Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: LilithJow    17/04/2013    7 recensioni
[..] Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 18
"Breathe in, breathe out"


Uscii di casa di corsa. Non mi disturbai nemmeno a prendere l'ascensore. Mi mancava il respiro, avevo bisogno d'aria e ne avevo bisogno subito.
Rischiai di cadere più volte lungo le imponenti rampe di scale, fino al piano terra. Attraversai l'atrio senza guardarmi attorno, ignorando un cordiale «Arrivederci» da parte del portiere.
Fui in strada, in mezzo alla gente che si affannava da una parte e l'altra. Stavano tutti tornando da lavoro, data l'ora, ma io ormai avevo pressoché perso la cognizione del tempo.
Non ero preoccupato per ciò che mi aveva detto Sebastian. Nonostante le parole lette sul diario, mi ero auto-convinto a non credere che Hazel potesse seriamente darmi la caccia; ma, probabilmente, era solo un meccanismo di difesa assunto dal mio inconscio più vulnerabile, che era ancora in fase di negazione.

Il cielo si era tinto di grigio, c'era poca luce e, in lontananza, si udiva l'eco dei tuoni che preavvisavano l'arrivo della pioggia. L'odore di essa già aleggiava nell'aria.
Riuscii a muovere qualche passo sul marciapiede, non badando molto alla direzione che stavo prendendo e nemmeno alla traiettoria, tanto che più volte qualcuno mi venne addosso, maledicendomi poi. Chiesi scusa in dei sussurri, ma dubitai del fatto che fosse qualcosa di comprensibile alle orecchie degli altri.

Continuai a camminare, lento e perso, e la pioggia iniziò a cadere, prima lieve, poi più violenta, scatenandosi. L'acqua addosso non mi faceva nulla.

Fui completamente fradicio in poco tempo e nemmeno me ne accorsi. Tutti cercavano riparo, chi rifugiandosi nei negozi, altri proteggendosi con la propria giacca e correndo. Io, semplicemente, vagavo per le varie strade, osservando ogni cosa e non facendo assolutamente nient'altro.

Ad un tratto, tuttavia, mi ritrovai in un luogo familiare. Non ci ero mai stato fisicamente, ma ne avevo sentito parlare.
Un grosso portone rosso con le maniglie color oro spiccava all'ingresso di un palazzo d'altri tempi, in netto contrasto con gli edifici moderni che costellavano quella zona della città. Lì, abitava Tamara, o almeno così credevo.
Non esitai più di tanto prima di entrare, approfittando della gentilezza di un'anziana signora che mi scortò dentro. Nemmeno avevo una ragione per essere in quel posto, ma forse era stato il mio inconscio a guidarmi. Avevo bisogno di uno sfogo e Tamara era l'unica con cui non avrei dovuto mentire, dato che era a conoscenza di ogni cosa.
Dovetti iniziare a leggere i nomi su ogni campanello, sperando di trovare il suo. Ebbi successo dopo una ricerca che mi portò al quinto piano, salendo per delle scale di pietra non molto livellate e quasi decadenti.

L'appartamento di Tamara – o, perlomeno, sperai fosse il suo, mentre bussavo alla porta, sentendomi, come al solito, abbastanza idiota – si trovava in fondo ad un lungo corridoio dalle pareti giallognole e scrostate. Non era proprio un condominio di lusso, tutt'altro, ma, da ciò che mi aveva detto, non poteva permettersi altro, abitando da sola.
Per mia fortuna – già, raramente, mi accompagnava – era la giusta abitazione. La ragazza dai capelli rossi mi aprì dopo neanche venti secondi d'attesa. Sgranò gli occhi, non appena mi vide. «Che accidenti ci fai qui?» quasi urlò.

«Ho bisogno di parlarti» biascicai.

«Hai un Divoratore alle costole, perché hai lasciato casa di Martha?!».

«Te l'ho appena detto».

«Non mi hai detto proprio nulla! E come hai fatto a trovare casa mia?!».

«Una volta hai accennato al portone rosso, lo hai... Descritto nei minimi dettagli e non ci sono molti portoni rossi così, per cui... Ho tentato».

Tamara mi stava guardando a bocca aperta. Strano che non si fosse minimamente preoccupata del fatto che fossi zuppo d'acqua, che grondava da ogni parte sul pianerottolo.

«Hai intenzione di farmi entrare o...?» sussurrai. Lei roteò gli occhi e si scansò, facendomi un cenno con la testa. Varcai la soglia della porta passandomi una mano tra i capelli bagnati. «Sai che esistono gli ombrelli, vero?» esclamò Tamara, abbozzando una risata. Io, purtroppo, non riuscii a fare lo stesso.
Mi fece un altro cenno, invitandomi a sedere sul divano. «Ti prendo degli asciugamani» disse. Sparì per qualche secondo, giusto il tempo necessario ad eseguire quel suo ordine o qualunque cosa fosse; poi tornò, con due tele di spugna bianche tra le mani, e me le porse.

«Grazie» mormorai, in tono a malapena percettibile.

«Non te la prendere, ma... Hai un aspetto orribile» commentò dopo. Riuscì a strapparmi un sorriso, ma durò tutto non più di due secondi. Rigirai un asciugamano tra le mani, mentre gocce d'acqua mi colavano lungo il viso, partendo dalla tempia.

«Che è successo?» domandò Tamara, sedendosi al mio fianco. Non incrociai il suo sguardo. Puntai il mio a terra, a fissare un punto vuoto. «Un sacco di cose, in realtà» replicai.

«Dimmene qualcuna. Sei venuto qui per parlare, del resto».

Sospirai appena. «Hai idea di...» sussurrai, con un fil di voce «Hai idea di come ci si sente quando scopri che una persona che pensavi di conoscere è in realtà tutto l'opposto?».

«Ho avuto le mie esperienze». Fece una breve pausa. «Ci stiamo riferendo a qualcuno in particolare?».

«Hazel».

«Avete litigato?».

«Più o meno». Sollevai lo sguardo, ancora vacuo, su di lei. «Ho letto delle cose» sussurrai «cose affatto non buone, anzi... Erano crudeli. Il punto è che è successo tutto all'improvviso, tutto troppo velocemente e io... Io non so cosa fare».

«Quali erano queste cose crudeli?».

«Non ha molta importanza. O forse... Dirlo ad alta voce farebbe solamente più male, per cui...».

«Hai parlato con lei? Qualunque cosa abbia fatto, magari aveva una ragione precisa».

«Una ragione sbagliata. Lei non...». Mi interruppi, mordendomi forte il labbro inferiore, rischiando di farlo sanguinare. Tamara mi fissò, con aria evidentemente dispiaciuta o, molto più probabile, con compassione. Guardando il mio riflesso, mi sarei fatto pena io stesso.
«E' difficile credere a qualcuno, se hai perso ogni fiducia in esso» mormorai, poco dopo. «E sai qual è la parte peggiore? E' che io sono pressapoco sicuro di essere innamorato di lei. Solo che a lei non importa».

«Simon...» sentii Tamara dire ad alta voce, prima di vederla avvicinarsi a me, lentamente. Mi strinse in un abbraccio e io non mi opposi.

Appoggiai la testa sulla sua spalla, socchiudendo gli occhi. Mi sentivo terribilmente debole, inutile. Non avevo avuto il coraggio di reagire. Non lo avevo mai fatto. Ogni qualvolta che la mia vita veniva sconvolta, semplicemente crollavo, lasciandomi schiacciare dal peso del dolore, rimanendo inerme di fronte a tutto. Ed era capitato di nuovo, così come era successo con Tiffany, solo che, in quel momento, la sofferenza era triplicata.
Rimasi fermo, in quella posizione, per alcuni minuti, lasciandomi semplicemente cullare. Fu Tamara a interrompere l'abbraccio, in maniera delicata, distaccandosi in modo lento da me. Quando lo fece, i nostri visi si ritrovarono allo stesso livello, terribilmente vicini. Io sorrisi appena, qualcosa di strettamente forzato e privo di qualunque entusiasmo. Era più che altro per mostrare un minimo di gratitudine per quel suo gesto. Lei, tuttavia, sembrò fraintendere o chissà cosa le passò per la testa.
Pochi secondi dopo, le sue labbra erano sulle mie, una sua mano tra i miei capelli e l'altra sul mio collo. Non riuscii a fermarla subito. Probabilmente, una parte di me nemmeno voleva, sostenendo che una piccola distrazione come quella avrebbe alleviato almeno un po' le mie pene.
Accordai il bacio, allora, sfiorando con i polpastrelli il suo viso, la sua pelle calda. Ma quando mi distaccai, solo per un secondo, solo per riprendere fiato, il volto di Hazel mi apparve davanti agli occhi: i suoi lineamenti delicati, i suoi occhi verdi, il suo sorriso velato.

Evidentemente, al mio inconscio piaceva vedermi soffrire.

Mi alzai di scatto, muovendo qualche passo distratto, e, data la mia goffaggine, finii per ribaltare il tavolino di legno che era posto proprio davanti al divano.

Tamara mi seguì di riflesso, mettendosi in piedi, seppur mantenendo una certa distanza da me. «Mi dispiace, Simon» balbettò. «Non volevo, davvero, io non...».

«Non fa niente» biascicai, passandomi una mano sul viso.

“Adesso cominci pure ad avere allucinazioni. Peggiori sempre più”. La voce malefica della mia coscienza inveì per l'ennesima volta contro di me.

«Non volevo baciarti» continuò lei, parlando in maniera frenetica. «Cioè, tu sei molto carino e tutto quanto, e hai degli occhi blu cielo che sono davvero fantastici, ma questo non...». La guardai, facendo una smorfia. «Okay, la smetto» concluse.

«E' meglio che vada ora».

«Sì, assolutamente».

Annuii frettolosamente.Tamara ancora tentava di scusarsi, in qualsiasi metodo possibile. Ciò che recepii io fu solo una marea di parole tutte uguali.
“Più confuso di prima: ottimo risultato” pensai, mentre uscivo dal piccolo appartamento. Mi chiusi la porta alle spalle e fui di nuovo in piedi, nel corridoio con le pareti scrostate.

Sentivo ancora la pioggia picchiettare ai vetri delle finestre: non aveva intenzione di smettere. Probabilmente, sarei dovuto restare a casa di Tamara, almeno per un po', ma ero dell'idea che l'imbarazzo ci avrebbe impedito anche solo di tenere qualche genere di conversazione.
Misi le mani nelle tasche della felpa ancora bagnata e camminai lento verso l'ascensore, antico, come un po' tutto lì dentro. Cigolò, salendo fino al piano, e quasi ebbi l'idea di optare nuovamente per le scale. Alla fine, tuttavia, decisi di usufruirne comunque.
In realtà, quando vi entrai, mi accorsi che, più che essere un ascensore, quello era un montacarichi. Aveva una grande porta, che si apriva in verticale, ed era incastonata nel muro, in un abitacolo che poteva contenere almeno dieci persone. Già, un montacarichi travestito da ascensore; la lentezza con cui iniziò la discesa, poi, me ne diede ulteriore conferma.

Ma non era di quello che dovevo preoccuparmi.

Poco dopo, di fatti, l'aria in quel piccolo spazio diventò gelida, oppure fu solamente una mia impressione, dato quel che accadde.

«Simon». Fu un sussurro lieve, a malapena comprensibile, ma fu sufficiente per permettermi di riconoscere di chi fosse. Strizzai gli occhi, sperando che il mio inconscio mi avesse giocato un ulteriore scherzo meschino, con un'altra allucinazione. Purtroppo per me, quella malefica essenza era corsa ai ripari, lasciandomi in pace proprio nel momento meno opportuno.

Mi girai lentamente, quasi non volessi farlo. Quasi avessi paura di farlo.

Hazel stava in piedi, con i pugni chiusi lungo i fianchi. Aveva addosso lo stesso vestito bianco con cui l'avevo lasciata, solo che era sporco di terra. La matita nera che contornava gli occhi le aveva sporcato il viso; la pioggia aveva colpito anche lei, considerati i suoi capelli fradici.
Avrei voluto dire tante di quelle cose, chiederne altrettante. Avrei voluto che la sua voce mi consolasse, avrei voluto persino un suo abbraccio rassicurante, insieme ad altre parole che avrebbero cancellato le precedenti, e invece... E invece rimasi fermo, immobile, inchiodato alla lastra di metallo di quel montacarichi. La fissai e basta, e lei, per un po', fece lo stesso.

La vidi muoversi, poi, finché una sua mano non raggiunse i pulsanti dell'ascensore, che si arrestò, tra il quarto e il terzo piano, quando ne premette uno.

“Avresti dovuto impedirglielo”. La voce fin troppo lontana del mio io ragionevole mi rimproverò; aveva ragione, ma non ci sarei comunque riuscito.

«Ti ho trovato» esclamò, fulminandomi con i suoi diamanti verdi. «Mi stavi seguendo?» replicai, cercando in tutti modi di evitare i suoi occhi. Hazel fece cenno di no con la testa. «Non sono una stalker, ricordi?». Abbozzò un sorriso, del tutto privo d'entusiasmo; mi avrebbe sorpreso il contrario. «Voglio parlare con te, Simon» continuò. «Voglio... Spiegarti, chiarire. Io so che... Che le cose che mi hai detto l'altro giorno non le pensavi. Lo so, perché tu hai un animo buono e...».

«Non sono io quello che deve essere perdonato, Hazel».

«Nemmeno io».

«E allora che facciamo? Io non ho intenzione di credere alle tue parole». Quella era una grossa balla. Perché pensavo una cosa e ne dicevo un'altra? Forse era l'orgoglio. Da quando ne avevo uno?

«No, perché vuoi i fatti, non è così?» disse.

«Non lo so. Non so più quel che voglio, non...».

«Non ti fidi di me».

«Come potrei? Dimmelo».

«Non ci hai neanche provato, Simon».

«Io ci ho provato, ma è difficile».

«Lo sai che non farei mai nulla per ferirti».

«Una volta credevo fosse così. E vorrei che valesse ancora adesso, ma rimango in bilico e... E torno ad avere paura di te».

Hazel fece un passo avanti. E poi un altro e un altro ancora, finché non mi fu quasi addosso. I nostri volti vicini, tanto che riuscivo a percepire il suo respiro sulla mia pelle.
Il suo sguardo, nonostante tutta quella situazione, era ancora dolce, ancora confortante, come al solito. Fu per questo che fu pressoché impossibile non notare il cambiamento che avvenne. Vidi i suoi occhi spegnersi, letteralmente: il verde oscurato dal rosso scuro, il mezzo sorriso piegato in una smorfia di rabbia.

«Sei stato con lei» sibilò.

In un primo momento, la sua affermazione mi spiazzò. Non sapevo a cosa si stesse riferendo, perché lo stesse facendo proprio in quell'istante. Poi capii: parlava di Tamara.

«Non è importante» sussurrai, e non lo era davvero, non rispetto a tutto il resto.

«Sei stato con lei» ripeté e il tono fu più isterico.

«Lo stai seriamente facendo? Stai ribaltando le cose per far sì che debba essere io a sentirmi in colpa? E' stato solo un bacio!». Lo dissi senza l'intento di scatenare qualcosa, era solo una mia difesa, di cui, a mio parere, non avevo bisogno. Per Hazel, invece, fu come un fulmine a ciel sereno.
L'espressione del suo volto si fece più rabbiosa. Ringhiò e, prima che potessi rendermene conto, le sue dita premevano contro il mio collo. Mi fece sbattere violentemente con la schiena contro una parete gelata dell'ascensore e i miei piedi non toccarono più terra. Tentai di liberarmi dalla sua presa, ma era troppo forte. Una morsa ferrea che mi toglieva lentamente il respiro, mentre i suoi occhi rossi si erano ridotti a fessure e mi fissavano, quasi volessero trucidarmi. La tenue luce dell'abitacolo cominciò ad andare a scatti. Rapidi lampi, seguiti dai tuoni provenienti dall'esterno.

«Haz... Hazel...» riuscii a biascicare, tentando ancora di allontanare le sue mani, invano. Non avevo quasi più fiato, la vista cominciò ad appannarsi e... E a quel punto, lei mi lasciò, di scatto, balzando all'indietro. Io ricaddi a terra. Il cuore mi batteva a mille.
Scorsi Hazel fissarsi le mani tremanti e poi guardare me. «Mi dispiace» sussurrò «mi dispiace... Mi dispiace». Si inginocchiò al mio fianco, tentò di aiutarmi ad alzarmi, ma la scansai, in maniera brusca.

«Mi dispiace» disse, per l'ennesima volta. «Non odiarmi. Ti prego, non... Non odiarmi».

«E' tardi per... Per chiederlo» mormorai, con un filo di voce.

Per quanto mi dolesse ammetterlo, ciò che era appena successo era solo la conferma dei miei dubbi e delle mie incertezze.

Un quadro completo, senza ulteriori e inutili spiegazioni.

Hazel socchiuse gli occhi per un attimo: erano tornati verdi ed erano lucidi. Non aggiunse nient'altro. Mi lanciò un'ultima occhiata e sparì, lasciandomi da solo, su quella lastra fredda.

  
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: LilithJow