naso nell'erba. Cosa poteva esserci di peggio rispetto alle mie previsioni? Il deserto. Il buio completo. Elenia.
Rabbrividii. Nonostante tutto, poteva davvero esserci qualcosa di peggio.
Lanciai un'occhiata discreta alle mie spalle, scorgendo una figura familiare intenta a fissarmi semi-distesa, e temetti che la mia ultima ipotesi si fosse avverata. In tal caso sarebbe seguito un tentativo di contatto fisico indesiderato - credo che da voi si chiami stupro - a cui non avevo probabilità di sfuggire. Solo in seguito mi rilassai, scoprendo che non era la mia psicopatica consorte ma solo la ragazza assistita dal bambino, la giovane che avevo aiutato e che era rimasta stesa a riposare durante tutto il mio periodo di veglia all'interno della cupola.
Il motivo per il quale mi osservava mi era sconosciuto. Non credevo fosse dovuto alla mia diversità, non era mai stata tanto spiccata da trasformarmi in un animale da esposizione. Piuttosto, poteva essere pura curiosità suscitata dalle circostanze del mio arrivo.
Lo trovai insolito. Senza dati rilevanti non potevo nemmeno tentare di dare un senso a quanto faceva se non valutandolo di persona, quindi mi voltai.
«Ti diverte?»
Vidi la ragazza sobbalzare sul posto, colta di sorpresa, e mi sentii curiosamente contento di averla spaventata. Nonostante questo la sua reazione mi sembrò di molto ridotta rispetto alla norma. Eravamo soli, il piccolo non c'era. Mi diedi da fare per mettermi a sedere, e lei in breve tornò a guardarmi senza una piega da dietro il visore graffiato, facendo svanire del tutto la soddisfazione provata poco prima.
«Mi stai osservando da minuti» feci di nuovo.
Rimase sulle sue prima di rispondermi.
«Ti sto valutando.» Possedeva una voce rauca, femminile ma vagamente meccanica. Distolse lo sguardo e lo riportò subito su di me. «Pargon possiede degli esatti motivi per usarti. Cerco di capire quali.»
Se era uno scherzo, non lo trovai divertente.
«Mentre dormo?» gli chiesi. La sua espressione si dipinse della stessa soddisfazione che doveva aver visto in me.
«Ogni momento è adatto.»
Piegai la testa. Davanti a Pargon avevo inaspettatamente provato emozioni contrastanti, originate dal desiderio di sfidare la sua arroganza e l'autorità che rappresentava senza un motivo coerente. Non riuscivo a somatizzarlo efficacemente, sebbene l'avessi sperimentato più volte. Lei mi confondeva ulteriormente. Non sapevo se provare disappunto o astio in sua presenza. Non mi basai su precise deduzioni per realizzare una risposta come avrei dovuto fare. Era considerata una comune formalità rispondere secondo dati precisi, a meno non si fosse legati da qualcosa di più di una comune conoscenza dell'altro. Ma detto tra noi, a chi importavano le formalità?
«La tua valutazione andrebbe modificata per non violare gli spazi del tuo prossimo. Avresti dovuto aspettare che fossi sveglio. E magari, chiedere.» Rivelai il mio fastidio, freddo e del tutto giustificato. Poi mi sentii un'idiota, accorgendomi che le avevo risposto come avrei fatto ad Elenia. Avevo sbagliato a relazionarmi, le avevo fatto notare il mio livello di differenza.
Piccola parentesi esplicativa: noi e voi abbiamo quasi lo stesso livello di comunicazione. Quasi. Questo significa che quella che per voi mammiferi è una facile risoluzione alla comunicazione verbale, di cui spesso abusate per creare più problemi che risolverne, per noi, evoluti maggiormente sotto il profilo biologico e culturale e societariamente avanti anni luce, è estrema razionalizzazione. Dovendo la nostra vita alla convivenza, solitamente usiamo estrema attenzione: al dialogo, all'intonazione, alle parole. Da qui, la nostra formalità. Forse, tra cento o duecento cicli sarà così anche per voi, se e quando ci arriverete.
L'origine della mia constatazione non aveva motivo di sussistere, se non a livello strettamente personale. Non avrei saputo dire di più. Probabilmente l'avevo anche offesa usando quello scambio informale ma sopratutto irritato, e non osavo pensare ai risultati. Evidentemente, pensai sentendo il suo silenzio, o stava soppesando le mie parole, o ben presto mi sarebbe arrivato uno schiaffo di benservito. Sono ancora un'usanza comune delle nostre donne.
Sul suo visore graffiato, notai comparire un'ombra.
«Errore. Un tipo di valutazione concettualmente corretta si ottiene attraverso un confronto dei dati rilevati nel periodo di sonno e di veglia, senza autorizzazione del soggetto.» Una risposta tecnica, oltretutto esatta.
«Conosci bene i parametri.»
«Conosco molte cose.>
Trovai superflua e inutile quella constatazione. Stava ostentando le sue conoscenze, ed io rimasi così contrariato da decidere, del tutto improvvisamente, di sottoporla ad un test.
«Milletrecento quartz frattale di novecento?»
«Undici milioni di quartz elevati al quinto.»
Un secondo netto, forse due, seguito da un sorriso. Orgoglio, realizzai, guardandola. Come se sapesse già i risultati. L'analisi sui file di testo accessibili dalla memoria centrale del visore partì automaticamente, rivelandomi l'esattezza della sua dichiarazione. Tuttavia, perfino il mio software aggiornato all'ultimo modello ci mise diversi secondi ad estrarla ed elaborarla, più di quanti ne avesse impiegati lei.
Non sapevo come sentirmi, se non come un'idiota al quadrato. Non aveva un visore recente, lo potevo constatare ad occhio. Le uniche opzioni erano che avesse overcloccato manualmente il programma per migliorare il calcolo dati, o che lei stessa fosse un calcolatore biologico. Ma sapendo dell'impossibilità di manipolare il codice sorgente del nostro intero sistema, propesi per la seconda ipotesi. Assieme a quella, intuii che doveva essere una diversa. E lo era, perché come Pargon e me presentava una strana sfumatura emozionale che i nostri simili non riuscivano a comprendere. E non l'avevo mai vista prima dei fatidici ultimi giorni.
Non empatizzai la reazione della ragazza ma risposi ugualmente con un debole sorriso. A sua volta, lei rinforzò il suo. Dimenticai il tono della risposta che le avevo fornito. Mi sentivo confuso, e non sapevo valutare se il momento fosse adatto ad esprimersi in quel vostro antico rituale di corteggiamento che migliaia dei nostri cicli avevano contribuito a trasformare in un'espressione di civile cortesia.
«Il mio nome è Cor.»
«Eon.»
Trovai il suo essere diretta molto confortante. Non credevo gli importasse di sembrare normale. L'arrivo del bambino preposto alla sua cura mi impedì un ulteriore discorso a base di calcoli percentuale e dati.
«Hai completato l'elaborazione?» mi chiese avvicinandosi a noi. Accesi le luci del visore, ma non risposi subito, notando che teneva un abito sottobraccio.
«Ho lasciato il processo nell'area di fondo. É quasi completato.»
«Bene.» Lo osservai avvicinarsi a Eon, rivolto a me. «Ti puoi voltare?»
«Cos'hai in mano?» La mia curiosità dovette prenderlo di sprovvista, o forse lui non era come noi. Mi gettò un'occhiata incerta.
«Una tuta di stimolazione muscolare. L'ha fornita uno dei medici.»
«Non è della tua taglia» commentai. Lui si voltò verso la ragazza.
«No, infatti. É per lei. Quando l'hanno visitata, gli scanner hanno rivelato una forma di atrofia muscolare. Per poter camminare correttamente deve indossarla.»
«L'efficienza a quanto dovrebbe salire?»
«Con l'uso, dovrebbe essere pari alla nostra.»
Lo sguardo di Eon si indurì.
«Non puoi semplicemente voltarti?»
Il ragazzino non aggiunse nient'altro al suo rimbeccarmi. Mi girai come mi era stato chiesto, sconcertato, e preferii concentrarmi su altro. Quindi la sua non era solo una disfunzione caratteriale, ma anche funzionale, biologica. Una condizione considerata tollerabile nella nostra società, a cui si metteva rimedio in ogni modo possibile. Per quello avevamo sviluppato medicine e cure, e sempre per quello erano inizialmente nate le RV, successivamente passate allo scopo che ben conoscevo. Era facile capire perché fosse a terra, durante la mia fuga. Era probabile che fosse caduta.
«Ho fatto.»
La voce del ragazzino mi consentì di ritornare alla posizione iniziale. Eon, con la tuta stretta come una guaina attorno agli arti inferiori e interlacciata al busto e alle piante dei piedi, ben fissata in vita, era seduta per terra intenta a regolare l'intensità dell'elettrostimolazione muscolare tramite le fasce ventrali. Il bambino accanto sembrava particolarmente intento a starle al passo nei diversi calcoli. Osservai per qualche tempo le sue difficoltà prima che il bip del mio visore tornasse a distrarmi, indicandomi l'avvenuta mappatura dell'area. Secondo le informazioni che avevo fornito al programma e le rilevazioni effettuate dalle mie registrazioni, si potevano raggiungere in sicurezza le altre cupole sfruttando una serie di viali panoramici coperti adiacenti alla via principale, abbastanza lontani dalle stringhe di trasporto perché la fornitura elettrica non rappresentasse un ostacolo al viaggio. Riguardo alla presenza di luce, le mie erano solo supposizioni: ero sicuro che le linee di alimentazione collegate alle varie cupole fossero ancora attive assieme alle secondarie, ma non avrei fatto conto su quelle principali. Da quello che avevo visto, la maggior parte era stata danneggiata a partire dalle periferie. Non era comunque un problema insormontabile sul breve periodo, potevamo affidarci alla fotoreattività dei nostri tessuti e alle luci in dotazione ai visori. E nel caso aveste qualcosa da commentare, ricordatevi che quello di avere un sole è un privilegio che non tutti possiedono.
«Qual'è il tuo nome?» mi rivolsi al bambino.
«Dwain.» Aveva rinunciato a seguire la ragazza e ora stava seduto, tenendosi le ginocchia con le mani. Indifferente a tutto e a tutti.
«Io sono Cor.» Parlare coi miei simili non era mai stato un problema tramite l'RV: l'interfaccia completa mi aveva dato tutto quello di cui avevo avuto bisogno, distaccandomi però dal mondo di stimoli e di sfumature presente là fuori. Per cui non mi spiegavo cos'era, adesso, quella strana sensazione di angoscia che mi prendeva al petto mentre scambiavo poche, basilari parole con Dwain. Non le sapevo dare una chiara origine perché non c'era mai stata. Non avevo mai veramente percepito il vuoto che mi circondava. Temporeggiai prima di andare avanti.
«Dwain, trova Pargon. Digli che ho finito col percorso.»
Non riguardava l'invasione, l'imminente viaggio, e nemmeno i possibili pericoli. Era qualcosa di estraneo al semplicistico timore di un evento. Continuai a sentirla mentre Dwain si alzava meccanicamente, allontanandosi alla ricerca dell'uomo, e la sentii svanire non appena fu abbastanza lontano, dispersa nel silenzio calato tra me e la ragazza.
Dopo un tempo indefinito, Eon intervenne.
«Ti sembra anormale?»
Annuii, sforzandomi di guardare l'erba violacea che mi circondava. Parlava del bimbo. Lei proseguì.
«Non l'avevi mai notato prima.»
Scossi la testa, strappando attentamente alcuni dei fili mossi da una leggera brezza temporizzata.
«Sono tutti così, all'infuori di noi. Svuotati. Lobotomizzati. Non sentirti in dovere di imitarli.»
«Imitarli?» alzai lo sguardo dritto su di lei, ribattendo. «Siamo noi i diversi. Dobbiamo adeguarci.»
«Perché dobbiamo?» Aveva smesso di regolare la tuta. «Perché ci dicono di farlo?»
«Perché necessitiamo di protezione.»
Sentii la sua breve risata.
«Sono i normali che vogliono proteggerci da noi stessi.»
«E anche se fosse?» Come con Pargon, iniziavano a prudermi le mani. Fossi stato in RV la mia forma corporea si sarebbe disattivata, percependo intenti violenti, ma senza potevo invece contare solo su me stesso e su tutto quello che andava all'infuori del desiderio di strozzarla. Poco, in realtà. «Siamo un pericolo, incontrollati ed esageratamente emotivi. Potremmo scattare in qualsiasi istante. Distruggere. Mettere fine alla pace. Ma finché ci proteggono, anche se da noi stessi, il nostro popolo non ha bisogno di guerre e armi.»
Il mio discorso era corretto, formulato dai migliori nella comunità per non addossare ai diversi una colpa di cui non avevano controllo, e per far apparire del tutto accettabile la nostra reclusione. Si trattava di preservale l'uguaglianza, i diritti che tutti noi avevamo in comune a prescindere dalla nostra condizione. Era giusto. Ma non lo pensavo davvero.
«Non ci credi, Cor.» affermò Eon, prevedibilmente. Era chiaro a me quanto a lei.
«Ovvio che no.»
Lo ammisi senza sforzo. Pensateci: avevo passato la mia esistenza nella privazione delle interazioni più intime e affettive. Similmente a molti altri, mi avevano sottratto la possibilità di percepire la differenza tra un mondo riflesso composto da connettitori neuronali e sensazioni sintetiche e quello vero, ricco di una terza dimensione che nemmeno la realtà virtuale più aumentata del mondo poteva rendere. E dopo anni di una vita che avevo considerato normale a tutti gli effetti, completamente grigia e ordinaria, ero stato improvvisamente catapultato nel bel mezzo di un'invasione che aveva fatto il bel favore di darmi uno scorcio di libertà che non avrei mai dovuto ricevere. «Ma è per i soggetti incontrollati come te che gli altri ci credono. Grazie per il tuo continuo contributo alla nostra causa.»
Volevo essere cattivo nei suoi confronti. Lei aveva già le sue risposte, lo si evinceva dal modo in cui parlava, mentre io non trovavo le mie. Desideravo sentirmi dire che in realtà non esistevano note stonate, che andava tutto bene dentro e fuori dall'RV. Che era lei a sbagliarsi, che io avevo ragione. Che non avevo passato cicli e cicli paragonabili a sessanta dei vostri anni rinchiuso in quella che il vocabolario avrebbe potuto suggerirmi essere una comoda prigione dorata. Volevo illudermi. Non sapevo come lei avesse passato i suoi anni al Centro Quarantena, ma volevo illudermi lo stesso, e avevo migliaia di motivazioni per farlo.
Eon non rispose. Per qualche momento credetti fosse perché mi riteneva ancorato alla mia personale visione della realtà, un'analisi che mi sarei auto propinato da solo. L'arrivo di Pargon mi fece realizzare diversamente la cosa. Lo vidi salutarla, poi rivolgersi a me con un gran sorriso beffardo.
«Allora straniero, hai terminato il calcolo?»
«Si» commentai freddamente.
«E non me li passi, i dati?»
«Solo quando utilizzerai il mio nome.»
Sbuffò, guardandomi da capo a piedi, ma non ottenne una reazione. Continuai a ignorarlo finchè non ebbi la mia risposta.
«Va bene, Cor. Passami i dati.»
«Cortesemente. Credo di non aver compreso la tua richiesta.»Gli restituii il sorriso beffardo che gli avevo visto stampato in faccia, vedendolo cambiare di colorito. Ci mise del tempo, ma riprese l'uso della parola.
«Cor, passami i dati. Cortesemente.» Evidentemente gli servivano proprio. Soddisfatto, li condivisi creando una rete interna con richiesta di autorizzazione. Accettai la sua; il download della mappatura che avevo eseguito fu talmente rapido che l'attimo dopo Pargon era già intento a consultarla con l'aria concentrata.
«Un buon lavoro» mi fece sapere a consultazione terminata. «Ci sposteremo per i passaggi che ci hai indicato, e in caso di pericolo torneremo qua.»
Annuì, mi sembrava ragionevole.
«Preparatevi» continuò, riferendosi a me e alla ragazza. «Dico agli altri di raccogliere le loro cose e di venire qui, tra poco si parte. E... Eon?» fece, rivolto a lei.
«Si?»
«Non fare la schizzinosa. Fatti aiutare dal nostro straniero.»
Non fece una piega, ed io nemmeno. Annuii in sua vece, prima di vedere Pargon voltarsi e andare a raccogliere gli altri. Quando tornò, lo fece assieme a circa una trentina di persone: qualche normale e un gran numero di diversi. Una fila di facce pallide dietro ai visori dotate di qualsiasi modifica corporea o colore di capelli si potesse immaginare, ma che a differenza della passiva tranquillità delle altre sorridevano, piangevano, tremavano o rimanevano contrariate davanti all'ipotesi di quello che stavamo per fare. Abitatori del Centro Quarantena. Come avevamo fatto a salvarci in così tanti? Era statisticamente impossibile.
Ci dirigemmo verso l'entrata, Pargon in testa, io ed Eon a pochi passi di distanza, passando gli scanner biometrici, seguendo il percorso che avevo progettato per la nostra sicurezza. La calma piatta dell'esterno e il vento reale che si era alzato mi colpirono più che in precedenza, assieme all'assenza di ogni altra forma di vita negli edifici intatti. La nostra Città era popolosa e animata, la nostra razza ne percorreva le strade ad ogni ora espletando le più diverse incombenze. Ora c'era solo vuoto, e un'assenza palpabile. Niente addetti alla manutenzione. Nessun lavoratore, nemmeno i cadaveri. I nostri silenziosi centri di lavorazione e raffinazione non emettevano più il fumo atossico a cui eravamo abituati.
Tenni il visore regolato sulle impostazioni di rilevamento del calore invano durante il tragitto, non riuscendo a registrare tracce che non fossero lasciate da noi. Quando arrivammo alla cupola, percepii un fremito: la struttura era troppo grande per essere controllata con facilità, ma il fatto che all'interno non si percepisse la benché minima concentrazione di calore era un chiaro segno. Come non bastasse, sembrava che nessuno avesse impostato gli scanner biometrici all'entrata, che da accesi avrebbero emesso una quantità di energia rilevabile sulla registrazione.
«Cor, controlla questi scanner» mi chiese Pargon.
In testa al gruppo, tornai alle impostazioni standard, controllando la data della loro installazione. Non era stata registrata, per cui era recente. Lasciai il fianco di Eon e li controllai personalmente da una minore distanza, accertandomi del loro stato di inerzia. Non erano spenti e funzionavano egregiamente, ma non erano stati tarati.
«Possiamo passare senza pericolo» riferii sbrigativamente, tornando a guidare il gruppo assieme agli altri due. Entrammo.
L'atmosfera non era diversa da quella ricreata nella nostra cupola, eccetto il tipo di vegetazione più folta e colorata, macchiata da boccioli luminescenti e variopinti ogni dove che voi avreste definito appartenenti ad un "giardino delle fate". Voi con le vostre candide credenze non potete certo sapere che sul nostro pianeta, a differenza del vostro scialbo e opaco, ogni cosa ha la propria luce. Voi la comprate, sfruttate la vostra terra per poco più di una candela. Non alzate mai lo sguardo e guardate sempre verso il basso. Per questo non avreste potuto notare l'unica nota stonata all'interno dell'intero ambiente, quella che i nostri occhi invece videro subito.
Dapprima non fu facile localizzarla, definirla. Fu Eon la prima a comprenderla nel suo campo visivo.
«Guarda.»
Me la indicò, un'enorme colonna di aghi di cristallo nero che sembravano toccare il notevole soffitto della struttura, piantata con molta probabilità al centro della stessa. Non pensai nemmeno per un attimo che il mio visore potesse valutarne forma e dimensioni, mi era chiaro che eravamo troppo lontani.
«Ci avviciniamo?» mi chiese Pargon.
«Vedi altre soluzioni?» domandai schietto.
«No, in effetti.» concordò. Prima che potessimo fare un solo passo, intervenne Eon.
«Non credo sia una buona idea.» Non sembrava felice di quella scelta, e nemmeno io lo ero.
«Hai ragione, ma possono essere solo lì» risposi.
«Perché ne sei tanto sicuro?» Avrei dovuto dare una motivazione misurata, coi dati alla mano, ma non ne avevo. Il mio visore pareva inceppato quando si parlava di quel monumento. Alzai le spalle.
«É comunque una possibilità. Non credi?»
Si, credeva.
«Ho paura sia la scelta sbagliata.» Conveniva con me, ma aveva... paura. Quella non era una parola che molti di noi conoscevano, nella nostra società. Almeno, non fino all'arrivo degli invasori. La cosa mi sorprese.
«Non possiamo fare nient'altro» intervenne Pargon. Con un sospiro, anche lei annuì.
«Allora andiamo.»
Riprendemmo la marcia, addentrandoci in poco tempo verso il centro. Presto, la consapevolezza che quello non fosse un semplice monumento fatto comparire per sola bellezza mi raggiunse: i contorni frastagliati di un immenso buco si aprivano sulla sommità, e diventavano più grandi mano a mano ci avvicinavamo. I detriti sparsi per terra lasciavano chiaramente intuire la cupola fosse andata in pezzi a causa di un impatto tremendo con l'oggetto, che non poteva essere di semplice cristallo per aver mandato in frantumi un edificio dalla riconosciuta resistenza. A parte quello nulla faceva pensare che le cose fossero volte al peggio: nessun corpo, nessuna traccia. Superammo anche l'ultimo tratto di vegetazione, ritrovandoci in quella che doveva essere l'ipotetica piazza di ritrovo nella biosfera numero due: un deserto nel quale erano conficcate le varie punte della costruzione di cristallo, che aveva sfondato il tetto ed era entrata di lato piantandosi lì.
Ora che potevo vederla, tutto assumeva un senso.
Le sagome che ci avevano attaccato scendendo in picchiata sulla città, procurando boati, panico e distruzione. Avevo pensato che fossero armi, o velivoli, ma comandati da lontano.
Ma guardando le punte che si innalzavano al cielo oltre la nostra biosfera, mi ritrovai a smentire quel pensiero. Erano navi, enormi navi con braccia appuntite e un grosso corpo centrale, di una bellezza aliena e terribile. Navi a forma di stelle di cristallo nero.
Rimasi ipnotizzato, senza riuscire a dire nulla. Una simile visione mi instillava il desiderio di toccarle. Vedere com'erano costruite, diventare parte di loro. Sapevo che il pensiero mi ingannava, che quella voglia era tanto febbrile quanto preoccupante. Mossi diversi passi in avanti, spinto da quella sensazione indefinibile di appartenenza, fino a quando Eon non mi strattonò prepotentemente il braccio, distogliendo la mia attenzione da dov'era riposta.
Mi guardai indietro, perché ero avanzato di molto. Sembravo l'unico ad aver risentito della particolare influenza della nave. Pargon mi guardava come se sul suo visore fosse apparso in sovrimpressione un punto di domanda; il resto della gente non sapeva cosa dire o cosa fare, a parte osservare me. Intuii non avessero il coraggio di avvicinarsi, la ragazza era l'unica che mi aveva seguito per fermare la mia avanzata.
«Cosa ti è preso?» mi domandò
«Non lo so. Io non...»
Venni subito zittito da una mano sulla bocca, la sua. Un contatto troppo diretto e inaspettato da cui arretrai all'istante. Eon non sembrò curarsene, mi riprese per il braccio.
«Ascolta.»
Ascoltai, come mi era stato chiesto, all'inizio senza sentire nulla. Ero sul punto di attivare la visualizzazione sonora del visore, quando iniziai a percepirlo. La nave faceva uno strano rumore, un basso ronzio minaccioso di qualcosa che si era attivato e sembrava lavorare a nostra insaputa. Lentamente, non paragonabile a qualcosa che avessi già sentito.
Ascoltammo, tutti. Ci volle un po' prima che notassi una spia senza nome illuminarsi a intervalli regolari sullo schermo del visore. La selezionai, senza sicurezze su cosa volesse dirmi il computer che stava analizzando la situazione secondo per secondo.
Parole come armi e bombe le conoscevamo, noi, ma solo sul vocabolario, perché appartenevano al nostro primitivo e secolare passato. Ebbene si, più di quattro dei vostri secoli addietro, eravamo un popolo civile almeno quanto voi, con le dita attaccate a quelli che chiamate grilletti, in lotta per un motivo che neanche più ricordiamo. Forse una qualche fonte di energia, come voi, o la semplice supremazia? Non riuscivo a ricordare.
Ma allora, se ci eravamo lasciati quel lontano passato alle spalle, come mai leggevo a chiare lettere illuminate la parola "esplosivo" sullo schermo?
Rimasi fermo senza capire, sentendo l'angoscia, sperimentando per la prima volta quella sensazione che rendeva ogni mio arto pietrificato, morto, incapace di agire. Non era possibile. Qualunque cosa fosse, non arrivava da noi. Di nuovo guardai gli altri, Eon compresa, e di nuovo capii che non avevano la più pallida idea di cosa stesse succedendo. Nessuno aveva in dotazione un software aggiornato? O ero solo io a ricevere un messaggio di natura esclusiva?
Ma quella non era pubblicità.
Le lettere si colorarono di una gradazione di rosso urgenza. Capii che se non avessi fatto qualcosa, come minimo non avrei avuto mai più il tempo per farla. Di tutto il mio corpo pietrificato, riuscii a muovere solo la mascella.
«Fuori.»
Dovevo aver parlato a voce bassa o debole, perché Pargon esclamò un «Cosa?» ed Eon mi strattonò di nuovo la tuta, così forte da riuscire finalmente a sbloccarmi.
«Fuori!»
Finalmente, urlai. Nessuno mi chiese niente, diedero per scontato fosse tutto vero perché nella nostra comunità non esisteva il concetto di dichiarare il falso. Ed era tutto vero. Non so come avrebbero reagito i vostri simili, ma i miei, in una situazione in cui avevo reso chiaro il pericolo, fecero dietrofront e si lanciarono in corsa verso l'entrata. Pargon rimase in fondo, non sapevo se per assicurarsi che tutti uscissero o solo perché era troppo grosso per correre veloce, ma ci diede una spinta quando si accorse che la ragazza al mio fianco non riusciva a scattare normalmente. Anche una bambina di appena qualche ciclo era rimasta indietro.
Non pensai alle conseguenze o alla natura di quello che stavo per fare. La prima volta avevo pensato per me stesso, privato di ogni forma d'empatia dall'RV e dalla calca generale. Stare nella realtà e a vero contatto con altri, ebbi modo di ipotizzare in seguito, probabilmente aveva cambiato qualcosa. Poteva, ad esempio, avermi regalato davvero uno scorcio di quella che nella nostra società veniva definita, a vuoto, unità.
Allungai il braccio e afferrai la ragazza inabile per il ventre, quasi gettandomela a spalla. Eon si dibatté per il primi secondi, impedendomi di mantenere un'andatura regolare, ma avevo mantenuto il mio corpo abbastanza sano durante gli anni passati al Centro da riuscire a tenerla con la forza necessaria. Recuperai anche la piccola, che accettò meglio il passaggio aggrappandosi al mio collo, e accellerai più che potevo, lasciando Pargon indietro. Non potevo fare altrimenti.
Il rumore si acquietò per un momento prima di trasformarsi in un boato tremendo, come il silenzio prima dell'arrivo di un grande tornado. Ero già quasi alla porta quando successe, e non riuscii a capire esattamente cosa stava avvenendo, solo a intuirlo: la nave stava generando un'onda, una grossa onda che aveva lo scopo di distruggere le forme di vita organiche. Non gli edifici, non gli oggetti ma noi. Il motivo dell'assenza di corpi, a cui non avevo mai dato veramente peso.
Abbandonai Eon e la ragazzina sulla porta, voltandomi indietro. Pargon era solo a pochi metri di distanza, che però sembravano un oceano intero in un simile caos. L'onda lo seguiva, creando un'interferenza nella stessa trama della realtà che sfarfallava e si piegava come per effetto di un intenso calore. Il visore però mi informava sulla sua espansione: perdeva potenza, e le misurazioni in tempo reale mi indicavano che si sarebbe fermata allo spazio della cupola e non oltre. Vi gettai una breve occhiata, prima di allungarmi all'interno, tendendo il braccio e tenendomi allo scanner biometrico che in quel momento fungeva da ancora. Non appena mi avesse raggiunto, gli avrei risparmiato quei due metri scarsi di terreno e l'avrei, con un po' di fortuna, tirato fuori, al sicuro. E non lo stavo facendo per coraggio, di questo ero certo, io non volevo morire.
Era qualcos'altro. Non volevo vedere sparire la mia razza, probabilmente, o comunque guardarla estinguersi. Se eravamo solo noi, pensai, in così pochi, ogni elemento perso era una speranza che se ne andava. Il nostro gruppo avrebbe potuto eventualmente sostituire, ripopolare l'habitat. Ma non se rimanevamo in tre, e in balia degli invasori.
Sentii Eon strattonarmi di nuovo, urlare.
«Ci dobbiamo allontanare!»
«No.» Non potevo voltarmi, non potevo mancare il momento in cui il grosso e spaventevole uomo diverso mi avrebbe raggiunto. Mi limitai a rispondere, a scrollare le spalle.
«Non lasciamo nessuno indietro.» Non sembrava una frase da eroe, detta con la sicurezza di chi è indistruttibile. Mentre lei mi tirava il giubbotto della tuta ed io mi aggrappavo a dov'ero, tremavo. Aspettavo che Pargon superasse quei pochi metri, che da dieci erano diventati sette, e che da sette diventarono cinque.
«Dammi un aiuto» le chiesi in quel momento. «Tirami indietro quando lo afferro.»
Mi concentrai, dimenticando per un secondo se mi stesse o no tirando ancora, o se se ne fosse andata. Di certo, non mi aspettavo una grande collaborazione, quindi feci del mio meglio: mi sporsi maggiormente, lasciai in parte la sicurezza del confine della porta, tesi quanto potevo il braccio. L'uomo, nel frattempo, era quasi arrivato a me, e l'onda a lui. Era così vicina che ne potevo sentire i primi effetti sulla pelle scoperta: bruciava. Voi primitivi che siete abituati al sole, sapete quanto male può farvi, vero? Pensate a noi, che mai abbiamo avuto più della luce delle Pleiadi e delle lune.
Riuscii ad afferrarlo, perché finalmente era vicino. Ma il suo essere vicino comportava anche la vicinanza della fine. Quando lo tirai indietro, non ero sicuro di potercela fare, ero instabile, non ben legato all'ancora. Sentii il fuoco sulla pelle ancora prima che arrivasse per davvero.
Due mani mi afferrarono il giubbotto sulla schiena, tirarono trainandoci all'indietro. Tra il mio tentativo di scaraventare l'uomo fuori dalla situazione in cui s'era cacciato e il loro di portarci via dal muro di morte, volammo tutti all'indietro.
Eravamo in tre, ne uscimmo in due e tre quarti: a Pargon mancava un pezzo, l'avambraccio ridotto ad un moncone cauterizzato. Con chissà quale forza, mi rialzai, lo presi per il colletto e lo trascinai via sorreggendo Eon, che ci aveva aiutato. Non capivo più nulla, lasciai che le gambe continuassero da sole senza l'ausilio del mio cervello.
Sentii altri schianti lontani, altri boati. Intuii vagamente che delle nostre biosfere non rimaneva più nulla. Erano andate distrutte, perse per sempre davanti ad una reazione a catena che aveva atteso solo il nostro arrivo per attivarsi. Se qualcuno oltre a noi era rimasto nelle strutture, quel qualcuno non esisteva più.
Solidarietà era una parola che sembrava lontana, adesso. Ma potevamo ancora darne dimostrazione: quelli che erano usciti per primi non avevano continuato a scappare per molto, e quando ci video vivi quelli rimasti più indietro tornarono, avvertendo gli altri. Di Pargon si occuparono immediatamente i medici, mentre Eon si ritirò in un angolo senza parole. Rimasi seduto per qualche tempo, intontito da qualche tipo di ormone dell'azione, prima di raggiungerla portandomi appresso la bimba che mi ero preso in braccio, molto più spaventata di tutti noi.
Non sono mai stato il tipo da consorte, adatto a consolare qualcuno. Elenia lo sapeva. La piccola avrebbe sicuramente fatto di meglio. La lasciai alla ragazza e mi sedetti poco distante, rimanendo ad osservare stancamente i loro scambi, svuotato di ogni forza.
Ci riprendemmo quasi tutti, in sostanza. La ferita di Pargon non era grave, ma non avevamo un innesto meccanico con cui sostituire in fretta l'avambraccio e la mano mancante. Si sarebbe dovuto accontentare di alcuni cerotti antidolorifici auto-somministranti e di una copertura antisettica. Qualcosa per le bruciature, che avevo anch'io, l'avremmo trovato strada facendo, se ancora di strada ne rimaneva.
Fu sul finire di quel pensiero che il mio visore si illuminò. Lo fecero tutti all'unisono, perfino quelli lasciati fino ad ora in stand by.
Il messaggio apparve qualche secondo più tardi, digitalizzato nei caratteri elettronici del nostro alfabeto sugli schermi al plasma.
 
«Sul. Promontorio. Le. Risposte. Aspettano.»


 

Siore e siori, eccomi tornata con taaaaaaaaanta roba! Spero che questo capitolo extralungo vi piaccia, mi ci sono impegnata al massimo e credetemi se dico che è stata una vera fatica in questo periodo mettermi a scrivere. Purtroppo in famiglia ci sono problemi, qualcuno è ammalato, qualcuno urla un po' troppo, qualcuno rompicchia abbastanza... a volte non sono al mio meglio e proprio non ci riesco, non è sempre piacevole scrivere con tutta questa baraonda, ma che ci volete fare, è pur sempre la famiglia! Di buono c'è che ce l'ho fatta, credevo di non riuscire a finire mai questo lungo capitolo. Ora che è qui, pronto, posso dire ufficialmente che siamo quasi alla fine dell'avventura che, si, lo so, è corta, cortissima dati gli eventi e come si stanno evolvendo. Spiace anche a me, ma almeno per una volta forse riuscirò a finire un racconto! E poi chissà che non venga un continuo *gghh* <3 Prima che mi sbrodoli addosso come una bambina, che è tardi e devo andare a ninna sperando domani di iniziare il prossimo (picchiatemi, vi prego, picchiatemi, sono pigraaaaa xD), vi prego di non far caso agli eventuali erroracci e refusi, l'ho appena finito >.< domani giuro che rileggo tutto con calma é.é inoltre, se avete notato un "leggerissimo" cambio di stile nel modo di raccontare di Cor, anche qui vi prego di non mangiarmi e di non preoccuparvi: è l'evoluzione naturale di questo piccino della mamma *prende l'alieno e lo sprimaccia tutto* x°D Adesso vado o muoio sulla scrivania, e morire è brutto, cattivo e non fa mai bene - siamo del team positivismo, nevvero? xD Ultima cosa che aggiungo, come sempre se volete leggere e lasciare dei commenti mi fate felicissima ç___ç e ripeto, picchiatemi, picchiatemi tanto! Un sempiterno grazie a chi continua a seguire, vi siete appena guadagnati tutto il diritto di tirarmi le orecchie quando ritardo >__< Detto questo, al prossimo capitolo! (Aiut... l'Odissea ricomincia) <3
  
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