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Autore: Loveless    21/01/2008    4 recensioni
"Questo è ciò che sono
Un escapista, cercatore del paradiso..."

Prima dell'inizio della battaglia per la fine del mondo, durante il suo corso e dopo il suo epilogo, Seishirou Sakurazuka racconta tutto ciò che è rimasto in ombra.
I ricordi all'epoca di Tokyo Babylon, il legame che lo unisce a Subaru e a Fuuma, la sua "normalità", il suo desiderio...
E, forse, chi realmente lui sia.
Genere: Dark, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hokuto Sumeragi, Fuuma Monou, Seishiro Sakurazuka, Setsuka Sakurazuka, Subaru Sumeragi
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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"I can’t feel my senses
I just feel the cold"


Mi chiamo Seishirou Sakurazuka.
Da diciannove anni uccido, ogni giorno ed ogni notte, per soddisfare la fame senza fine del mio signore e padrone, il Sakura, come ha fatto la mia famiglia per secoli.
E dal giorno in cui ho ucciso il mio predecessore, prima vittima di ogni nuovo Sakurazukamori, non ho mai provato nulla.
Non che prima sentissi qualcosa. Quel giorno mi sono semplicemente accorto che nemmeno un omicidio, che tuttora viene considerato un peccato mortale dalla maggior parte delle persone, riusciva a scuotere la mia eterna tranquillità emotiva.
A dire la verità qualcosa provo anch’io, ma rispetto a quei turbini violenti che sono le emozioni umane, le mie non sono altro che una brezza leggera.
Non sono capace di rendermi invisibile, anche se i poteri che ho ereditato mi permettono di fondermi con i petali di ciliegio, dando così l’illusione che io sia sparito nel nulla. Sono semplicemente molto abile a passare inosservato. Per questo, se mi trovassi nel bel mezzo di una folla di uomini e donne che attraversano ogni giorno le strisce pedonali di Tokyo, nessuno potrebbe mai capire chi sono io, né riuscire a vedermi come qualcuno di estremamente pericoloso.
Cosa che sto facendo proprio ora, appunto. In piedi sul marciapiede, mani in tasca, occhi puntati distrattamente sul semaforo in attesa che diventi verde, nessuno fa caso ad uno come me. Se qualcuno guardasse nella mia direzione, che cosa vedrebbe, poi? Un bell’uomo sulla trentina, abbastanza alto da superare senza problemi la tipica media giapponese, vestito bene, dall’aria un po’ scostante ed il sorriso di chi vive la sua vita senza che alcun problema la turbi. Un uomo normale, come potrebbe esserlo chiunque.
Se mi sfilassi gli occhiali a specchio, forse quel qualcuno vedrebbe la pupilla destra vuota e la mano insanguinata. Ma credo che, anche se facessi così, quella persona volterebbe subito la testa, dando la colpa delle sue allucinazioni al lavoro, alle medicine anti stress, al fumo e a chissà cos’altro.
Cosa non darebbe la gente per vivere come sempre, fingendo che non accada nulla attorno a loro…
Il segnale verde del semaforo finalmente scatta, ed io seguo docilmente la corrente di persone che, come me, deve passare dall’altra parte della strada. In queste situazioni mi vengono sempre in mente i branchi di pesci in migrazione, quelli che riescono a passare attraverso gli altri branchi quasi senza fermarsi. I due gruppi di pedoni ai lati della strada si comportano alla stessa maniera, il più delle volte, toccandosi appena e scivolando subito via.
Di solito. Oggi qualcuno mi urta con la spalla in modo talmente forte da costringermi a fermarmi, a ritrovare il mio senso dell’equilibrio e a cercare di guardare in faccia il colpevole di questo sacrilegio.
Se quello che sto fissando in questo momento fosse un adolescente normale che stava andando di fretta, probabilmente non si sarebbe nemmeno voltato ed avrebbe continuato per la sua via come se niente fosse. Lui invece allunga la mano per toccarmi il braccio, sillaba “Mi scusi tanto”, visto che non ha speranza di superare il frastuono dei clacson nemmeno se urlasse a squarciagola, e si risistema lo zaino di scuola che gli è scivolato giù, dalla spalla all’avambraccio, per poi girarsi e rimettersi a correre.
All’ultimo secondo riesce a sottrarsi all’investimento quasi annunciato da parte di una macchina, - il semaforo è tornato rosso, - con un’ultima falcata da velocista. Penso che potrebbe cadere in strada, visto che ha messo un piede in fallo e si è sbilanciato pericolosamente all’indietro, ma un tizio con i riflessi particolarmente pronti lo afferra per il bavero del giubbotto di jeans e lo risospinge sul marciapiede.
Il ragazzo ha l’aria sconvolta, ma credo sia più per il fatto di essere in ritardo piuttosto che per aver rischiato di rimetterci la vita. Ringrazia in fretta il suo salvatore e corre via, mentre i passanti si fanno da parte per lasciarlo passare.
Una faccia da ragazzo come tante, anche abbastanza facile da dimenticare, se non fosse per gli occhi. Ad un primo sguardo mi sono sembrati nocciola, come i miei, ma ora che ci ripenso sono di una tonalità più dorata. Strani occhi.
Spero di dimenticarmelo in fretta, quel ragazzo ed il suo sguardo dorato, ma qualcosa sembra volermelo impedire. Quel “qualcosa” è il giornale di stamattina che Ayase, caro ragazzo come sempre, si è premurato di lasciarmi sulla scrivania prima di passare all’università per un suo amico.
Non c’era granché sulla prima pagina, quando l’ho preso in mano, perciò mi sono limitato a sfogliare il resto del giornale con una certa pigrizia, almeno fino a quando non mi sono trovato a guardare, in fotografia, lo stesso viso di stamattina. E’ la pagina dedicata agli eventi sportivi…
Il mio unico occhio comincia a vedere tutto sfuocato, segno che le mie riserve di energia sono finite. Devo ricordarmi di mettere la lente a contatto a quello destro, ma forse è il caso di leggere subito questo mezzo trafiletto che mi interessa, o rischierò di perdere la voglia di farlo...
Piano, piano. Prima di tutto ho bisogno di un caffè o rischierò di addormentarmi sul tavolo da lavoro. Il resto, dopo. In fondo ho tempo, manca una buona mezz’ora all’apertura dello studio.
In magazzino trovo solo la confezione famiglia di quei caffè già pronti e versati in un barattolino che Ayase adora. L’unica cosa buona è che certe schifezze se le compra con i suoi soldi e non ha la presunzione di farmele piacere. Ma visto che non c’è null’altro da bere, penso che mi toccherà accontentarmi.
Quando strappo la pellicola ed annuso il contenuto liquido della tazzina, il mio stomaco fa uno sgradevole balzo all’indietro. Quando lo bevo, è anche peggio. Mi rimane sul palato lo stesso gusto amarognolo che si ha in bocca la mattina dopo una notte agitata, e dopo pochi minuti mi pare di aver inghiottito un pezzo di ferro tutto intero.
Dovrò fare un bel discorsetto ad Ayase, quando torna, a proposito delle schifezze che beve…
Mi appoggio la lente a contatto sull’occhio cieco e controllo che si sia posizionata bene guardandomi nello specchio di fronte a me. Mi tocca sbattere le palpebre un paio di volte, per esserne completamente sicuro.
La mia vista si è snebbiata. Quell’intruglio ha fatto il suo dovere, almeno.
Uhm, ancora un quarto d’ora di tempo. Me lo farò bastare.
Ritorno alla mia sedia e riprendo in mano il giornale.
L’articolo parla, in modo abbastanza conciso, della vittoria di una squadra liceale di basket in un evento ufficiale. Il team, guidato da Monou Fuuma (17 anni), ora può aspirare a partecipare al torneo provinciale.
Metto via la testata con uno sbuffo, dopo una breve occhiata ai necrologi – forza dell’abitudine... Un diciassettenne? Questi adolescenti sono decisamente precoci. Quel ragazzino ha la metà dei miei anni eppure ne dimostra molti di più. Subaru ne dimostrava undici quando ne aveva sedici, figurarsi.
Eppure mi sembra di ricordarmi qualcosa, in quello sguardo. Non era limpido come quello della fotografia, ma piuttosto offuscato… Quel ragazzo stava piangendo quando l’ho visto stamattina, qualunque fosse il motivo.
Ayase entra nell’ambulatorio annunciato da uno sbattere frenetico di porte, e compare sulla soglia del mio studio con il fiatone. Riesce a mormorare “Lo so, sono in ritardo” prima di appoggiarsi la mano al petto, cercando di recuperare una buona respirazione. Credo che sarà il caso di usare un defibrillatore, se non riesce a calmarsi.
Guardo l’orologio.
- Saresti stato in ritardo se fossi arrivato fra un minuto. Comunque fare tardi è meglio che arrivare morti.
Lui annuisce ad occhi bassi, in aria di scusa. Io mi metto a ridere di fronte alla sua faccia preoccupata e gli batto scherzosamente una mano sulla spalla, segno tangibile che lo perdono.
- Avanti, vai a cambiarti, che tra due minuti apriamo.
Ayase non perde tempo a ringraziarmi e corre a mettersi il camice da lavoro. Sa che amo la puntualità, e sa che non dico bugie quando dico “due minuti”. Infatti dopo due minuti, preciso come un orologio, apro la porta dell’ambulatorio veterinario Sakurazuka.
- Buongiorno! – dico, sorridendo radioso ai miei pazienti, animaleschi e non, - Oggi chi devo visitare per primo?

Nessuno potrebbe mai capire chi sono io, né riuscire a vedermi come qualcuno di estremamente pericoloso. Per molta gente sono semplicemente Seishirou Sakurazuka, veterinario di un ambulatorio di discreto successo nella zona di Shinjuku; per Ayase sono e sarò, fino al conseguimento del diploma, chi gestisce il suo apprendistato; per il governo, sono un killer alle sue dipendenze, quello a cui si affidano missioni di una certa importanza o particolarmente rognose; per il mio ciliegio sono in contemporanea servo e padrone, colui che provvede al suo sostentamento vitale e che deve obbedire a ciò che desidera; per Subaru, sono l’assassino di sua sorella e di un numero imprecisato di persone, nonché onmouji appartenente alla famiglia Sakurazuka.
Direi che potrebbe bastarmi, non è vero? Invece si aggiunge alla lista anche l’appellativo di Chi no Ryu, un drago della terra. La scelta di nascere in questa fazione non è stata mia, così come la consapevolezza di essere invischiato nella fine del mondo è venuta esternamente dalla mia singola esistenza. Sinceramente, che cosa accada al nostro pianeta non può interessarmi di meno. Non sono il tipo che si scandalizza per il surriscaldamento globale, l’abbattimento della Foresta Amazzonica o per la guerra del Kosovo, anche perché nessuna di queste cose gode della mia attenzione.
Nemmeno la faccenda del Sunplaze mi ha toccato più di tanto. Ero lì e basta, un posto vale l’altro, per me. Però la cosa ha portato ad una coincidenza piacevole, direi.
Ora che ci penso non mi sono occupato molto di Subaru nell’ultimo periodo. Sono passate un paio di settimane dal piccolo incidente di Nakano, e di solito mi faccio vivo molto prima. Diciamo, due o tre giorni dopo.
Devo rimediare. Non mostrarmi al mio promesso sposo per due settimane, che vigliaccata. Vergogna su di te, Seishirou Sakurazuka!
Niente distruzione, stavolta. Una cosetta piccola ma speciale. Devo pensarci.
Però c’è anche un’altra cosa a cui devo porre rimedio.
Malgrado non creda al destino prestabilito ed ineluttabile, - non mi faccio di certo rovinare la giornata se il mio oroscopo dice che il mondo mi cadrà addosso, se non riesco a trovare la mia cravatta preferita o se la nostra nazionale si è fatta battere in casa da un altro team calcistico, - sento che l’incontro di stamattina con quel ragazzo e quella foto sul giornale non sono due coincidenze casuali. Dovrei investigare un po’ su di lui, scoprire chi è e per quale astrusa ragione ha attirato la mia attenzione. No, direi piuttosto l’attenzione del mio sesto senso, che difficilmente sbaglia.
Ma prima devo occuparmi del mio onmouji preferito. La precedenza a chi di dovere.
Quando chiudo lo studio, - da lunedì al venerdì dalle nove e mezza alle sei, il sabato dalle dieci a mezzogiorno e trenta, - nei miei ritagli fra una visita e l’altra ho già pensato, a grandi linee, a cosa preparare per Subaru. Saluto Ayase, che riesce in contemporanea a ricambiare il saluto e a farsi cadere la bicicletta su un piede, - domani arriverà zoppicando… - e mi avvio lentamente verso il cimitero.
Di solito mi rilassa camminare fra le tombe, e mi aiuta a riordinare le idee. Dubito che altri, in Giappone, pensino che non ci sia luogo più rigenerante per la mente di un cimitero… Ma che io sia l’unico a pensarlo non mi fa soffrire particolarmente.
Credo che la mia famiglia sia l’unica a non avere lapidi, qui, intestate a suo nome. Non ne abbiamo mai avuto bisogno, d’altronde. Il Sakura è sempre stato la nostra culla e la nostra pietra tombale. E’ abbastanza facile da afferrare, come concetto. Ciò che ci fa nascere è ciò che si riprende i nostri corpi quando moriamo. I Sakurazuka si legano al destino dell’albero, ed è il ciliegio stesso a far cadere su di loro il coperchio della tomba. Se dovessi scegliere se essere seppellito fra mura di marmo o fra le braccia di legno di un Sakura, sceglierei la seconda opzione ad occhi chiusi. Mi sembra un riposo molto più naturale di quello di un cadavere rinchiuso sotto terra.
Il rumore della ghiaia che scricchiola sotto le suole mi ricorda il suono che rimbomba dentro la testa quando si mangiano dei biscotti. Crunch crunch crunch, replicato infinite volte e reso molto più cupo di quanto sia, quando va a perdersi nelle profondità della coscienza, lì dove vanno a finire tutti i suoni quando si fondono nel silenzio.
Ne esistono diversi, di tipi di silenzio. Quello dettato dai rumori che poi diventano abituali, quando ormai non ci si fa più caso e le orecchie sembrano anestetizzarsi a quelle piccole imperfezioni sonore, finendo per ignorarle ed ometterle; a quel punto ti sembra di avere la testa piena di ovatta.
Ci sono quelli che ronzavano nella testa, fastidiosi come mosche, pensieri turbinosi e senza un ordine preciso, che frullano e sbattono rabbiosamente le ali, chiedendo di essere ammessi nel mondo reale e di tornare, per così dire, a vivere. Pensieri irritanti, come quando devi ricordarti un nome o una connessione che ti sfugge, ce l’hai sulla punta della lingua ma non riesci a richiamarli totalmente alla memoria. Quei pensieri hanno, ogni volta che li visualizzo, un colore polveroso e sabbioso, colori che si mischiano fra loro a formare granuli duri di terra che vanno sbriciolati tra le dita.
Ci sono silenzi musicali. Ci si allontana dalla realtà sulle note di un’aria familiare, un accordo di note conosciuto, ed i pensieri scivolano via per conto loro, come ondate, e ritornano indietro, altrettanto tranquilli e lenti. Si collegano a paesaggi, a ricordi legati a quella musica. Sono naturali.
E poi ci sono silenzi come quelli di un cimitero. Le suppliche ai defunti mormorate a bassa voce, il rumore di chi si inginocchia per pregare, gli stoppini delle candele che bruciano lentamente, scosse appena da un alito di vento che, anche lì, sembra prendere riposo… Tutti questi suoni formano questo tipo di silenzio. Il silenzio sommesso dei luoghi sacri, che trasuda religiosità e rispetto.
Non c’è più dolore, qui. E’ stato lasciato sulle porte dei santuari e delle chiese, in questo luogo rimane solo il rimpianto ed il peso della memoria. Che parlano a chi desidera ascoltare.
Di solito mi fermo davanti ad una tomba qualsiasi, e guardo. Osservo i bastoncini d’incenso appena accesi, la rigida immobilità dei fiori di plastica nei vasi ed i petali sgualciti di quelli veri. Una volta, - e questa mi è piaciuta, - c’era un pupazzetto vicino alla lapide, ricordo lasciato da un nipote, probabilmente una bambina.
Ci sono tornato spesso, su quella tomba, e ci ho passato interi pomeriggi, finché il richiamo degli altri defunti non mi ha fatto guardare altrove.
Oggi le lancio un’occhiata veloce. Sì, il pupazzetto è ancora lì ed hanno appena cambiato i fiori. Dopo aver appurato questi dettagli, vado avanti con la mia camminata.
Mi fermo quando passo dietro una ragazza inginocchiata davanti ad una tomba di marmo nero. Non prega, non muove le labbra, non piange, è semplicemente appoggiata alla lapide e sembra volerla sostenere con tutte e due le mani. Ha gli occhi rivolti in basso, e di tanto in tanto le nocche le si sbiancano, quando stringe con più forza la pietra, facendo tintinnare un piccolo campanello che ha allacciato al polso.
Non è il suo atteggiamento, per quanto strano, a farmi fermare. E’ la richiesta che sta facendo, e la sta urlando mentalmente con tutta la forza che ha.
Fatelo tornare in vita… Datemi il potere di farlo tornare in vita!
E’ la stessa preghiera, ripetuta più volte, è come una cantilena. Guardo il nome del defunto e le date di nascita e morte. Questo ragazzo aveva poco più di vent’anni.
Il mio sesto senso mi dice che ho trovato la persona che fa per me.
- Ti manca molto, non è così?
Lei non si volta, come se non mi avesse sentito, ma so che l’ha fatto. Dopo un po’, lentamente, annuisce.
Mi siedo sui talloni vicino a lei, ma non la tocco.
- Cosa saresti disposta a cedere, per farlo tornare da te?
Stavolta la ragazza lascia andare la lapide e si gira verso di me. E’ molto graziosa, occhi grandi color cenere e capelli scuri, ma niente, nel suo sguardo e nei suoi lineamenti, ha espressione. E’ come una bambola ancora incompleta, anonima, lasciata in un angolo a prendere polvere senza che il suo creatore le abbia aggiunto un po’ di personalità nei tratti somatici.
Il suo sguardo mi dice che non parlerà mai più, né a me né ad altri. Ha l’indifferenza di chi ha perso completamente la voglia di dire al mondo che cosa pensa.
Tiro fuori dalla manica un ofuda e glielo metto davanti agli occhi. Lo lascio andare, e prima di toccare terra la pergamena sembra contrarsi su se stessa e svanire in fumo. Un gatto nero compare al suo posto, e si mette ad annusare una piega del kimono arancione della ragazza. Lei, leggermente intimorita, allunga la mano per accarezzarlo, e lui permette che le sue dita gli sfiorino la testa.
Ora la ragazza mi guarda con negli occhi una nuova speranza, sentimento che ha la sembianza di una luce opaca e lontana nelle sue pupille.
- Ti insegnerò come farlo. Non è difficile, - dico, mentre il gatto si strofina brevemente contro la mia mano, facendo le fusa, - E potrai far tornare il tuo amato sulla terra. Il prezzo da pagare è alto, però.
I suoi occhi hanno un lampo improvviso, stavolta molto vivido. Non le interessa il prezzo, è risoluta a fare ciò che vuole. Perfetto.
Metto una mano in tasca e tiro fuori un ofuda ancora incompleto, prima di porgerglielo. Lei lo prende, e per un attimo le mani le tremano. Anche il suo piccolo sonaglio ha un tremito argentino.
- La tua anima è il tributo da pagare ad un morto, se vuoi farlo tornare in vita a discapito della tua esistenza. Ma non lo desideri. Tu vuoi stare con lui, non morire per riportarlo indietro. Per fare quello che vuoi basta molto meno. La tua anima verrà spinta sull’orlo della follia e tu perderai ogni contatto con la realtà. Ed è possibile che manderanno qualcuno per annullare la magia che stai per fare, e se ce la farà tu sarai condannata per sempre all’infelicità. Ma può darsi che invece non verrà nessuno, e tu potrai rimanere con il tuo amore fino alla fine. Dimmi se sei disposta a correre questi rischi.
La ragazza leva gli occhi dall’ofuda e fissa il gatto accoccolato vicino a lei. Lui ricambia il suo sguardo con occhi luminosi.
Annuisce, senza guardarmi. La sua decisione è stata presa dal momento stesso in cui ha supplicato che qualcuno le donasse un potere che le restituisse il suo uomo. Appoggia l’ofuda sulla lapide e lascia cadere inerti le braccia lungo i fianchi, attendendo le mie istruzioni.
- Dammi la mano.
La ragazza non ha nemmeno un sussulto quando le mordo l’indice, ed una goccia di sangue brilla sul polpastrello bianco prima di cadere sull’ofuda. Quella lacrima cremisi svanisce con uno sfrigolio dalla pergamena.
Le prendo il polso e guido il suo dito lungo l’ofuda, in modo da tracciarvi il simbolo che per noi onmouji vuol dire “resurrezione”. Non appena lei toglie la mano, la scritta di sangue si mette a sfavillare di luce propria per poi tingersi di una tonalità quasi violetta.
L’ofuda ha una violenta contrazione e si accartoccia su se stesso. Lei mi guarda, quasi spaventata, ma io le dico che è normale, che va tutto bene. Infatti la carta si distende nuovamente e si gonfia, assumendo con lentezza sembianze feline. Un altro gatto nero, anche se più magro e più incerto sulle zampe rispetto al mio, si stiracchia sul marmo della tomba e si guarda attorno, incuriosito.
La ragazza lo prende in braccio e l’animale le strofina il suo naso contro la guancia. Lei lo abbraccia più stretto e lui, piccola macchia nera immersa nell’elaborato ricamo arancio del kimono, non può fare a meno di rimanere lì, senza scappare.
- Quel gatto è capace di strappare alla morte l’anima di chi desideri far tornare. Esaudirà le tue volontà ed pretenderà qualcosa di molto importante da te... Ma se è davvero ciò che vuoi, non credo che questo sarà un problema. Ti consiglio di tornare a casa, prima di richiamare il tuo amato dall’aldilà. Questo non è posto per farlo.
Mi alzo e mi strofino i palmi sulla stoffa della giacca. Pomeriggio denso di emozioni, questo. Dovrei farlo più spesso.
La ragazza si slega il campanellino che ha il polso e lo allaccia attorno al collo del gatto, prima di poggiarlo a terra. Poi, con uno scatto veloce che non mi aspettavo, lei mi prende una mano e me la bacia.
Malgrado il primo impulso sia quello di ritirare il braccio di colpo, lo lascio dov’è e guardo semplicemente da un’altra parte. Il gatto nero di lei continua a rimanerle vicino alle caviglie, come se non sapesse dove andare, mentre il mio si sta tranquillamente leccando una zampa, come se l’intera faccenda non lo riguardi.
Per fortuna la ragazza è intelligente e smette quasi subito di esprimere la sua gratitudine in questa maniera sdolcinata, ma non molla la sua presa sulla mia mano.
Sorride, ed in questo momento è davvero bella. Per una qualche connessione logica che al momento mi sfugge, guardandola mi viene in mente mia madre. Forse anche lei mi ha guardato così qualche volta… Ma davvero, non ne so il motivo.
- Vai a casa, - ripeto, facendo un passo indietro e sfilando gentilmente la mia mano dalle sue. La ragazza lancia un ultimo sguardo alla tomba del suo amato, e non è difficile capire cosa stia pensando. Già conta i minuti che la separano dalla sua abitazione e dal ritorno di lui. Perfettamente comprensibile.
Mentre si avvia lungo la strada per la quale sono arrivato, ed il gatto con lei, si gira a guardarmi. Non ricambio lo sguardo, stavolta. Attendo che sia sparita, poi mi siedo sulla lapide più vicina con un mezzo sospiro.
Va bene. Sono sicuro che Subaru, quando lo chiameranno per uno dei suoi famosi esorcismi, capirà subito che c’è molta farina del mio sacco nella faccenda. So che soffrirà molto, a rovinare la felicità di quella ragazza, e sono altrettanto certo che farà mille domande prima di procedere: “Siete sicura?” “Volete ripensarci?” e via dicendo. Si fa sempre troppi scrupoli per tutti, povero piccolo mio.
Non vedo l’ora di vedere la sua faccia quando arriverà a comprendere che ci sono io dietro tutto questo… Sorpreso, confuso, arrabbiato, depresso, rassegnato? Dopo che avrà finito il lavoro, ovviamente, mi premurerò di andarlo a trovare e di fare quattro chiacchiere come si deve, omettendo tutta questa scomoda faccenda dei kekkai, schieramenti vari e fine del mondo. Quando si è parte di due fazioni avverse, dubito che intavolare una conversazione sull’ormai prossima battaglia sia una mossa saggia da fare.
Se sono fortunato, può darsi che Subaru venga contattato in un tempo indicativo di tre giorni, altrimenti mi si potrebbe prospettare una settimana di attesa, se non di più. Tutto dipende da alcuni fattori che io non posso controllare, ma non importa. Io e lui abbiamo aspettato degli anni per ritrovarci faccia a faccia, sapremo aspettare alcune giornate.
Ah! Ho sbagliato a dire “noi”. Subaru ha aspettato anni per rivedermi, io non ho perso tempo nel seguirlo a distanza sin dalla personale resa dei conti fra me ed Hokuto, ovviamente con ragionevoli intervalli di tempo fra un appostamento e l’altro.
Ma si sta facendo tardi ed io ho qualche faccenda personale da sbrigare, stanotte.
Anche il mio piccolo onmouji passa in secondo piano, rispetto alla fame di Sakura-san…
  
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