Anime & Manga > Kuroko no Basket
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Autore: Glitch_    03/06/2013    3 recensioni
Dopo la fine della scuola superiore, c'è chi ha fatto del basket il proprio stile di vita ma non una scelta per il futuro, chi ha rincorso il proprio sogno in America e chi invece è scappato dalla propria ombra; c'è chi sa che si può sempre ricominciare grazie a ciò che si è avuto e chi pensa invece che sia tutto finito e i cocci da buttare.
Il basket li ha fatti incontrare, il basket li porterà a riunirsi e a restare ancora insieme.
[Kagami/Kuroko, Kasamatsu/Kise, Midorima/Takao + Aomine(onesided)/Momoi]
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Ryouta Kise, Takao Kazunari, Tetsuya Kuroko, Yukio Kasamatsu
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A due passi e un respiro da qui'
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Capitolo 2


"I am finding out that maybe I was wrong
that I've fallen down and I can't do this alone
Stay with me, this is what I need, please?
Sing us a song and we'll sing it back to you
we could sing our own but what would it be without you?"
My heart - Paramore


Tetsu, ho saputo di Kise.
Vorrei parlargli, o meglio, so che una volta tanto sarebbe il caso di non mettere in fila una scusa dopo l’altra e sforzarmidi parlare, perché non si tratta di certo di una stupida partita persa e un vecchio amico merita sempre delle parole di conforto. Mi rendo però conto di non sapere che dirgli, perché mi ha davvero scosso sapere che proprio a lui sia accaduta una cosa del genere; lo conosco da anni, so quanto ama il basket e so quanto siamo simili: non riesco a non mettermi nei suoi panni e ciò mi sta uccidendo.
È una cosa crudele e reale, potrebbe succedere anche a me e immaginare come reagirei io e cosa ne sarebbe poi della mia vita mi fa impazzire. Penso che al posto suo non riuscirei a smettere di prendere a pugni tutto e tutti, immagino quanto si senta arrabbiato e avvilito e l’inevitabile empatia mi sta scuotendo in modo troppo violento.
È una cosa brutta ed è successa a una persona che conosciamo e che ama il basket quanto noi, non riesco a smettere di ripetermelo.
Ho litigato pure con Satsuki, perché mi sta facendo pressioni affinché contatti Kise e non capisce perché non mi decido a farlo. Non è che non voglio farlo, è che al momento davvero non ci riesco.
Tu sei un bravo ragazzo e in certe cose sei migliore di me: potresti farmi il favore di stargli accanto anche per me? Giusto il tempo di provare a mettere insieme i pezzi di ciò che vorrei davvero dirgli, nel frattempo riferiscigli pure che se ha bisogno di qualcosa, io ci sono.

Aomine.


Kuroko finì di asciugare i piatti e si appoggiò mestamente al tavolo della cucina. Erano passati quasi due mesi dal giorno della diagnosi, Kise era stato sottoposto a un intervento per bloccare la degenerazione della malattia agli occhi, aveva trascorso un paio di settimane al buio e in penombra e poi aveva cominciato a portare degli occhiali da vista.
Non stava reagendo bene. E le cose fra lui e Kasamatsu altrettanto non andavano bene. Kise non smetteva di stare al buio.
Attualmente si trovava proprio nell’appartamento suo e di Takao, e Kuroko avrebbe voluto davvero che reagisse come avrebbe fatto Aomine, perché così almeno avrebbe buttato fuori tutta la rabbia che sentiva, e invece no: Kise si era spento, non c’era altro modo per descrivere meglio come stava.
Kise parlava poco, aveva iniziato a dormire sempre meno di notte e a essere sempre più apatico di giorno, fino a quando per lui giorno e notte si erano quasi invertiti del tutto: dormiva dall’alba al primo pomeriggio, poi se gli andava mangiucchiava o ascoltava un po’ di musica – da dopo l’intervento evitava ancora la TV e il computer – e non appena scendeva la sera spesso andava al campetto dei ciliegi a giocare da solo, o a fissare il canestro per ore.
Una cosa per lui importante era andata persa per sempre e lui sembrava aver reagito rassegnandosi nel peggiore dei modi: appiattendosi in modo passivo.
Kasamatsu aveva fatto di tutto per stargli vicino, arrivando nei limiti del possibile anche a raddoppiare il tempo che potevano stare insieme; era stato con lui durante tutta la degenza, l’aveva accompagnato a comprare gli occhiali ed era stato lui a portarlo per la prima volta al campetto – a giocare – una volta che si era rimesso. Con la stessa pazienza e dedizione aveva fatto di tutto per fargli capire che non era detto che il basket dovesse uscire per sempre dalla sua vita, che poteva ancora fare in qualche modo parte di quel mondo e che potevano ancora condividere ciò insieme.
Kise non solo non aveva reagito a nessuna delle sue mosse, a un certo punto aveva iniziato anche a evitarlo. E quel giorno finalmente avevano litigato nel più orrendo dei modi, perché tanto ormai valeva toccare il fondo e affrontare le cose.
Kasamatsu aveva mandato un messaggio a Kuroko dicendogli "Se per caso sei con Kise, potresti dirgli di muovere il culo e smettere di stare in contemplazione del canestro al campetto? Oggi c’è la partita di una squadra che resta ancora la sua, i ragazzi sono ancora i suoi compagni e meritano quanto meno di sapere che fa il tifo per loro, visto che non smettono di dire quanto manchi la sua presenza. Almeno stavolta deve venire. Almeno per me".
Kuroko aveva riferito il messaggio. Kise né gli aveva risposto né era andato alla partita, per l’ennesima volta. Poi non appena calcolato che la partita fosse finita, e su pressioni di Kuroko, aveva racimolato abbastanza coraggio per inviargli almeno un "Mi dispiace".
Kasamatsu gli aveva telefonato subito. Kuroko non aveva voluto ascoltarlo, ma Kasamatsu aveva urlato forte: non appena Kise aveva aperto la linea, lui gli aveva detto "Vaffanculo".
Kuroko era subito andato in camera propria per evitare di ascoltarli ancora, ma non ci voleva un genio per capire cosa si fossero detti dopo, con Kise sempre più passivo e Kasamatsu arrabbiato con lui, con se stesso e il mondo intero. Forse addirittura anche con il basket.
Dopo Kise non aveva neanche voluto mangiare, non aveva nemmeno pianto. Kuroko per un attimo aveva creduto con orrore che forse Kise pensava che Kasamatsu stesse meglio senza lui perché meritava di meglio, magari qualcuno con cui condividere ancora il basket. O che fosse solo naturale lasciarsi.
Finito di sistemare i piatti e messa da parte la cena per Takao, Kuroko adesso provava a fare mente locale su cosa potesse fare per Kise. Il ragazzo al momento se ne stava seduto impassibile sul divano, ma era già passato il tramonto da un pezzo, quindi fra non molto sarebbe uscito per andare da solo al campetto dei ciliegi.
Si coprì il viso con le mani, stanco: non sapeva davvero cos’altro fare e la prospettiva che fra Kise e Kasamatsu fosse finita gli stava facendo male più di quanto immaginato.
Quando sentì il proprio cellulare squillare, preso alla sprovvista sussultò dallo spavento: era Takao, rispose andando in camera propria.
«Fammi indovinare, Kise è da noi?» esordì Takao con amara ironia.
«Sì». Lo sentì sospirare forte.
«Sto andando da Kasamatsu: mi ha chiamato talmente nervoso e arrabbiato che di tutto quello che mi ha detto ho capito solo che Kise si è rifiutato ancora una volta di andare a vedere la loro squadra giocare e che dopo hanno litigato».
«Questo è il riassunto di tutto senza urla e brutte parole» commentò malinconico.
Takao sbuffò una risata aspra. «Non credo che sia necessario sapere di preciso in che posto Kasamatsu abbia mandato Kise, posso immaginarlo benissimo».
«Hanno entrambi delle colpe» tenne a precisare.
«Lo so, era per dire che al posto del senpai avrei perso la pazienza anch’io» sospirò di nuovo. «Senti, non preoccuparti della cena: passerò la notte da Kasamatsu, tu occupati di Kise».
«Takao-kun, secondo te cosa posso fare per Kise-kun?» si arrese a chiedere consiglio.
«Non so, cercare di evitare che s’impicchi al canestro del campetto?»
La situazione era talmente brutta e l’atmosfera così tesa che quel tagliente e amaro sarcasmo per poco non lo fece ridere in modo poco opportuno. «Takao-kun!» lo riprese trattenendosi: in quella lite nessuno di loro due era super partes e lo sapevano entrambi, perché Takao aveva sempre ammirato Kasamatsu, mentre Kise per Kuroko restava pur sempre una persona che conosceva da quando era bambino.
«Ok, provo a fare il serio!» Ancora un grosso sospiro. «Né tu né io vogliamo che fra quei due finisca, vero? Perché è un po’ come se fossero la realizzazione di un sacco di cose che volevamo…»
«… sì».
«Siamo egoisti e decisamente non ci piace che fra quei due non vada bene, quindi… che ne dici di avvertirmi quando Kise deciderà di andare al campetto dei ciliegi? Io ci porterò Kasamatsu così non avrà modo di evitarlo. Però domani, non stasera: lasciamoli sbollire».
Ci rifletté poco, era troppo esausto. «Potrebbe funzionare».
«Ok! Ci vediamo domani direttamente a lezione; cerca di stare su, Tetsu-chan!»
Kuroko restò a fissare il cellulare per qualche secondo, poi tornò di là e trovò Kise ancora apatico e immobile. Sapeva che non sarebbe stato facile, ma non si aspettava che ci avrebbe rivisto così tante cose.


Kise non aveva nominato Kasamatsu neanche il giorno dopo e la sera successiva Kuroko, con un sorriso il più normale e innocente possibile, si era proposto di accompagnarlo alle solite ore di contemplazione quotidiana del canestro del loro campetto.
Il posto come previsto era deserto, Takao e il senpai erano entrati silenziosi nel campo, poi Kasamatsu aveva richiamato l’attenzione di Kise chiamandolo per nome con un tono basso e serio che nascondeva un velato rimprovero.
«Ryota?»
Kise si era girato verso di lui con sul volto l’espressione di un animale braccato, sembrava sia ferito che impaurito.
Kuroko non ci teneva a sentire cosa i due si sarebbero detti, ma Takao con faccia seria gli aveva fatto cenno di stare zitto e stringendogli una mano intorno al polso l’aveva costretto a seguirlo oltre la rete del campo, dietro i ciliegi. La mano di Takao però non lasciò il suo polso neanche dopo.
Non sentirono bene quello che si stavano dicendo quei due dentro al campo fino a quando non alzarono la voce; Kuroko col senno di poi si chiese se in fondo fosse stato davvero un male spiarli.
«Ti sei mai chiesto quanto per me sia umanamente umiliante non essere in grado di fare qualcosa per te perché non me lo permetti neanche di fare, Kise? Sono il tuo ragazzo e negli ultimi giorni non ho saputo neanche cosa cazzo stavi facendo!»
«Pensavo fosse ovvio che voglio stare da solo e non ci sono chissà quanti posti dove mi va di stare, al momento!»
«Non è questo il punto e non fingere di non saperlo! Che senso ha per me stare con te se pensi che io non abbia neanche il diritto di sapere cosa ti passa per la testa? Perché mi eviti? Potresti dirmelo una volta per tutte?»
«Non ti sto evitando, io…»
«Abbi la decenza di non negarlo! Mettiti nei miei panni, non pensi che io sappia benissimo di essere la sintesi di quello che ti è stato tolto? Sto bene e posso ancora giocare, tu no, e fino a pochi mesi prima potevamo condividere la nostra passione per il basket. Credi che io sia così stupido da non pensare che io stesso possa farti del male senza volerlo? Non pensi che anche per me sia fottutamente difficile guardarti in faccia e sapere cosa rappresento?»
«Non è solo questo…»
«Ma è anche questo, lo vedi? E non me lo dici insieme ad altre cose! Smettila di evitarmi perché fino a prova contraria sono ancora un tuo compagno di squadra, il tuo capitano e il tuo ragazzo, e non c’è verso che io possa dimenticarmene o cercare di non aiutarti quando ne hai bisogno, perché…» la voce gli si era incrinata, «te l’ho detto, io sono ancora un sacco di cose per te, e tu lo sei per me e non intendo tradire neanche una sola di queste cose: mi fai male e ti sto facendo male, smettiamola. Dimmi cos’altro c’è».
Kise si mise le mani fra i capelli e scosse la testa in cenno di diniego.
«Ryota, per favore dimmelo, non prendere a calci il mio bisogno di esserci».
«SONO TERRORIZZATO!» L’urlo strozzato di Kise ebbe l’effetto di una pugnalata a tradimento.
«Sono terrorizzato, ok?» ripeté con le mani artigliate sul viso. «Non ho mai brillato negli studi, fare il modello per me è solo un lavoro part time come un altro e non mi è mai interessato davvero farlo: finora il basket è stato tutta la mia vita! Ho dedicato gli ultimi sette anni della mia esistenza a questo sport, so di essere fra i migliori e so che la gente lo sa, io e l’intero mondo abbiamo fatto in modo che il basket fosse la mia unica strada per il futuro. Ora che mi è stato tolto, cosa sono io come persona?!» Le parole gli uscivano con furia dalla bocca, una dopo l’altra. «So di non avere chissà che altre abilità, di essere bello non me ne faccio un cazzo e il mio futuro, ciò che amavo e mi piaceva fare, mi è stato portato via! Sono terrorizzato, so di avere almeno ancora te, ma come cazzo faccio a non pensare che ti fa male sapere di farmi male senza volerlo?!» Crollò in ginocchio e batté un pugno a terra per la frustrazione, gridò di nuovo e iniziò a piangere. «SONO TERRORIZZATO!»
Kasamatsu s’inginocchio di fronte e lui e gli mise una mano sulla spalla. «Adesso lo so, ma sono ancora qui».
«MI DISPIACE!» singhiozzò.
«Urla pure, non c’è problema: è un tuo diritto. Dispiace anche a me».
«HO COSÌ PAURA!»
«Anch’io, ma siamo insieme, ok?» Gli spinse piano la testa contro la propria spalla.
«Mi dispiace davvero tanto, Yukio! Tanto!»
«Non è colpa tua se non puoi più giocare, ed è colpa di entrambi se stiamo male».
Kuroko si rese conto di quanto stava piangendo in silenzio solo quando vide Kise smettere di singhiozzare forte; era come diceva Aomine: era una cosa brutta ed era successa a uno di loro, una persona che conoscevano da anni e che amava il basket quanto loro, potevano immaginare benissimo cosa Kise stesse passando, e faceva davvero male. Rivolgendo un’occhiata di sottecchi a Takao si accorse che sebbene tenesse il capo chino era ben visibile che avesse pianto anche lui, scosso – e continuando a stringergli il polso. Kuroko non gli pose domande né glielo fece notare, gli fece solo cenno che ora era il caso di andare via.
Takao si avvicinò alla rete e agitando un braccio attirò l’attenzione di Kasamatsu, che stringeva ancora Kise a sé.
«Noi andiamo» sillabò Takao sottovoce. Oltre la spalla di Kise, Kasamatsu scandì a propria volta un silenzioso "Grazie"; gli annuirono e lasciarono il campetto dei ciliegi.


Al ritorno a casa, Takao si sentiva parecchio sottosopra; non appena tolte le scarpe andò scalzo direttamente al frigo: doveva bere subito e qualsiasi cosa andava bene purché l’aiutasse a mandar giù parecchie cose che in quel momento sentiva in gola.
Vide di sottecchi che Kuroko era ridotto più o meno nelle sue stesse condizioni, ma sapeva benissimo che di certo non sarebbe stato il primo a parlare – dal campetto all’appartamento erano rimasti in silenzio.
Scelse di prendere una lattina di birra abilmente nascosta dietro due grosse confezioni di cartone di succo di frutta – non si poteva mai sapere, nessuno dei due aveva ancora ventun anni – ed esordì indossando la sua migliore espressione ironica. «Ehi, Tetsu-chan, credo che questa sia la parte in cui parliamo dei nostri…» fece un cenno vago della mano verso il lato sinistro del petto, «sentimenti».
Kuroko, inespressivo, gli tolse la lattina dalla mano. «Takao-kun, per favore, potresti non bere? Non mi piace davvero Mariah Carey, preferisco la musica giapponese».
Si rimpossessò della birra. «Non è mica detto che debba ubriacarmi» protestò andando a sedersi in modo scomposto sul divano – che era troppo molle e di una tonalità assurda di arancione, ma l’aveva fortemente voluto lui perché faceva tanto Shutoku ed era un masochista.
«L’hai detto anche l’ultima volta» ribatté Kuroko, prendendo un libro abbandonato sul tavolo e sedendosi composto dall’altro lato del divano.
Takao sbuffò stanco e decise di cambiare argomento. «Potresti farmi un favore? Fammi una domanda, perché credo sul serio che dovremmo parlarne. E non mi sto riferendo al nostro divorzio» smorzò alla fine con ironia.
«Comunque non sei mai stato il mio tipo ideale, Takao-kun».
«Potrei anche prenderlo come un complimento, ma non è questo il punto della situazione. Fammi una domanda» insisté.
Kuroko chiuse il libro che a quanto sembrava voleva tanto leggere; sembrò rifletterci sopra prima di parlare. «Perché hai smesso di giocare?»
Takao capì dove l’altro voleva andare a parare, sorrise. «Guarda che non è stato per colpa di Shin-chan» si grattò la testa. «Dici che non ti piacciono le mie sbronze tristi canterine, ma tu e Kise dovreste smetterla di farmi ubriacare apposta per sapere di Shin-chan e poi fare ipotesi strane!» protestò ironico; poi divenne più serio. «Il basket mi è sempre piaciuto davvero, lo amo tuttora, ma… per quanto mi piaccia sfidare i miei limiti e migliorarmi, ho sempre saputo che non era la mia strada: agli inizi mi sono posto una meta, un percorso da fare, e quando ho raggiunto il mio obietto come giocatore mi sono ritenuto abbastanza soddisfatto da mollare tutto».
«È una motivazione più semplice di quanto mi aspettassi» ammise.
Si finse offeso. «So essere anch’io una persona ordinaria e normale, che ti credi?»
«Perché allora il ricordo del basket delle superiori ti mette così tanta nostalgia?»
«Perché» trasse un grosso respiro per infondersi coraggio e proseguire, «il percorso che ho fatto è stato molto bello e le sfide sostenute mi hanno soddisfatto e hanno reso i miei anni scolastici migliori, però c’è stato quel piccolo neo finale che ha guastato un po’ le cose e che ogni volta che ricordo il basket scolastico rende tutto un po’ amaro e malinconico». Restarono un paio di attimi in silenzio.
«Mi dispiace, Takao-kun».
«Nah, non dispiacertene: basto già io a starci così!» Fissò la lattina che prima aveva posato sul tavolino basso di fronte a loro: era rimasta intatta, Kuroko l’aveva avuta vinta su Mariah Carey. «Te l’ho detto, Kasamatsu e Kise sono il sunto vivente di molte cose che avrei voluto; ce l’ho messa tutta per fare riconoscere le mie capacità a Shin-chan, sono stato felice come amico nel vederlo sorridere mentre giocava, ma alla fine credo di aver fallito sia come compagno di squadra che come amico, con tanti saluti all’essere più cose per lui».
«Perché in questi mesi non hai mai provato a riparlargli?»
Lo fissò sorpreso. «Credo che allora tu non abbia mai visto Shin-chan arrabbiato, altrimenti non mi avresti posto questa domanda. E comunque io rispetto Shin-chan: se è andato via così lontano è di sicuro perché voleva lasciarsi parecchie cose dietro di è, fra cui anche me – penso sia palese – mi sembra irrispettoso anche solo andare a picchiettargli sulla spalla per chiedergli come sta».
«Ma se tu l’incontrassi per caso, lo eviteresti?»
Gli si afflosciarono le spalle. «Tetsu-chan, mi vuoi male?»
«Non sempre» ammise inespressivo.
«Ciò mi consola molto». Si alzò per rimettere la birra in frigo. «Diciamo che non mi va di incontrarlo di colpo, preferisco essere preparato prima». Alzò gli occhi al soffitto con fare sospettoso e ironico, guardò in più direzioni. «Quindi, Akashi, se mi stai ascoltando, sappi che mi piacerebbe saperlo prima se Shin-chan ha intenzione di venire da queste parti».
«Takao-kun, smettila, Akashi-kun non ha posto alcuna microspia nel nostro appartamento» sbuffò.
«Ho i miei dubbi» tenne a sottolineare. «A parte ciò, non eviterei mai Shin-chan, non è il mio stile, ma non saprei cosa dirgli, visto che credo di avergli già detto tutto» concluse serio.
«Capisco».
Takao chiuse il frigo e vide di sottecchi Kuroko riaprire il proprio libro. Eh no, Tetsu-chan non poteva mica lasciarlo da solo a pensare al passato. «Tu non hai nulla da aggiungere, Tetsu-chan?»
Kuroko lo fissò per un attimo. «Niente di rilevante, la penso come te».
«Non era una richiesta di opinioni!»
«No, la penso sul serio come te: forse ho fallito anch’io in uno dei miei ruoli». Poi aprì con calma e cocciutaggine il proprio libro e pose fine alla discussione.
Takao si dovette arrendere al non riuscire a cavargli niente dalla bocca. «Vado a farmi una doccia» l’informò rassegnato andando in bagno.
Nonostante tutto la convivenza con Kuroko si stava rivelando produttiva, speravo solo di riuscire ad assestare ancora meglio il ragazzo: aiutare lui era come aiutare se stesso, e salvo futuri scossoni improvvisi potevano farcela entrambi a voltare del tutto pagina ed essere persone nuove. Bastava solo fare un altro passo ancora.


Kasamatsu aveva riportato Kise a casa – nella loro casa – gli aveva tolto gli occhiali, l’aveva spinto a stendersi a letto e poi si era sdraiato al suo fianco.
Kise non piangeva più, però si era subito rifugiato contro il suo petto artigliando nervoso le mani dietro la sua schiena; lui aveva sospirato, preso il plaid più vicino a loro e coperto entrambi, poi l’aveva stretto a sé. In fondo aveva il bisogno di sentire Kise aggrappato a lui in quel modo, che accettasse finalmente la sua offerta di appoggio, e allo stesso modo sapeva quanto l’altro avesse bisogno di essere abbracciato.
«Mi dispiace» gli mormorò Kise ancora una volta.
«Ho anch’io le mie colpe». Era stato troppo irruento e aveva rispettato poco i suoi tempi, lo sapeva. «Però siamo insieme, è questo quello che conta, no?» In risposta la presa di Kise intorno a lui divenne più forte, gli bastò. Gli accarezzò la testa e si permise di addormentarsi solo dopo aver visto Kise chiudere finalmente gli occhi.


Due settimane dopo, Kasamatsu stava preparando la colazione e di tanto in tanto guardava l’orologio; Kise era fuori a correre.
Aveva pensato che la prima cosa da fare per dargli un’aria più sana e farlo stare meglio fosse ristabilire il suo ciclo di sonno e veglia; erano mesi che per questioni logistiche Kise non si allenava più, fare un po’ di attività fisica probabilmente l’avrebbe anche rallegrato, così l’aveva spinto man mano a puntare la sveglia sempre un po’ più presto proponendogli di andare a correre. La tattica stava funzionando e come reazione ora mangiava anche di più.
Erano già un paio di giorni che Kise andava a correre da solo, Kasamatsu si disse che adesso poteva anche smetterla di preoccuparsi. Salvo poi guardare di nuovo l’orologio. Tra l’altro ultimamente l’aveva visto rimuginare su qualcosa dopo aver ricevuto un piccolo pacchetto da parte di Akashi, e ciò non prometteva per niente bene. Soprattutto perché c’era di mezzo Akashi.
Quando lo sentì rientrare, sospirò sollevato.
Kise lo raggiunse sudato e sorridente in cucina, andando subito a servirsi un bicchiere d’acqua fresca. «Hai una partita amichevole di mattina presto, oggi?» gli chiese; aveva notato che indossava la tuta della squadra.
«Sì» fece una piccola pausa. «Ti andrebbe di venire?» propose cauto.
Kise si sedette al tavolo di fronte a lui. «Uhm» giocherellò col bicchiere, «passo. Vorrei fare alcune cose, oggi» l’informò a sguardo basso.
Si accomodò davanti a lui a propria volta. «Tipo?» indagò senza riuscire a fingere nonchalance.
«Ho riflettuto molto in questi ultimi giorni».
Kasamatsu capì che avrebbe iniziato le spiegazioni da molto lontano. «E?»
«Non tocco un libro da mesi, credo che cambierò corso: sto pensando alle cose che mi piace fare, ad altre cose».
Si trattenne dal prendergli una mano e dirgli "Puoi fare tutto quello che vuoi, tutto" solo perché sarebbe stato patetico e troppo teatrale, però avrebbe davvero tanto voluto farlo, anche in barba al proprio orgoglio. «Hai intenzione di lasciare pure il lavoro da modello» intuì.
«Sì» sbuffò ironico posando il mento sul palmo di una mano. «Voglio cercarmi un altro lavoro… Kurokocchi mi ha detto che il suo vecchio coach ha aperto una nuova palestra, forse per regalarla in un futuro prossimo alla figlia – sarebbe da lui – e gli servono degli assistenti, gente che si occupi delle scartoffie dei nuovi iscritti… Non è molto lontana da qui».
«L’ambiente potrebbe piacerti» commentò col proposito di incoraggiarlo.
«Lo penso anch’io» accennò un sorriso. «Avrei l’opportunità di lavorare con persone che in linea di massima conosco e che non mi porrebbero domande su cosa fa adesso "il famoso Kise Ryota, modello e giocatore di basket che stava perdendo la vista"» marcò l’ultima frase con un leggero sarcasmo.
«Questo è senz’altro un punto a favore».
«E le chiacchiere con Alexandra Garcia mi hanno anche dato altro da pensare» confessò con sorriso.
Kasamatsu si appuntò di ringraziare Kuroko per aver passato loro quel contatto; certo, Kuroko, invece di chiedere direttamente a Kagami il numero di Alex, aveva prima rintracciato Murasakibara affinché lo chiedesse a Himuro, ma del piccolo particolare del rapporto che aveva ora l’idiota coppia d’oro del Seirin ne avrebbero discusso dopo.
«È una donna tosta».
«Sì» annuì Kise con un piccolo ghigno, «prima d’ora l’avevo solo incontrata brevemente un paio di anni fa, in un’occasione non molto felice, tra l’altro. Ora allena un paio di squadre di bambini e… non so, l’idea di allenare mi stuzzica» ammise.
«I bambini?» chiese perplesso.
«Anche… Kurokocchi alle elementari non ha avuto modo di frequentare un club di basket, giocava su un vecchio campetto con un ragazzino di un’altra scuola: qualora incontrassi bambini nella stessa situazione che ha vissuto lui non mi dispiacerebbe insegnare loro quello che so, anzi; però stavo anche pensando a qualcos’altro…»
«Cosa?» incalzò con un filo di preoccupazione.
Kise trasse un grosso sospiro, probabilmente prevedendo una sua reazione non molto buona. «Akashicchi mi ha mandato dei video… delle partite…»
«Di cosa?» insisté di nuovo.
«Basket in carrozzina» rispose tutto di un fiato.
Kasamatsu lo fissò più perplesso e confuso di prima.
Lui proseguì. «Non credo che l’abbia fatto per dirmi che c’è chi sta peggio di me o per consolarmi facendomi vedere quanto questi giocatori siano pieni di vita: non è da lui e comunque non è il genere di cosa che con me funziona, perché suona come una consolazione troppo artefatta. È solo che… è sport» sottolineò pensieroso, sembrava alla ricerca delle parole giuste da usare, «e credo che Akashicchi sapesse benissimo che così facendo avrebbe catturato la mia attenzione».
«Perché?» domandò scettico. «Quali sono le differenze con il basket normale?»
«Tecnicamente quasi nessuna, nel regolamento è previsto solo la segnalazione di qualche tipo di fallo in più, la vera differenza sta nel livello di strategia di gioco».
Kasamatsu lo fissò meglio: Kise aveva l’espressione di un bambino davanti ai doni il giorno del proprio compleanno, con in più negli occhi il brillio di un giocatore esaltato pieno di spirito competitivo. «Cioè?»
«Le squadre di basket in carrozzina sono formate da persone che hanno handicap diversi fra di loro: ci possono essere giocatori con paralisi più o meno diverse a seconda del tipo di lesione subita alla spina dorsale, per esempio, e altri ancora che possono ancora muovere tutto il corpo perché hanno "solo" una gamba amputata; di conseguenza non tutti hanno la stessa capacità di muoversi per il campo e ognuno di loro prima di giocare viene schedato: tutti hanno un punteggio che va da 1 a 4,5 a seconda delle proprie abilità fisiche e durante una partita la somma del punteggio dei giocatori schierati da un coach non deve superare 14,5, in modo tale che le due squadre siano pari. È lì che entrano in gioco le abilità strategiche» quasi ghignò, «perché si crea un gioco di squadra particolare si può anche giocare in inferiorità numerica e vincere!»
Kasamatsu inarcò un sopracciglio. «È peggio degli scacchi».
«Esatto! Le partite sono perfino più intense del basket per normodotati, c’è una certa… forza… e, non so» sospirò, «è basket, ma con più sfide all’interno, e mi attira».
Provò a fare il punto della situazione e pose la propria intuizione. «Akashi ti ha proposto di diventare il coach di una squadra di basket in carrozzina di cui è il benefattore?»
«Non esattamente» lo corresse in modo un po’ timido. «La sua famiglia ha dato un grosso contributo alla costruzione di un nuovo centro sportivo per disabili che comprende anche un campo di basket, c’è quindi la possibilità materiale di fondare una nuova squadra e hanno già un papabile coach, però ci vorrebbe un assistente…»
«E lui ha pensato a te» concluse Kasamatsu.
«Ha aggiunto anche che prevede che potrei diventare coach entro un anno e mezzo» disse con un filo di voce.
«Prevede, eh?»
«Dovrei sostenere un paio di corsi, però la cosa mi interessa, e nel frattempo potrei decidere quali nuovi studi intraprendere all’università».
«Non è una cattiva idea» fissò lo sguardo sui suoi occhi, più vivi di qualche giorno prima e brillanti d’aspettativa, «non lo è per niente».
«Quello che so è che non voglio allontanarmi dallo sport, devo però cercare di capire come».
«Ci riuscirai» gli disse con un piccolo ghigno fiero, «perché sei tu e perché… io sono qui» gli ricordò. «E comunque sono abbastanza contento di vedere che sei quasi tornato a essere il ragazzo di una volta che diventava infantile e felice come un bambino quando si trattava di giocare» lo prese in giro.
«Yukio, lo sai che per quanto riguarda giocare a basket non diventerò mai abbastanza maturo» protestò semiserio.
Kasamatsu sorrise scuotendo la testa. Da dopo lite succedeva sempre più spesso che si chiamassero per nome; non avevano mai discusso sulla faccenda, lui non aveva mai detto a Kise se poteva smettere o meno di chiamarlo senpai, soprattutto perché sapeva che per entrambi quell’appellativo era un simbolo tenero e nostalgico che aveva sempre caratterizzato il loro rapporto. Ora però a quanto sembrava era arrivato il momento di fare un passo avanti e lasciarsi alle spalle i ricordi nostalgici: non erano più ragazzini, lui aveva pure superato i vent’anni.
«Sai» continuò Ryota, intrecciando le dita alle sue e fissandogli la mano con una buffa espressione assorta, «credo che purtroppo io qualche settimana fa avessi dimenticato qualcosa».
«Cosa?»
«Hai presente quando si dice di due persone che stanno insieme che "hanno una storia"? Beh, io e te ci conosciamo da anni, abbiamo condiviso molti momenti e abbiamo fatto parte uno della vita dell’altro con ruoli diversi, abbiamo il peso di una storia sulle nostre spalle e magari la prossima volta, prima di perdermi dietro a delle paranoie, dovrei chiedermi che valore do allora a ciò che siamo stati prima…»
«Ryota…» provò a fermarlo, ma lui sorrise e gli fece cenno di tacere portandosi un dito alle labbra.
«Noi non abbiamo "una storia": tu e io» indicò con un dito prima lui e poi se stesso, con un movimento lento, «siamo storia».
C’era stato tanto di Ryota in quella frase – tenerezza e modi dolci e un po’ infantili uniti a un pizzico di arroganza, presunzione e fierezza – che Yukio non si trattenne: si alzò dalla sedia e si protrasse verso di lui per baciarlo sulla bocca. Dopo si lasciò perfino andare a un’esternazione irrazionale e non necessaria – secondo il suo orgoglio. «Sono felice».
Ryota rise. «Sì, siamo una storia fichissima».
Yukio gli diede uno scappellotto e gli scompigliò i capelli, risero insieme. La tempesta era finita, ora si poteva ricominciare ancora una volta.


Poco più di un anno di dopo.

Takao camminava lungo il marciapiede con aria soddisfatta; stiracchiò le braccia verso l’alto e poi restò in contemplazione del cielo azzurro e terzo sopra di lui incrociando le braccia dietro la testa: con i ciliegi in fiore giocare al campetto sarebbe stato ancor più bello – sorrise compiaciuto della scelta fatta quasi due anni e mezzo prima.
«Takao-kun, cammina guardando in avanti» lo riprese Kuroko, monocorde.
Stavano proprio andando al campetto a giocare con gli altri, Kuroko lo seguiva restando un paio di passi indietro: stava controllando e leggiucchiando la posta cartacea ricevuta.
«Uh, Tetsu-chan, non fare la mammina apprensiva, tanto non c’è nessuno qui intorno!»
«Ma il marciapiede non è solo tuo».
«Sì, ma per il momento non c’è nessuno» si ostinò a dire senza abbassare lo sguardo. «O almeno credo». Sospirò e si voltò appena per rivolgergli un’occhiata di sottecchi. «Ci sono novità? Oltre alle bollette da pagare, intendo». Stava fissando una strana cartolina bianca.
«Ho ricevuto l’invito ufficiale al matrimonio di Aida-san e Hyuga senpai».
Takao non ne restò stupito, sapeva da Kuroko e Kise che quei due presto sarebbero arrivati a quel punto, la vera sorpresa era un’altra. «E come ha fatto Hyuga a restare vivo dopo aver chiesto a Kagetora la mano di sua figlia?»
«Non lo so, forse Kise-kun ne saprà di più» tagliò corto inespressivo conservando l’invito nel piccolo borsone che aveva con sé.
Kise aveva iniziato a lavorare per Kagetora un anno prima, subito dopo essersi presentato alla palestra per il posto di assistente; per quel che Takao ne sapesse, il vecchio coach gli aveva posto solo poche domande prima di assumerlo.
«Sei qui per spiare le grazie della mia amata Riko-chan?»
«No, veramente non mi piacciono le donne, sto con un ragazzo».
«Puoi iniziare oggi stesso».
Kise era diventato il cocco di Kagetora e nessuno ne era rimasto meravigliato, soprattutto perché il ragazzo si divertiva un sacco a scovare per il proprio capo i tizi che provavano a spiare le donne della palestra. Tra l’altro, l’antica rivalità sportiva con il Seirin l’aveva portato a segnalare tutte le volte a Kagetora la presenza di Hyuga nelle vicinanze di Riko: per Kagetora ciò era fantastico, per Hyuga un incubo, per Kise e Takao era invece dannatamente divertente.
Una volta salite le scale di pietra irregolare, Takao corse allegro fino al campo: vi trovò già Kasamatsu, Sakurai e Furihata ad aspettarli, si stavano riscaldando.
«Scusate!» pigolò dispiaciuto Sakurai. «Sono arrivato prima di voi!»
Il sopracciglio di Kasamatsu come al solito scattò verso l’alto, gli diede un calcio. «Vuoi smetterla di chiedere sempre scusa, idiota?!»
«Mi scuso per essere sempre così pieno di scuse, senpai!»
Altro calcio.
Furihata attirò l’attenzione di Kuroko sventolando in aria un foglietto di cartoncino. «Kuroko, l’hai ricevuto anche tu?» chiese festoso, riferendosi all’invito alle nozze.
«Sì» gli annuì sorridendo. Takao vide che stava per aggiungere qualcosa, ma all’improvviso qualcuno dietro di loro li sorprese circondando sia le sue spalle che quelle di Kuroko con un le braccia: Kise.
«Senpai, siamo stati invitati anche noi!» trillò Kise intromettendosi di colpo; poi allungò un braccio in avanti facendo un segno di vittoria con due dita. «E con questo ho finito di adempiere il mio compito da sgominatore di Hyugacchi!»
«Kise-kun, non credo però che questo ti abbia reso simpatico ai futuri sposi» obiettò Kuroko.
«Awww, non è vero! Io li adoro!» protestò.
«Chiedo scusa» frignò Sakurai, «a quanto pare fra di noi io sono l’unico a non essere invitato!»
Takao schioccò la lingua. «Naaah! Neanch’io sono fra gli invitati!» Gli fece l’occhiolino e gli diede una gomitata scherzosa sul fianco. «Mettiamoci pure in conto come imbucati!»
«Chiedo scusa per essere un imbucato!» Il calcio di Kasamatsu arrivò prontamente.
Furihata provò a cambiare discorso prima che il capitano avesse modo di uccidere di botte Sakurai. «Ho sentito Koganei per telefono l’altro giorno: Hyuga e Aida hanno avuto il piacere di invitare tutta la vecchia squadra del Seirin».
Takao si fece ironico. «Chi accompagna questa donna all’altare?» recitò solenne. «L’intero club di basket del Seirin High!» continuò con un vocione. «Non credo che vorrò perdermelo: suona spettacolare!»
Furihata era entusiasta. «Per l’occasione Kagami tornerà in Giappone! Ci saremo proprio tutti!»
Takao viveva da troppo tempo con Kuroko per non capire i suoi cambiamenti d’umore anche senza guardarlo direttamente: si era pietrificato.
«Eh, Kagamicchi!» commentò flebile Kise, intuendo. «Che bello!»
«Già!» sorrise Furihata. «Non lo vediamo da anni!» Si rivolse a Kuroko, che era rigido come un pezzo di ferro. «Non ne sei contento?»
«Lo trovo interessante» rispose, prima di girarsi e fare qualche passo. Inciampò sui propri piedi e finì a terra di faccia.
«Tetsu-chan!»
«Kurokocchi!»
I due l’aiutarono a sollevarsi da terra e controllarono che non si fosse rotto il naso.
«Per fortuna è solo un graffio» sospirò sollevato Kise; infilò una mano in tasca e ne estrasse una manciata di buffi cerotti con dei pupazzetti disegnati e un paio di elastici colorati per capelli. Gli appiccicò sopra il naso un cerotto celeste con delle ranocchie stampate sopra. «Kurokocchi, stai bene?» gli chiese perplesso.
«Sì» rispose incerto.
Takao si accigliò. «Sai, non suoni molto convincente, e non solo perché hai un cerotto per bambini sulla faccia».
«È solo perché non ero preparato» tagliò corto allontanandosi da loro.
Takao sbuffò. «Credo che per ora sia meglio lasciarlo un po’ da solo…» osservò poco convinto. Subito dopo sentirono uno scalpiccio e della grida infantili gioiose.
«Kise sensei! Kise sensei!»
Dietro la rete c’erano tre bambine con le guance rosse dalla corsa; una di loro aveva un pallone da basket in mano.
«Uhhh! Le mie pupille!» esclamò con enfasi Kise andando verso di loro e invitandole a entrare in campo.
Sentirono dietro di loro Kasamatsu sbuffare. «Perché in ogni modo il risultato non cambia? Ci sono sempre delle donne che lo cercano e chiamano prima di ogni partita!»
Takao conosceva ormai bene le piccole Nana, Yuri e Sakura, erano delle bambine con tanta voglia di giocare a basket che Kise aveva più o meno volontariamente attirato a sé: all’inizio aveva incontrato Nana al parco che fissava corrucciata il pallone che aveva ricevuto in regalo dal papà – lei ne aveva chiesto uno da pallavolo, non da basket – lui aveva chiesto alla mamma che era lì vicino se poteva insegnare alla piccola come usare il pallone nuovo e aveva ricevuto il permesso; il giorno dopo però Nana era tornata al parco sperando di incontrare di nuovo Kise e quello dopo aveva portato con sé anche la sua amichetta Yuri; poco dopo Sakura li aveva visti e gli aveva domandato se poteva unirsi a loro anche se non li conosceva.
Le piccole avevano iniziato a chiamare Kise "sensei" e spesso e volentieri non esitavano a seguirlo di nascosto fino al campetto, come di sicuro avevano fatto quella volta.
Tra l’altro Takao, origliando alcune conversazioni telefoniche fra Kuroko e Akashi, aveva scoperto che quest’ultimo naturalmente sapeva già della cosa e chiamava le tre bambine "le protégés di Ryota": Takao sperava in cuor suo che Akashi non progettasse di reclutarne in qualche modo altre tre per poi pagar loro una borsa di studio per la Teiko, e dopo ancora per sei scuole superiori diverse "a caso" affinché poi si sfidassero fra di loro, giusto per rivivere dei vecchi fasti.
«Vi avevo detto di filare a casa a fine allenamenti!» le rimproverò Kise con affetto.
Nana mise il broncio e si aggrappò alla sua manica. «Vogliamo vedere una vostra partita, solo una
Kise sbuffò e s’inginocchiò davanti a lei. «Va bene, solo una, però!» Le tre bambine saltellarono contente. «E stai attenta, Nana-chan! Hai una scarpa slacciata!» Le indicò il piede e poi le strinse personalmente le stringhe.
Sakura si buttò fra le braccia di Takao senza tanti complimenti. «Kazu-nii!» trillò, mostrandogli gli occhioni brillanti nascosti dietro un paio di occhiali.
"Sono finito" pensò, e ostentò ironica pazienza nel sollevarla da terra per issarsela sulle spalle. «Sakura-chan, come procedono i tuoi tiri?»
«Sto diventando sempre più brava!» si vantò sicura.
«Sei il mio orgoglio
«Uh, Kazu-nii» gli abbracciò la testa, «da grande diventerò la tua sposa!»
Vide Kise trattenere una risata sputacchiando; lui schiarì la voce.
«Eh… vedremo, Sakura-chan!» La riacchiappò per i fianchi per farla scendere e le stampò un bacio sulla guancia che la fece squittire di gioia.
Kise rifece velocemente i codini a Nana – il motivo per cui si portava così tanti elastici appresso era per far giocare le bimbe con i capelli legati, da brave campionesse – e poi chiese a lei e alle due di stare buone a "fare la guardia" ai loro borsoni mentre li guardavano giocare, così non si sarebbero allontanate.
Mentre tornavano dagli altri – impegnati a discutere e a fare dei tiri liberi – Takao decise di togliersi il tarlo. «Akashi non ha intenzione di mandarle alla Teiko, vero?»
Kise rise. «Chissà! Anche se Nana la vedrei bene poi alla Kaijo…»
Lui sbuffò divertito. «Perché si chiama "Nana"?» ironizzò battendo un pugno al centro del petto, all’altezza di dove avrebbe dovuto esserci il numero di maglia.
Gli rivolse un piccolo ghigno. «Anche».
«A parte questo» trasse un grosso respiro diventando serio, «Kuroko non era preparato affatto al rientro in patria di Kagami, eh?» indicò l’amico in questione con un cenno della testa.
«Potremmo anche aiutarlo a prepararsi, no? Manca un mese» gli ribatté sicuro.
«Poco meno di un mese» lo corresse. «Non so… spero solo che non arrivino anche altri problemi!» Si stiracchiò le braccia facendo i pochi passi che li separavano dagli altri.
Tutto sommato quella finora era stata una bella giornata, cos’altro poteva accadere ancora?


Ryota aveva parlato al telefono con Akashi sentendo per sottofondo gli esercizi con la chitarra che stava facendo Yukio; per tutto il tempo nelle sue note aveva percepito la sua perplessità sull’effetto che il ritorno di Kagami avrebbe avuto su Kuroko – Yukio era sempre così tanto "capitano"… – e anche l’irritazione di saperlo al telefono col capitano delle medie.
Sapeva bene che in realtà Yukio non era propriamente geloso di Akashi; il senpai e capitano che c’era in lui si irritava come una bestia nel vedere qualcuno più giovane di lui comportarsi ancora come un capo con dei suoi compagni e… ilsuo compagno: era una questione di orgoglio.
In tutta onestà, Ryota non sapeva bene come riferirgli che si prospettavano altri problemi all’orizzonte – dopo quel pomeriggio erano già abbastanza in ansia per Kuroko – ma tant’è, da qualche parte doveva pur cominciare.
Yukio era seduto sul letto, con la schiena rivolta verso la testiera; Ryota si accomodò di fronte a lui e con un sorriso dispettoso gli rubò la chitarra dalle braccia – anche se con cura. Una volta imbracciato lo strumento, strimpellò un paio di note in modo maldestro; Yukio non aveva neanche protestato, anzi vide di sottecchi che lo stava fissando incerto.
Ryota si sentiva un po’ ragazzina nell’ammetterlo, ma certe volte avere fra le braccia quella chitarra lo confortava, perché Yukio la suonava da anni, da quando era ancora ragazzino, sopra c’erano attaccati un paio di adesivi con dei motti e non poteva fare a meno di immaginare quante volte in passato l’avesse suonata in momenti particolari della sua vita. Forse qualche volta, quando ancora non stavano insieme, l’aveva perfino suonata pensando a lui. Amavano entrambi quella chitarra.
Strinse di più lo strumento a sé e si decise a parlare. «C’è un problema… o meglio, è sorta una questione».
Yukio incrociò le braccia al petto, serio. «Spara».
«La…» la voce gli uscì troppo flebile, fece un colpo di tosse. «Dicevo, la prossima settimana presso la nostra università si terrà un interessantissimo convegno con dei grandi esperti di fisioterapia ed è un evento davvero, davvero… unico».
Lui lo fissò perplesso. «Se il dilemma in questione è che l’orario coincide con un tuo turno in palestra, posso sostituirti io: non credo che per Kagetora e Riko sarà un problema…»
«No-no-no! Non è questo il problema» "purtroppo" aggiunse col pensiero. «Vedi, si tratta proprio di un convegno importante e molto interessante, così tanto da attirare anche studenti di altre università e… Akashicchi mi ha chiamato per chiedermi se potevamo ospitare Midorimacchi, visto che anche lui vuole assistere all’evento».
Yukio restò impassibile. «Vuole morire?»
Non gli chiese nemmeno chi fra Akashi o Midorima avesse secondo lui quell’intenzione; agitò un mano. «No-no! Gli ho già detto di no e che mi preoccuperò personalmente di trovargli un alloggio comodo presso uno dei miei compagni di corso con cui andrò al convegno anch’io!» l’avvisò subito.
«Ospitarlo non sarebbe stato giusto per Takao» borbottò Yukio. «Per quanto non mi piaccia l’idea di avere in casa un tipo che ha dato un pugno a un mio amico, l’avrei freddamente accettato in nome della vostra amicizia, ma…»
«Non è che siamo proprio "amici"» lo corresse, «quando ci incontriamo il più delle volte mi augura di morire».
Yukio fece l’evidente sforzo di non averlo sentito e continuò. «Ma sarebbe stato poco corretto da parte nostra mettere Takao in una posizione poco confortevole: è un nostro amico, capita spesso che venga qui da noi, non sarebbe stato cortese farlo stare in contatto proprio con lui in uno spazio che ha sempre considerato amichevole». Era sempre stato un rigido, preciso e pratico uomo d’onore il suo Yukio. L’amava anche per questo.
«Giusto, come hai detto tu» l’indicò con un dito.
«Quindi Akashi ha previsto che tu non ti saresti lasciato sfuggire il convegno…» cominciò a elencare.
«Beh, non è che sia stata una previsione difficile, visto che voglio diventare un fisioterapista…»
Lui l’ignorò e continuò. «… probabilmente vista la portata dell’evento ha informato anche Midorima, vi ha accoppiato e ti ha chiesto pure di ospitarlo».
«Oppure ha saputo che Midorimacchi era interessato al convegno e, prevedendo che ci sarei andato anch’io, mi ha chiesto di ospitarlo».
«Perché diavolo Akashi deve sempre organizzare le vostre vite?! Alle volte penso addirittura che, quando un giorno avrà un figlio, lo prenderà in braccio, si affaccerà dal balcone di casa e voi cinque sarete lì sotto a mettervi in ginocchio!»
«Credo che tu abbia passato troppo tempo con Takaocchi, ti ha influenzato in modo cattivo». Posò a malincuore la chitarra e il plettro a terra, poi gli mise le mani sulle spalle facendogli cenno di sdraiarsi prono.
«È vero che io e lui la pensiamo alla stessa maniera» obiettò irritato, tuttavia obbedendogli docile, «ma ammetterai che Akashi…»
Ryota non gli fece finire la frase, iniziò con la serie di massaggi rilassanti e togli fatica che gli aveva insegnato Riko. Yukio tacque all’istante.
Rise divertito. «Sai, Yukio, quando ti sciogli sotto i massaggi sembri tipo quei vecchi stanchi che mettono i piedi in una tinozza di acqua calda…»
Lui si sollevò sui gomiti e gli rivolse un’occhiataccia ammonitrice.
Mise le mani avanti. «Ok. Bocca cucita, mani in azione» lo invitò a stendersi di nuovo; riprese a massaggiarlo. «Ovviamente non nasconderò a Takaocchi che Midorimacchi sta per arrivare in città…» tornò al discorso di prima.
Yukio borbottò con la faccia pressata contro il cuscino. «Anche se non credo che al più presto lo stesso Akashi non avvertirà Kuroko dell’evento: lo sai che periodicamente gli piace distribuire il bollettino dei cazzi vostri a tutto il gruppo miracoloso».
«Sì» sospirò stanco, «lo penso anch’io. Takaocchi di certo non vorrà evitare a tutti i costi di vederlo, non sarebbe da lui, lui è il tipo da affrontare i problemi, ma credo che sia giusto che sia preparato. Da parte mia avrei però intenzione di scambiare prima due chiacchiere con Midorimacchi…» Gli toccò un punto delicato e sensibile della schiena e lo sentì mugolare piano soddisfatto – o forse gemere di piacere.
«Posso venire anch’io a fare "due chiacchiere" con lui?»
«No, perché la mia intenzione è davvero quella di chiacchierare, non di dargli due pugni: non ho bisogno di aiuto per picchiarlo» lo corresse, tuttavia ridacchiando. «E ora rilassati» calcò con cura l’ultima parola. «Questo è il punto in cui ti si accumula sempre tutta la tensione, vero?» fece pressione con i pollici in un punto ben preciso nella parte bassa della schiena. Sentì subito sotto le mani la reazione immediata dei suoi muscoli e dei suoi nervi.
«Non so di cosa tu stia parlando» si ostinò a dirgli.
«Bugiardo» ripeté la pressione, sogghignando.
Yukio in un attimo lo sorprese: ribaltò di colpo le posizioni e gli tolse gli occhiali, anche se lui continuò a ridere divertito fino a quando non si ritrovò la bocca occupata con la sua. Era sempre bello baciarsi da seduti o da sdraiati, era decisamente più comodo e confortevole, considerando gli undici centimetri di differenza di altezza che li separavano; pensandoci rise all’improvviso contro le sue labbra.
«Che hai da ridere?!»
«Niente!» Non poteva certo dirgli "Rido perché sei basso", e prima che lui potesse insistere lo baciò di propria iniziativa.
Poi Yukio divenne serio e lo guardò negli occhi. «Lo sai che dobbiamo un favore a quei due, vero?»
«Lo so, e noi non siamo mai stati i tipi da non ricambiare i favori, né dentro né fuori da un campo» e gli posò una mano dietro la testa per spingerlo a baciarlo di nuovo.
Non erano solo parole, era storia.


Kuroko, nella semioscurità della propria stanza, fissava lo schermo del proprio portatile cercando di capire cosa stesse cercando di fare Aomine.
Il ragazzo era solito video chiacchierare con lui seduto sul letto con le spalle al muro; sulle pareti di sfondo Kuroko poteva vedere i poster che Aomine aveva collezionato negli anni – tutti di modelle dai seni enormi – fra cui ogni tanto facevano capolino delle cartoline dal mondo; alle volte Kuroko si divertiva a provare a intuire chi gli avesse spedito quale. C’erano attaccate perfino un paio di foto del loro gruppetto da bambini in compagnia di Momoi.
Aomine si era protratto a prendere qualcosa posato sul comodino, ma a quanto pareva stava faticando, perché ancora non tornava verso lo schermo.
«Aomine-kun, cosa stai facendo?» domandò perplesso.
«Sto prendendo… questo!» rispose trionfante rimettendosi dritto e mostrandogli bene in camera cos’aveva fra le mani: una vaschetta rettangolare trasparente con un coperchio; era un mini acquario, dentro c’era un pesce rosso. «Tetsu, ti presento Tetsu
Kuroko non fu certo meno confuso di prima. «Hai preso un pesce rosso e gli hai dato il mio nome?»
«Ha la tua stessa faccia, guarda!» l’avvicinò di più all’obiettivo.
«Non mi sembra una buona scusa».
«Voi del Seirin avete adottato un cane e l’avete chiamato Tetsuya #2 perché aveva i tuoi stessi occhi, perché diavolo io non posso prendermi un pesce rosso e chiamarlo Tetsu perché ha la tua stessa faccia?! Cos’è questa discriminazione?»
Kuroko ci rifletté su un solo secondo. «Aomine-kun, stai sviluppando qualche problema alla vista».
«Ci vedo benissimo!... Oi, Tetsu, cos’è che hai appena preso e stai mangiando?»
Aveva ritenuto opportuno prendere il contenitore di cartone spesso che aveva accanto e aprirlo proprio in quel momento. «Sono dei dolcetti che mi ha lasciato ieri Murasakibara-kun: è venuto qui in città per una gara di pasticceria ed è passato a trovarmi. Li ha fatti lui».
«E perché mai li stai mangiando proprio davanti a me?!»
«Mi sembrava una bella cosa farti vedere quant’è diventato bravo Murasakibara-kun» deglutì un boccone. «Sono davvero buoni».
«Bastardo!» sbuffò; poi posò il piccolo acquario e divenne pensieroso. «Oi, Tetsu, secondo te sono in grado di prendermi cura di un pesce rosso?»
Kuroko ringraziò mentalmente il fatto che almeno non avesse preso un criceto: sarebbe stato ancora più traumatico vederlo morto. «Non penso sia molto difficile farlo». Aomine non stava dicendo che "l’unico in grado di prendersi cura di un pesce rosso era lui", quindi la cosa non prometteva bene.
Lui gli rivolse un piccolo ghigno che nascondeva della malinconia. «Già, ci riuscirò alla grande. Satsuki non è la sola in grado di prendersi cura degli altri».
Ecco doveva voleva andare a parare con quel povero pesce: Momoi. «Momoi-san sarà indubbiamente molto felice di sapere che non sei capace di uccidere un pesciolino».
«Io e lei abbiamo litigato di nuovo» ammise recalcitrante. Kuroko ci avrebbe scommesso. «Perché non smette di ficcare il naso nei miei affari e insiste col fatto che deve badare a me».
Kuroko non gli aveva mai chiesto in modo diretto cosa provasse per Momoi, sia perché Aomine non era il tipo da saper portare avanti certi discorsi se riguardavano i propri sentimenti, sia perché non c’era certo bisogno di avere conferme: era pure abbastanza certo del fatto che Aomine se ne fosse reso conto solo una volta arrivato al college.
Ricordava ancora bene una riflessione meditabonda che Aomine aveva fatto a voce alta un paio di anni prima a proposito di lui e Kagami. «… Perché quando si è bambini è normale essere egoisti ed egocentrici e pensare che certi comportamenti di una persona in particolare ci siano dovuti; poi da ragazzini il proprio mondo si amplia e si complica, i rapporti si danno per scontati per inerzia e testardaggine, per non rendersi ulteriormente difficile la vita analizzandoli scavandoci dentro; una volta cresciuti, però, si vorrebbe tornare indietro per riavere la possibilità di sviscerare a fondo tutto quello che c’è stato fra te e quella persona, perché se solo si fosse fatto ciò a tempo debito, ora non sarebbe troppo tardi per rendersi conto di ciò che c’era».
Kuroko non aveva impiegato molto a capire che si stesse riferendo anche a lui e Momoi.
Momoi aveva sempre seguito Aomine con una dedizione più che fraintendibile; diceva di essere innamorata di Kuroko, eppure aveva seguito Aomine alle superiori, "perché da solo si caccia nei guai", e dopo il diploma era pure arrivata a lasciare tutto e andare con lui in America senza alcun ripensamento. Poteva ben capire perché Aomine fosse stanco del comportamento di Momoi e desiderasse che lei smettesse di intromettersi in tutto ciò che lo interessava: doveva fare davvero male vedere che nonostante tutto alla fine il ragazzo che lei amava non era lui e le sue attenzioni non avevano ulteriori motivazioni. La gentilezza di Momoi era crudele.
Per Aomine la questione del pesciolino era un modo cocciuto e infantile per dire a Momoi che, se era in grado di prendersi cura di un animaletto, poteva anche prendersi cura di se stesso da solo; Momoi poteva anche finalmente lasciarlo in pace e non illuderlo più inconsapevolmente.
Kuroko inspirò a fondo e chiuse la scatola di pasticcini, sorrise nostalgico. «Sono sicuro che tu e Momoi-san riuscirete a far pace, come sempre». Poi decise di cambiare discorso e alleggerire l’atmosfera. «Mi avevi detto di voler vedere le bambine di Kise-kun». Andò a cercare la cartella delle foto che aveva trasferito dal cellulare al computer.
«Ah, sì» ghignò, «"le protégés di Ryota"!»
Gli inviò un paio di immagini. «Alle volte penso che finiremo per "adottarne" una ciascuno… Nana-chan però è già tutta di Kise-kun». Vide Aomine sorridere osservando le foto.
«Che carine, vien voglia di prenderle in giro tenendo un pallone troppo in alto per loro manine!»
«Aomine-kun, hai sempre dei pensieri così cattivi…»
«Lo sai che non ci so fare con i bambini» si schermì, continuando però a sghignazzare, «non sono mica come te!» Poi cambiò espressione. «E adesso dimmi cosa ti passa per la testa, che quando abbiamo iniziato la conversazione mi sei sembrato più apatico del solito!»
Forse per questo gli aveva fatto vedere subito il pesce rosso, per distrarlo… Abbassò lo sguardo sulla tastiera. «Il mese prossimo Kagami tornerà in Giappone, per il matrimonio di Hyuga senpai e Aida-san».
Gli rivolse un’espressione annoiata. «Vedo che sprizzi gioia da tutti i pori, hai già inciampato da qualche parte dopo la notizia?»
«Sì».
«Su con la vita, Tetsu!» Kuroko lo vide battere una mano sul proprio ginocchio, forse memore di quando gli dava pacche sulla testa e gli arruffava i capelli. «Magari è la volta buona per parlargli!»
«Se in questi anni non abbiamo cercato o rincorso l’occasione giusta per farlo, cosa ti fa pensare che lo faremo ora?»
«Forse perché avrete meno scuse per non farlo? Sarete costretti a stare nello stesso posto, nella stessa città, e poi lo sai come vanno queste cose: quando non ci si vede da parecchio tempo ci comincia a parlare dei bei tempi passati come fanno i vecchi e poi… succede».
«Aomine-kun, credo che tu abbia visto troppe commedie americane».
«Beh, prova a stare tu negli States e guardare della TV giapponese!» protestò. «E comunque non è questo il problema, Tetsu! È la tua occasione e tu non sei il tipo da rinunciare alle cose che tieni, non l’hai fatto con il basket e non l’hai fatto con me, perché dovresti farlo con quell’idiota di Kagami?!»
Sotto tutte quelle pressioni, Kuroko si sentì irritarsi, alzò la voce. «Perché non si tratta di un gioco ed è più complicato di un’amicizia e fa…» si fermò rendendosi conto che se la stava prendendo con la persona sbagliata e per le ragioni sbagliate, e non era da lui.
«Male?» continuò per lui Aomine, aveva pure un sorrisetto soddisfatto sulle labbra, doveva essere contento di esser riuscito a fargli sputare fuori il rospo insieme a parecchie frustrazioni.
«Sì, male».
«Mi piace sempre vederti arrabbiato, Tetsu, perché vuol dire che da quel momento in poi non ce ne sarà più per nessuno». Gli mostrò un pollice all’insù. «Vai carico, parlagli».
Sbuffò seccato e rassegnato. «Aomine-kun, se lo farò non sarà di certo perché mi hai fatto arrabbiare».
«Andiamo, su con la vita, Tetsu!» ripeté. «E comunque, a proposito di Kagami, fra un paio di settimane giocherò contro la sua squadra» ghignò sadico. «Gli farò vedere di nuovo che l’unico in grado di battermi sono solo io stesso!... A parte ciò, vuoi che chieda alle nostre cheerleader di fargli delle foto? Così poi te le passo».
«Aomine-kun…»
«Perché giocheremo in casa e so per certo che quelle cagne infernali hanno trovato il modo di spiare anche negli spogliatoi degli avversari, quindi volendo potrebbero fornirti del materiale…»
«Aomine-kun!»
«Che c’è?! Stai parlando con un uomo che ama questo "genere" di materiale, anche se di tipo diverso» gli indicò i poster alle sue spalle, «sto cercando di capirti e di venirti incontro, di esserti amico
«Ti preferivo quando parlavamo di pesci rossi».
Kuroko però pensava che, al di là degli argomenti imbarazzanti, quei passi in avanti fatti da Aomine nel basket e di riflesso nel suo rapporto con gli altri e quella boccata d’aria presa in America gli avessero fatto davvero bene: almeno per loro non era stato troppo tardi, e per quanto a volte si concedessero comportamenti infantili non avevano mai sul serio rimpianto di non poter tornare indietro, perché vivevano nel presente il migliore dei rapporti che fra di loro poteva esserci. Erano stati fortunati.


Midorima aveva ascoltato il proprio oroscopo quella mattina, sapeva bene che avrebbe dovuto stare attento alle possibili turbolenze portate da un gemelli, ma quel tipo era davvero fastidioso da evitare e comunque non sarebbe stato corretto rifiutarsi di incontrarlo dopo il disturbo che si era preso nel cercargli un alloggio gratis. Magari sarebbe rimasto giusto il tempo di vederlo e dirgli in modo cortese e distaccato "Ciao. Muori".
L’appuntamento era presso il fast food della catena Maji Burger della città, e già la scelta un po’ infantile del luogo gli aveva fatto storcere il naso: non aveva certo voglia di ricordare i tempi in cui erano stati ragazzi.
Non appena entrato nel locale, non gli ci volle molto per trovare dove quel dannato bastardo si fosse seduto: era un tipo che spiccava, sempre, e come al solito le donne presenti gli stavano lanciando occhiate estasiate e ammirate.
Midorima emise un basso lamento di frustrazione e andò a sedersi davanti a lui.
«Midorimacchi!» trillò allegro.
«Kise» ribatté atono.
«È bello rivedersi dopo così tanto tempo, no?»
«No».
Kise mise un lieve broncio e afflosciò le spalle. «Non potresti almeno provare a fingerti contento?»
«Non è il mio stile». In risposta ricevette un sospiro amareggiato.
Era vero che Kise si faceva notare come al solito, ma ora a osservarlo da vicino si accorse che era diverso, in un modo che all’iniziò quasi gli provocò dell’inquietudine.
Il Kise che ricordava era un ragazzo che lavorava come modello, un tipo con una propria eleganza innata, una sorta di vistoso gioiello d’oro che brillava così tanto da irritarlo e accendere in lui la voglia violenta di prenderlo e lanciarlo via lontano come un pallone da basket. I cambiamenti che ora vedeva in lui derivavano indubbiamente da ciò che gli era successo, per questo li trovava un po’ disturbanti: capelli di un taglio più corto, pelle più abbronzata – doveva passare più tempo all’aperto – abbigliamento più sportivo e meno sobrio, un orecchino meno appariscente e luccicante e un paio occhiali.
Decisamente non era il Kise che aveva visto l’ultima volta quando avevano appena diciotto anni.
Era davvero disturbante.
Kise poggiò il mento sul palmo della mano e giocherellò col bicchiere di frappé che aveva davanti; la mano sinistra sul bicchiere attirò l’attenzione di Midorima: c’era un anello. Kasamatsu. Disturbante.
«Ehi, Midorimacchi, non hai proprio niente da dirmi? Non ti trovo affatto cambiato, a parte che noto che hai smesso di bendarti le dita…» indicò con un cenno della testa le sue mani, prima di prendere un lunga sorsata dal proprio bicchiere.
«Questo non vuol dire che non mi prendo ancora cura delle mie mani: per un medico chirurgo sono importanti».
«Lo so, lo vedo» ribatté con un piccolo sorrisetto nostalgico. «Io sto bene, nel caso te lo stessi chiedendo».
«Infatti non me lo stavo chiedendo».
Kise rise scuotendo la testa. «Scommetto che Akashicchi te l’avrà già detto» continuò come nulla fosse, «ma ho delle piccole protégés: sono davveeeeero super carine!» cantilenò. «Una di loro si chiama Sakura-chan e ha gli occhiali come te!» gli raccontò puntandogli scherzosamente un dito contro.
«Non sono di certo venuto qui per ascoltare come perdi il tuo tempo».
«Sto studiando per diventare un fisioterapista» proseguì imperterrito, «mi hanno ispirato i miei ragazzi del basket in carrozzina! Dovresti venire a vederli giocare, sai? Potrebbe piacerti, è un tipo di basket più strategico, potrebbe affascinarti visto quanto giochi a shogi…»
«Ripeto, non sono venuto qui per…»
L’interruppe con un’occhiata densa di malizia. «E allora per cosa?» chiese con un velo di sarcasmo. «Per cosa sei venuto fin qui? Solo per il convegno?»
«Mi pare ovvio». Era diventato ancora più scemo, per caso?
«Beh, ma dopo aver saputo come sto e cosa faccio, non puoi almeno ricambiare la cortesia e raccontarmi di te?» insinuò con sottile ironia.
«Cos’altro vuoi sapere di me che Akashi non ti abbia già sicuramente detto?»
Kise ostentò perplessità. «Non so… anzi, forse c’è qualcosa! Qualcosa che mi chiedo da quasi due anni!» Lo guardò dritto negli occhi. «Perché sei scappato via subito dopo la fine della scuola?»
Midorima lo vide mettersi a braccia conserte, in una posizione d’ascolto un po’ scomposta che non aveva nulla da invidiare al piglio tipico di Aomine. Uhm, forse era un po’ a lui che somigliava adesso. Pessimo. «Non sono scappato!» sbottò irritato. «Non c’era null’altro che il posto dove stavo potesse offrirmi, quindi ho pensato di andare altrove».
«Andiamo! Quel poco che io e gli altri riusciamo a sapere di te è sempre grazie ad Akashicchi: non hai lasciato neanche una sola traccia di quello che volevi fare adesso nella tua vita, sei andato via e basta!»
«Non ricordo che alle superiori ci scambiassimo informazioni sul nostro stato» ribatté sarcastico.
«Non siamo più dei ragazzini spocchiosi» sembrò quasi offeso, «siamo delle persone, Midorimacchi, permettici di avere delle perplessità se di punto in bianco qualcuno che conosciamo da anni non vuole più essere contattato da nessuno!»
«Non sono scappato!» Sbottò irritato da quella pressione e quella sorta di invasione mentale di spazi privati. «Volevo solo ricominciare!» Sbatté la mano sul tavolo.
Kise abbassò la voce di un tono. «Se si desidera ricominciare da capo, vuol dire che c’è sotto qualcosa che non va… o che si è rotto» insinuò serio, ma trionfante.
Adesso la clientela del locale li stava fissando, qualcuno dietro al loro tavolo già mormorava stupito del suo comportamento, le cose andavano di male in peggio. Sospirò e si ricompose spingendosi gli occhiali indietro sul naso. «Vieni al dunque: cos’è che vuoi sapere?»
«Penso che sia il caso che nessuno dei due finga di non sapere di Takaocchi: sarai di sicuro aggiornato sul coinquilino di Kurokocchi e delle persone che io e lui frequentiamo adesso. So di Takaocchi e tu sai che io lo so. Vuoi incontrarlo?»
Rise sarcastico per impedirsi di ucciderlo seduta stante. «Cosa ti fa credere che io voglia vederlo?»
Schioccò la lingua con disappunto. «Midorimacchi, alleno una squadra di basket in carrozzina, ho affinato le mie abilità strategiche: cosa ti fa pensare che io non riesca a leggere le mosse altrui ancora meglio di qualche anno fa? Detesti così tanto Takaocchi da dargli un pugno e ora per un semplice convegno accetti il rischio di frequentare persone che potrebbero portarti a incontrarlo?»
«Non è un "semplice" convegno, è un’occasione unica» precisò.
«E tu fai sempre il meglio affinché il fato sia dalla tua parte: questo non ti imporrebbe di evitare qualsiasi strada disturbante?»
Disturbante, ne aveva fin troppo di quella parola. «Il mio mondo non ruota certo intorno a lui».
Kise sbuffò una risata divertita, che possibilmente l’irritò ancor di più. «Lungi da me capire i problemi fra "un uomo e il suo playmaker"» marcò la frase con solennità teatrale, «anche se a esser sinceri forse qualcosa potrei saperne eccome…» insinuò sottilmente, riferendosi a se stesso e Kasamatsu, «ma penso di poter dire con certezza alcune cose riguardo "un uomo e la sua ombra"». Tornò a giocare col bicchiere, poi proseguì.
«Sai, credo che nel basket in carrozzina sia ancora più accentuato il fatto che questo gioco si basi sull’incontro e sull’alchimia fra cinque persone totalmente diverse fra di loro, perché in questo caso puoi vedere in modo diretto, sul loro corpo, la loro storia personale e lo sai che ciò li ha cambiati e resi ciò che sono. Il basket, come tutti gli sport a squadre, ti permette di incontrare persone diverse con storie personali diverse, e cresci con loro toccando le loro personalità con mano: me ne sono reso ancora più conto negli ultimi anni». Prese un altro sorso dal bicchiere e continuò.
«Siamo cresciuti giocando a basket, ci sono attimi in cui mi meraviglio ancora di quanto questo sport ci abbia influenzato a tal punto da essere diventato anche il nostro stile di vita. L’abbiamo praticato fin da bambini, ci ha permesso di avere le nostre prime amicizie e guardacaso questi rapporti durano ancora!» Puntò un dito contro il tavolo come a mettere di più in evidenza quanto detto. «Io amo il basket, e non solo come gioco in sé, lo amo perché mi ha portato ad avere uno spirito più forte, a conoscere persone diverse da me, a mettermi in gioco e accettare delle sconfitte anche quando avevo dato il meglio di me, e mi ha aiutato anche a dare un’altra forma al concetto di orgoglio: si può essere fieri di sé anche quando si ha perso». Accennò un sorriso nostalgico. «E c’è anche molto di più: amo il basket perché se non fosse stato per questo gioco non avrei incontrato persone così lontane dal mio modo di essere come Kurokocchi o te! Il basket ci ha portati a stare insieme e penso, anzi credo, che ci unirà sempre ed è per questo che mi piace così tanto giocare con i ragazzi ogni volta che posso!» Restarono qualche attimo in silenzio.
«Tutti voi siete delle persone importanti per me, sai» continuò Kise sorridendo, «perché avete giocato con e contro di me, vi siete scavati il vostro posto dentro di me a suon di vittorie, sconfitte, dritte arroganti non richieste, consigli preziosi… e gioco di squadra» fece una pausa significativa. «Credo che sia un vuoto difficilmente colmabile quello che lascia un compagno di squadra quando va via, soprattutto quando si è giocato insieme per anni e si è cresciuti e maturati insieme condividendo di tutto». Ancora una pausa. «Penso che lui ti manchi» aggiunse con tono di voce più basso.
Midorima evitò di replicargli guardandolo negli occhi. «Non ha importanza questo». Odiava la dannata atmosfera sentimentale che si era creata, lo faceva sentire debole.
«È ok se vuoi sapere come sta. È giusto, una cosa logica e normale».
«Non lo voglio sapere» ribatté atono; di sottecchi lo vide prendere il proprio cellulare e digitare qualcosa.
«Tu come stai, Midorimacchi?»
«Sto come sto. Bene».
«E il basket ti manca?»
«Lo pratico a tempo perso».
Kise alzò gli occhi dallo schermo e fissò lui. «Perché hai smesso di giocare?»
Sospirò e sorrise sarcastico. «Ero stanco di vedere come il basket riuscisse a tirare fuori il peggio di me e tutte le mie debolezze».
«Hai dato un pugno a Takaocchi perché in quel momento avevi di nuovo toccato il fondo delle tue debolezze, o perché lui era la tua debolezza?»
Esitò poco prima di rispondergli. «Entrambe le cose».
Kise sorrise malinconico e un po’ teatrale. «Un uomo e la sua ombra, eh?» Sospirò e spinse il proprio cellulare lungo il tavolo, verso di lui. «Anche se gli hai dato un pugno, anche se l’hai rinnegato, è davvero ok se vuoi sapere come sta».
Quello fu un colpo basso, gli aveva appena messo davanti agli occhi una foto di Takao.
Takao non guardava l’obiettivo, era stato ritratto mentre rideva e giocava, aveva il pallone da basket in mano. Midorima si lasciò mentalmente sfuggire il pensiero di quanto in quella foto i suoi lineamenti sembrassero più maturi, prima di spingere il cellulare indietro verso Kise – prima di volerlo guardare meglio e desiderare saperne di più.
«Non credo di averne bisogno» si spinse di nuovo gli occhiali indietro sul naso, «ognuno di noi è per la propria strada, adesso».
«Come vuoi» rimise il cellulare in tasca, «ma se cambi idea sono sempre a disposizione».
A Midorima diede fastidio quanto Kise fosse sembrato fiducioso su quell’ultima frase. «Se non hai null’altro da chiedermi, vado: avrei da fare».
«No, nient’altro» scosse la testa, «solo… se incontri Takao, potresti evitare di mostrarti irritato con lui? Lo dico perché non farebbe bene né a te né a lui» gli chiese serio.
«Farò quello che posso». Si congedò con un cenno secco del capo e andò via.
Fuori pioveva, come in tutte le peggiori giornate della sua vita, era un classico. Aveva prestato attenzione all’oroscopo, ma non al meteo: non aveva un ombrello. Non gli importò nemmeno.
Mise le mani nelle tasche della giacca e si strinse nelle spalle; si avviò verso la fermata dell’autobus.
Non restò sorpreso più di tanto quando si accorse che la sua memoria, in maniera del tutto indipendente dalla sua volontà, stava rincorrendo con foga il ricordo della foto di Takao, per catturarlo e farlo proprio prima che svanisse. L’aveva guardato davvero per troppo poco tempo.
Era tutto abbastanza ridicolo e patetico, compreso rendersi conto che il cambiamento di Kise non fosse disturbante perché dovuto alla malattia che gli aveva stroncato la carriera, ma perché marcava quanto fosse maturato. Kise era ancora oro come una volta, ma non più lucente e appariscente, e non perché si fosse opacizzato: era stato lavorato in superficie, si era raffinato. Era disturbante perché lui a confronto non era maturato, non era davvero cambiato di una virgola.
La pioggia cadeva incessante e lui ricordava tutte le sue sconfitte.
«Se smani dalla voglia di vincere, diventa meno compassionevole»gli aveva detto Akashi dopo la prima sconfitta contro il Rakuzan, alla prima Winter Cup delle superiori.
Durante quell’ultima famigerata partita al terzo anno, invece, si era sentito stanco di perdere perché "troppo compassionevole": aveva rimesso nei suoi compagni – e in Takao – tutta la sua fiducia e il fato lo aveva preso a pesci in faccia, di nuovo. Era stato così stanco di perdere contro Akashi, che sul campo non faceva altro che indicargli impietoso le sue debolezze, che solo al fischio finale si era accorto che in quell’ultima partita il basket era di nuovo riuscito a tirar fuori il peggio di lui, ma non come alle medie, in un altro modo, forse anche più brutto: era stato così fissato a rincorrere le proprie debolezze per porvi rimedio e di conseguenza vincere, che era finito col lasciarsi ossessionare troppo dalla sete di vittoria e dalla propria battaglia. Paradossalmente era stato così egocentrico da pensare che fossero solo le sue debolezze a far male alla squadra, aveva fatto della partita una propria battaglia personale per il bene di tutti, ridicolo.
Aveva tradito se stesso senza neanche rendersene conto.
Aveva odiato il basket e poi le sue debolezze e le sue ombre.
Takao aveva visto il meglio e anche il peggio di lui, sapeva sempre come restargli accanto come una silenziosa presenza e accettava tutte le sue stranezze. L’aveva solo preso nel momento sbagliato.
Lo ricordava ancora quell’attimo lungo un’eternità: erano rimasti da soli negli spogliatoi, lui seduto sulla panca, Takao in piedi.
Takao aveva fatto un paio di battute leggere sulla loro sconfitta, niente di troppo irritante, era sembrato pure più malinconico e triste di quanto avrebbe dovuto essere. Poi aveva aggiunto anche degli strani ringraziamenti per essersi fidato di lui e che non importava cosa pensassero gli altri dell’esito di quella partita e di come lui l’avesse giocata, perché era fiero di lui e di quello che aveva dato a tutta la squadra giocandola. Takao pensava che lui fosse una persona speciale.
«…e penso che tu sia speciale…»
Poi si era accovacciato davanti a lui per cercare il suo sguardo con il proprio e gliel’aveva detto.
«…perché sono innamorato di te».
L’aveva capito subito che Takao non scherzava affatto, proprio per questo era scattato in piedi, l’aveva spintonato contro gli armadietti e poi gli aveva dato un pugno, perché era l’incarnazione di tutte le sue debolezze, e francamente non ne poteva più.
Era andato via furioso e solo dopo aver macinato un paio di chilometri – sotto la pioggia, di nuovo – si era reso conto di aver appena fatto la più grande cazzata della sua vita.
L’unica cosa che dopo era stato in grado di fare era stato andar via lontano dalle proprie ombre e debolezze e provare a diventare una persona migliore senza basket.
«È un’autopunizione o un tentativo di redenzione, Shintaro?» gli aveva chiesto Akashi al telefono prima che lui partisse.
«Potresti farmi la cortesia di non chiamarmi più?»
«No, perché prevedo che ne avrai bisogno».
«Non parlare come se io stessi scappando, sto solo provando a costruirmi un futuro alternativo».
«Non vincerai mai nella vita se non affronterai le tue debolezze fino a farle diventare punti di forza».
Era sempre stato odioso il modo in cui Akashi gli dava delle dritte affinché potesse migliorarsi e quindi diventare un futuro nemico migliore. Akashi non aveva amici, solo persone da allenare per farle diventare i suoi nemici, giusto per insaporirsi la vita con nuove sfide.
E loro cinque gli andavano ancora appresso. Forse perché comunque non smettevano di bramare un certo proprio miglioramento. O un miglioramento di Akashi nei rapporti umani.
Tornò al presente e si fermò sotto una pensilina; continuava a piovere. Fissò il marciapiede senza vederlo, gli tornò in mente il modo in cui Takao lo chiamava.
«Shin-chan? Shin-chan!»
E poi il modo in cui rideva di lui, lo sguardo che aveva quando tramava qualcosa, la sua ironia e la semplicità con cui andava d’accordo con tutti. Perfino con lui.
«…e penso che tu sia speciale, perché sono innamorato di te».
E poi si ci era messo in mezzo Kise.
«È ok se vuoi sapere come sta».
No, non era ok, perché se nonostante il tempo passato si riduceva ancora così solo a pensarci, allora non andava per niente bene.
Aveva dato tutto la sua fiducia a Takao, Takao stesso l’aveva convinto a dargli quel peso, era irritante. La sua assenza ora incolmabile.
«Vuoi incontrarlo?»
«Vorrei» mormorò alla pioggia, «ma non posso».


Tetsu, ho ucciso il pesce!! E adesso che faccio?!

Aomine.

Non ripiegare su una tartaruga, comprane uno uguale, così magari Momoi-san non se ne accorgerà. Ritenta.

Kuroko.

   
 
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