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Autore: WouldBeRebel    15/04/2013    1 recensioni
Ero seduto al tavolo da più di mezz’ora, e quel cretino di Mathias non mi aveva ancora dato una risposta alla mia domanda.
«Perché, perché mi succede questo, Kohler?»
«Eh, caro Jan, succede. Si chiama amore, e anche tu ci sei caduto dentro in pieno. E con lei, tra l’altro! Ma non ti biasimo, e davvero bellissima, da quanto mi raccontano.»
Lo fissai interdetto, mentre quelle parole mi colpivano in pieno volto.
Lo odiavo, quando mi trattava in quel modo, come se fossi ancora un ragazzino.
«È solo una puttana.»
«No, non lo è, e tu lo sai meglio di me.»
Mi si infiammarono le guancie, ed ebbi l’impeto di afferrargli la testa e di spiaccicargli la faccia su quel dannato tiramisù.
Lo odiavo, tantissimo. Lo odiavo perché aveva ragione.
E io lo sapevo meglio di lui.
- - -
Aggiornerò mensilmente, per qualsiasi ritardo avviserò sul mio profilo.
Buona lettura, e spero che sia di vostro gradimento!
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Danimarca, Nuovo personaggio, Paesi Bassi
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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2. Locale sbagliato


Amsterdam alla sera brulicava di gente. A sinistra del canale, un paio di giovani olandesi rincorrevano una loro coetanea, che rideva a crepapelle mentre cercava di sottrarsi dalla presa degli amici. Sembravano tutti intorno alla ventina, a parte la ragazza che sembrava più giovane.
La ragazza era mora e bassina, la vocetta stridula che mi ricordava una bambina viziata. La sua espressione tuttavia, il modo in cui agiva, lasciava dedurre che fosse invece una persona semplice e spontanea, senza troppe pretese.
I compagni, invece, era tutti molto più alti di lei, i capelli chiarissimi e gli stessi lineamenti. Fratelli, pensai.
Ero seduto a guardarli da circa mezz’ora, assorto nei miei pensieri senza riflettere su qualcosa in particolare. Talvolta il mio sguardo veniva attirato da qualcosa di esterno a quella scena (Per esempio avevo visto un signore anziano di circa settant’anni correre come un ventenne vestito con abbigliamento da corsa. O ancora, un rapper improvvisato che aveva suonato un paio di pezzi con delle lattine e un paio di scatoloni, e che se ne era andata non appena aveva visto arrivare una donna sulla trentina che l’aveva guardato malissimo. Forse per le parolaccia che diceva nelle sue canzoni.), ma tuttavia ero rimasto concentrato su di loro.
Non saprei dire bene per quale motivo, ma li trovavo divertenti. Sembravano dei bambini che correvano in prato dopo essere stati un’intera giornata a scuola: felici.
Mi risvegliai dalle mie riflessioni, guardando l’orologio spazientito. Sbuffai, chiedendomi dove diavolo si fosse cacciato.
Fu proprio mentre ero lì, ad insultarlo mentalmente per il suo ennesimo ritardo, che l’imbecille mi mise le mani sugli occhi con la finezza di una balena. Difficile non riconosce un tocco così delicato.
«Chi è?» - scandì con una voce terribilmente alta, facendomi vibrare il timpano. Difficile anche non riconoscere un simile tono da topo strizzato.
«Babbo Natale?»
Feci ironia, anche se sapevo benissimo chi fosse. Non era mai stato bravo a non farsi riconoscere. Non che fosse mai stato bravo in qualcosa si intende.
«No!»
Tolse le mani dagli occhi, scavalcò la panchina accovacciandosi al mio fianco. Mi voltai a guardarlo, anche se già mi aspettavo un viso del genere.
Mathias Køhler, uno stupido danese con la faccia a pera e l’intelligenza di un’ameba, se ne stava appoggiato sulle gambe a fissarmi con gli occhioni blu aperti e un sorriso da cretino che gli andava da un orecchio all’altro. E quei capelli biondi, così ridicoli. Era ovvio che li tenesse così solo per copiarmi.
Rimasi a guardarlo un momento, dovevo avere un’espressione alquanto schifata, perché vidi una coppietta passarmi di fianco che mi guardò stralunata come se fossi un alieno.
Mi alzai senza degnarlo di una parola. Sapevo che mi avrebbe seguito, e senza dargli spiegazioni sarei riuscito a portarlo nel locale che voleva io, almeno quella volta.
Era frequente, infatti, che il danese iniziasse a blaterale prendendomi a braccetto, costringendomi poi ad andare sempre nello stesso, identico locale nel quale andavamo da ben sei anni, ogni qual volta uscivamo insieme. E non che fosse un posto romantico, venivamo circondati da stripper (anche se nei primi anni delle nostre “gite” là eravamo molto giovani, dei ragazzini, accadeva anche all’ora) e Mathias non si dava certo un po’ di contegno. Mi era già capitato di trovarmi i boxer del danese che mi volavano a pochi centimetri dalla faccia, prima di atterrare mestamente sul tavolo…con tutta l’agghiacciante/patetica scena che ne seguiva … e che tutte le volte, con suo grande disgusto, doveva stroncare portandolo via dal locale completamente nudo e sbronzo.
«Dove vai? Aspettami!»
Aveva un tono lagnoso e infantile, in quei momenti lo avrei preso a schiaffi. Mi girai solo per fulminarlo con lo sguardo, prima di riprendere a camminare.
Sentii dei passi affrettati alle mie spalle, ansiti simili a quelli di una cane dopo una corsa tremenda. Certo che avevo una falcata davvero lunga, eh? In pochi passi l’avevo già messo KO a livello di distanza.
Svoltai a sinistra, cogliendolo impreparato, entrai nel primo bar sulla destra. Non lo conoscevo, e non mi ricordavo di averlo nemmeno mai visto. Doveva aver aperto da poco, o forse era stato ristrutturato.
Mi sedetti al primo tavolo che vidi, feci scrocchiare le dita per il nervosismo. Non sapevo per quale motivo, ma il danese mi aveva infastidito parecchio, e d’improvviso provavo l’impulso di rompere qualcosa.
Mi massaggiai la base del naso, nel vano tentativo di calmarmi. Chiusi gli occhi e mi concentrai solo su i rumori che riuscivo a sentire.
Una sedia di fronte a me si mosse, qualcuno si sedette. Mathias ebbe l’accortezza di tacere e di lasciarmi calmare.
Non era la prima volta che mi accadeva una cosa simile. Già in passato avevo avuto quelli che io chiamo “attacchi d’ira”, momenti che partivano in modi del tutto naturali e che mi portavano a diventare rabbioso nel giro di pochi secondi. Ma dopo tanti anni di esperienza, più o meno riuscivo a controllarmi.
Fu proprio quando aprii gli occhi un momento, prendendo un respiro molto profondo, che la vidi ancora.
 
* * *
 
La vidi, lei che stava ballando contro a un palo, vestita solo di un misero quanto succinto corpetto nero. Intorno al piccolo palco su cui si esibiva, una schiera di ragazzi e uomini, la maggior parte sbronzi, fischiava e schiamazzava, cercando invano di riuscire a toccarla.
Le luci si alternavano sulle tonalità del viola, “Mirrors” di Natalia Kills che iniziava ad essere pompata a tutto volume dalle casse.
Indossava una maschera, l’inconfondibile caschetto nero che veniva spettinato ancora di più dai suoi movimenti veloci e mirati. Era sinuosa, letale, bellissima.
Esattamente come la ricordavo.
Mathias mi guardò, e seguì il mio sguardo. Mi accorsi di avere la bocca aperta e la richiusi subito, quasi a non rendere troppo evidente la mia sorpresa nel vederla di nuovo, dopo che era passata una settimana da quella notte.
Mi disse qualcosa, ma ero troppo concentrato su di lei per sentirlo, oltre alla musica altissima che costringeva le persone ad urlare. Non era molto lontana da noi, solo un paio di tavoli più avanti.
Per un momento, quando stavo per distogliere di malavoglia lo sguardo, mi sembrò che guardasse nella mia direzione, sorridendomi.
 
* * *

 
Non ricordo bene come, ma in pochi secondi mi ritrovai a camminare a passo lesto fuori dal locale, le porte aperte in malo modo, quasi sbattute, il battito cardiaco troppo forte, tanto da farmi male.
Quello stupido danese mi sbraitava cosa mi fosse preso, ma non lo stavo ascoltando, tentavo di distrarmi pensando ad altro. Alzai gli occhi al cielo che stava diventando nero, le stelle rese pallide dalla luce dei lampioni.
L’aria puzzava di fumo e per l’unica volta nella mia vita, storsi il naso disgustato.
«Van der Wert*, torna qua! Che succede, perché te ne sei uscito così?»
Continuai ad ignorarlo, non mi presi nemmeno la briga di rispondergli o guardarlo in faccia. Attraversai il ponte sopra al canale, cercai spasmodicamente le chiavi della macchina senza trovarle. Imprecai, aumentando il passo.
«Jan, fermati!»
Desideravo che se ne andasse, che mi lasciasse in pace. Non lo sapevo nemmeno io che mi prendeva, figurarsi se riuscivo a spiegarlo a lui, un completo scellerato.
Mi girai, lo guardai in faccia, gli gridai un paio di frasi sconnesse che non rimembro. Lo odiavo a morte in quel momento, avevo bisogno della mia solitudine, avevo bisogno di non avere scocciatori in mezzo ai piedi. Mi ricordo ancora la sua espressione, un misto di dispiaciuto e sconvolto.
Poi lo seminai, mettendomi a correre per la via. Urtai qualche persona, prima di riuscire ad arrivare al parcheggio, aprire frettolosamente la portiera e buttarmi sul sedile partendo a tutto gas senza nemmeno mettermi la cintura.
 

 
Auteur tijd

 
Prima di qualsiasi cosa, vorrei scusarmi con voi lettori per il terribile ritardo con cui aggiorno. Ho fatto di tutto per rimanere in tempo, ma purtroppo ho avuto delle situazioni familiari tristi e difficili che non mi hanno consentito di scrivere come volevo. Spero riusciate a perdonarmi.
In secondo luogo, mi auguro che questo capitolo vi sia gradito, e vi lascio con queste piccole annotazioni di fine.
Doei!
 
* Van der Wert: è il cognome che io uso per Jan. Un mix da me creato da tre cognomi di tre amici.
   
 
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