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Autore: _joy    04/08/2013    5 recensioni
«E di me ti fidi?»
«Posso fidarmi?» rispondo «Dimmelo tu» 
«Sì» risponde senza esitazione. 
 
Gin/Ben
[Serie "Forever" - capitolo IV]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forever'
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Sono furibonda.
 
Ma nel vero senso della parola.
Sono passati tre giorni da quando ho visto quell’intervista in tv.
Non ho più parlato con Ben.
Non rispondo alle sue telefonate né ai suoi messaggi  e, di più, ho avvisato suo fratello di non osare piombarmi in casa, altrimenti lo prendo a calci, dandogliene in più quelli che spetterebbero a suo fratello.
Peccato l’oceano ci divida… o per fortuna per lui, a seconda dei punti di vista.
 
Ben mi chiama cinquanta volte al giorno, mi scrive mille messaggi e email implorandomi di parlargli e chiedendomi freneticamente cosa ha combinato per farmi incazzare così.
Ah, me lo chiede pure.
Benissimo.
Si vede che per lui il fatto di “non essere fidanzato” non è un problema.
Meraviglioso.
Nemmeno per me.
Sto bene.
Benissimo, anzi.
 
Rimescolo il thé con tanta violenza da farne uscire metà dalla tazza.
In questa cazzo di città non si riesce a bere un caffè decente… accidenti agli inglesi!
Voglio un cappuccino!
Esigo un cappuccino!!!
 
Ok, Gin, calma.
Calmati, va tutto bene.
Tutto alla grande.
Ora bevi questa brodaglia di thé e poi te ne vai al lavoro, che hai una vita da portare avanti.
Che sarà mai, stare con uno che preferisce dire al mondo che è single?
Non sono questi i drammi della vita.
Pensa positivo.
 
Mi ustiono la lingua con il thé, scaravento la tazza nel lavello sbeccandola e marcio fuori di casa, sbattendo la porta.
Cammino per strada sollevando la sciarpa contro il vento gelido.
Mi suona il cellulare.
Ben.
Rifiuto la chiamata, ma dopo due secondi il telefono suona di nuovo.
Che ore sono da lui?
Le tre di notte?
Bene, gli fa bene stare sveglio, così riflette un po’ sulle sue priorità.
Rifiuto altre sette chiamate e ignoro i messaggi che mi scrive, sempre più nervosi.
Jack deve averlo avvisato, perché non mi chiede più se sto bene ma solo perché ce l’ho con lui.
Vado a teatro, silenzio il telefono ma non lo spengo (perché deve suonare sempre, ricordandogli che io ci sono, sono qui, ma non gli voglio parlare. Dannato stronzo!) e mi metto a lavorare.
 
In realtà, il lavoro è molto tranquillo.
Sto in teatro e faccio quello che Liam, il direttore tecnico, mi chiede di fare.
Le persone in generale sono gentili: gli attori però spesso sono molto capricciosi e fanno storie per un nonnulla.
Fortunatamente, tra gli assistenti e gli operatori c’è un ottimo clima, quindi si riesce a fare squadra e a fronteggiare i problemi insieme.
La persona più simpatica che ho conosciuto è Ray: è il tecnico delle luci, è irlandese, capisco la metà delle cose che dice, ma è simpaticissimo.
È burbero ma premuroso: mi chiama “baby”, non mi lascia mai nei guai e bada sempre che non mi affidino compiti troppo pesanti.
Ieri mi ha aiutata a portare in magazzino degli scatoloni pesantissimi, evitando che morissi sulle scale, schiacciata dal loro peso.
E, quando sono veramente tanto triste, non mi chiede nulla ma mi porta una cioccolata, o del caffè.
Io lo ringrazio, lui scuote il capo e mi dice che devo imparare l’inglese perché la mia pronuncia fa più schifo della sua, poi mi fa una carezza in testa e se ne va.
 
Oggi porto costumi di scena dalla sarta, sistemo parte dell’attrezzatura e poi mi mandano in giro a distribuire locandine promozionali.
È bello.
Posso passeggiare per la città e scoprirla mentre lavoro.
Lascio che Londra mi entri nell’animo e cerco di calmarmi.
Tutta questa bellezza mi conforta, in un certo senso.
Cammino, cammino, cammino finché sono esausta.
Ho finito le cartoline, quindi passeggio con le mani in tasca nel gelido pomeriggio londinese.
Non ho mangiato, ma non ho fame.
Attraverso Hyde Park e raggiungo i Kensington Gardens, quindi mi siedo su una panchina.
Fisso lo sguardo sul verde e affondo il mento nel cappotto.
Non so per quanto tempo sto lì, immobile, ma alla fine infilo una mano in tasca ed estraggo il cellulare.
Dieci chiamate e cinque messaggi.
Nemmeno li leggo, ma scorro la rubrica fino al suo nome e chiamo.
 
Risponde immediatamente.
«Gin!! Finalmente! Ma hai idea… aspetta»
Dice qualcosa che non capisco a qualcuno e poi riprende il telefono:
«Eccomi. Ma che succede? Hai idea di come sono stato in questi…»
«No e non me ne frega un cazzo, se proprio vuoi saperlo» lo interrompo, gelida «Se vuoi, però, ti dico come sono stata io, per cambiare»
«Gin…»
«Ben, stammi bene a sentire, perché ora risolviamo questa cosa, chiaro?»
«Ma quale cosa? Cosa ho fatto, perché sei così arrabbiata? Io…»
«Dimmelo tu»
«Non lo so! Te lo giuro, non lo so! Ci ho pensato, ma non è successo niente e io…»
«Non è successo niente?» ringhio «Davvero? Allora lascia che ti dica una cosa: l’altra sera stavo guardando in TV la diretta per quel premio cinematografico cui sei andato»
«Sì?» mi esorta, chiaramente spiazzato.
«E non è successo niente, lì?» domando.
«No!»
 
Ah, no?
 
«Davvero? Niente che vuoi dirmi?»
«Ma la smetti?» urla «Ma perché mi tratti così? Giuro che mi stai facendo impazzire! Gin, dimmelo, cosa c’è?»
«C’è che ho sentito la tua brillante intervista!» strillo.
«Ma quale intervista?»
«Quella in cui dicevi tutto felice che sei single!»
Mi tremano le mani: se ce lo avessi davanti probabilmente lo strozzerei.
Segue un secondo di silenzio in cui io ansimo e stringo convulsamente il cellulare, poi Ben dice, incredulo:
«Tu non mi parli da giorni per una cosa del genere?»
Sembra completamente spiazzato e riesce a farmi incazzare ancora di più.
«Una cosa del genere?! Ma sei idiota? Perché guarda, se noi non stiamo insieme, allora io…»
«Ma certo che stiamo insieme!» grida «Ma cosa c’entra quello che c’è tra noi con quello che io dico alla stampa?»
«Ma…ma…ma tu hai detto…»
«Cosa?»
«Che non sei fidanzato!»
«E quindi?»
«E quindi?» ripeto, urlando.
«Gin, ascoltami bene: io ho detto che non sono fidanzato perché non darò la nostra vita privata in pasto ai giornali. Non intendo permettere che inizino a ficcare il naso nei fatti nostri, seguendoci, chiedendo, cercando, insinuando. La vita privata è privata. E tu per me lo sei ancora di più»
Taccio, elaborando il concetto.
«Avresti voluto che mettessi in piazza la cosa?» chiede, incredulo «Vorresti essere nel mirino dei paparazzi? Lo sai cosa significherebbe? Essere spiati ovunque. Che vita sarebbe? Ma a te davvero importa questo?»
«Ma no, no… Io…»
«Ascolta, Gin: tu lo sai che io ti amo, vero?»
Non rispondo subito e lui mi incalza:
«O pensi che ti abbia sempre detto bugie e abbia invece detto la verità a quel giornalista?»
 
Merda.
Se la mette così…
 
«D’accordo, d’accordo. Ma ci sono rimasta male, lo capisci? Mi dai sicurezze e poi dici brutalmente una cosa del genere e io…mi sono sentita come se non contassi niente…»
Lui sospira.
«Senti, mi dispiace. Davvero. Capisco che per me è un meccanismo abituale e per te no, dovevo dirtelo. Ma non immaginavo… Gin, senti, sai che sono riservato. Sai che detesto il gossip. Ma come hai potuto pensare che… che dicessi davvero?»
«Che ne so? Lo hai detto con una tranquillità tale…»
«Bè, sì. Se menti, devi farlo in modo convincente. Ma è quello che direi comunque alla stampa. Non c’entra con noi»
 
Sbatto le palpebre.
Sembra…ragionevole.
Ok.
È ragionevole, conoscendo Ben.
Come ho fatto a non pensarci?
Forse perché lui sembrava così sicuro, disinvolto… così categorico.
 
Ma che razza di imbecille sono?
Se mi dicessero che gli asini volano ci crederei, a questo punto.
Sono un’idiota da guinnes dei primati.
 
Malgrado il fatto che mi senta una perfetta cretina, insisto:
«Sicuro che non c’è altro?»
«Ma altro cosa?»
«Che ne so? Vuoi essere libero sulla piazza cinematografica americana, magari?»
Lui sbuffa.
«Sei proprio simpatica per essere una che non mi parla da giorni per una cosa del genere»
«Ben, per me non è facile» lo fermo subito.
«Lo so, lo so» sospira «Gin, l’ho fatto per te. Per noi. Per la nostra privacy. Ti ricordi come hai reagito l’altro giorno per quelle foto su internet?»
 
Sì che me lo ricordo.
Prendo fiato.
Ora mi sento a dir poco imbarazzata per il casino che ho messo su.
Ben non me lo fa pesare, ma il senso di stupidità si somma all’inquietudine che avevo dentro e il risultato è una Ginevra che si impone di metterci una pietra sopra ma che continua in realtà a rimuginarci.
Che palle.
Mi detesto da sola, quando faccio così.
L’insicurezza è il mio difetto più grande.
Lo odio, ma non riesco a vincerlo.
 
Direte che stare con l’uomo che è la personificazione dei miei sogni mi abbia aiutata, immagino.
Ma, per quanto lui sia adorabile, concreto, reale e mi riempia di attenzioni, io mi sento sempre quella che per caso ha vinto la lotteria e vive nella paura che le strappino di mano il biglietto vincente gridando “Chi sei? Cosa fai qui? Figuriamoci se una sfigata del genere può vincere la lotteria!”
 
Ben conosce questo lato di me, almeno in parte.
È che si tratta di una me subdola, che sta nascosta e non emerge subito, ma solo quando sono davvero, davvero felice, così può farmi male meglio.
Però penso che lui lo sottovaluti, che non capisca davvero quanto le mie paure mi dominino.
Sto combattendo contro la mia parte irrazionale mentre torno a casa.
Lo faccio la notte e la mattina dopo sono ancora lì.
 
Il punto è: mi fido di Ben?
Sì.
 
Ok, bene.
Quindi è tutto a posto.
Ma perché mi sento come se non fosse a posto?
Voglio davvero che urli al mondo che è mio e solo mio?
Sì.
 
Ecco, ho posto la domanda nel modo sbagliato.
Ovvio che quello lo vorrei.
Ma… voglio davvero che la nostra vita diventi appostamenti, foto rubate e messe su internet, gente che si fa i fatti nostri e ci (mi) giudica inventandosi cavolate su noi due a partire da come inarchiamo un sopracciglio.
Sospiro, testa.
No, non lo voglio.
E, a parte le mie insicurezze croniche… Non lo voglio per lui.
Ci tiene alla sua vita privata, l’ha sempre difesa a spada tratta.
È un ragazzo con i piedi per terra e capisco che l’idea che si parli di lui non per la sua bravura di attore ma per chi frequenta lo mandi in bestia.
Ha ragione.
Non lo merita.
E io glielo devo: voglio il meglio per lui, a prescindere da quanto costi a me a livello personale.
 
Ma allora perché mi sento così triste?
 
 
La vita riprende.
Io e Ben ci sentiamo regolarmente e lui non torna più sull’argomento né accenna alla mia reazione, ma a volte lo sento teso.
Neppure io ne parlo.
Mi chiedo a volte se dovrei, se non sarebbe meglio scusarmi e accantonare la cosa.
Ma non voglio riaprire quel discorso, perché ho paura di reagire di nuovo come un’isterica.
Il risultato è che entrambi ci maceriamo nei dubbi… o almeno, io lo faccio.
E i dubbi centuplicano fino a diventare un tarlo infame, che mi rode l’anima con il pensiero che se ho creato una spaccatura nel nostro rapporto e se questa spaccatura si ingigantirà al punto da divorarci… bè, chi potrò ringraziare se non la sottoscritta, alias l’eterna fallita?
 
L’unica soluzione che ho è lavorare fino a sfinirmi, così non mi risparmio.
Mi adatto in breve all’ambiente e riemerge quella Ginevra sicura di sé nel lavoro che ero prima di Ben.
Vero che ero una Ginevra-solo-lavoro.
E che non mi piaceva nemmeno quella me.
Ma lo troverò mai un equilibrio?
Comunque, il teatro è in subbuglio per la prima di una commedia e siccome io sono interiormente mille volte più in subbuglio del teatro intero, sul posto di lavoro risulto calma, posata, sicura di me, capace di placare gli animi.
Il direttore di scena si complimenta addirittura, io lo guardo come se fosse pazzo e si allarmasse per nulla.
Capirai… un inglese!
Poi, la sera prima del debutto, sto aiutando Liam quando mi arriva una chiamata di Ben.
Gli faccio un cenno ed esco a rispondere.
Ci raccontiamo qualcosa del lavoro, lui mi chiede se sto bene, come vanno i preparativi, se sono tutti impazziti e come me la cavo.
Il bello è che lui ha lavorato qui, quindi conosce tutti e non ci mette nulla a immaginare e interpretare le varie situazioni.
Quando gli dico dei complimenti che mi hanno fatto sembra molto colpito, io invece sono quasi indifferente… insomma, io prima gestivo un lavoro più stressante e più complesso.
Ma Ben quella Gin non la conosce… forse pensa che sono un’impedita, se mi fa i complimenti per una cosa del genere…
Mi do una scrollata mentale.
Ora mi faccio paura davvero.
Di punto in bianco, mi chiede:
«Gin, ma tu come stai? Dico veramente»
E io, che da giorni rispondo un costante, fermo e testardo “bene”, non faccio in tempo a far partire il disco solito.
«Mi manchi troppo» dico, di getto.
Entrambi restiamo un attimo in silenzio, poi mi faccio coraggio e proseguo:
«Mi sei mancato sempre… ma in questi giorni è stato tutto più difficile…e lo so che la colpa è solo mia, ma…»
«No, piccola, non dire così. Anche io mi sento in colpa. Capisco che ti ho ferita, ma ti giuro che non volevo. Davvero, l’ho detto in automatico, non pensavo di ferirti…»
«Lo so, l’ho capito… Mi spiace essere sempre quella che crea i problemi e tu quello che deve sopportarne le conseguenze. Io ci provo, a cambiare, ma…»
«Gin, non devi cambiare…»
«Sì, invece» mi impunto «Per me, e per noi. Non voglio farmi sempre così male da sola… ma soprattutto non voglio farne a te. Mi dispiace»
«Anche a me, tanto»
«Ti amo» gli dico, per la prima volta dalla nostra litigata.
«Anche io» sospira «Iniziavo a temere che non me lo avresti più detto»
Rido, e ride anche lui.
Quando ci salutiamo, mi sento più tranquilla, ma quando rientro e Liam mi osserva e poi mi chiede, nel suo caratteristico modo brusco, se finalmente intendo darmi una calmata, scoppio in lacrime.
Lui si allarma e si imbarazza, ma alla fine, tra i singhiozzi, viene fuori tutta la storia, più tutto il corollario del Gin-pensiero.
Liam è atterrito e, alla fine, commenta con un brusco:
«Fuck you, crazy girl!»
In più, sostiene che se lui fosse stato Ben me lo avrebbe detto dopo tre secondi.
Io mi offendo:
«Ben non ti somiglia per niente!»
«Allora non tirare troppo la corda, visto che sei fortunata» dice, secco.
Ci rimugino su.
Ha ragione.
 
Lo abbraccio e mi scuso e lui mi tira i capelli, rabbonito.
Il giorno dopo, però, trovo un muffin appena arrivata al lavoro.
Ringrazio Liam, che fa finta di nulla, e ci buttiamo nella frenesia da ultimo giorno.
Saltiamo il pranzo, per cena non torno a casa: alle 21 sono sporca, stanca, accaldata e in salopette di jeans, che affianco il fonico per l’allaccio dell’audio della telecamera con cui registreremo la prima (idea mia: retaggio di ufficio stampa).
Fatto anche questo: si aprono le porte al pubblico.
La platea si riempie e mi sento pervadere dell’emozione che il teatro mi trasmette sempre: quell’aria magica e senza tempo che solo lì trovo.
Adesso, però, sono ben lontana da pensieri puri e rivolti all’arte: sogno solo di schiantarmi su una sedia e dormire (tanto ho visto tutte le prove), quando il direttore di sala mi fa un cenno.
Mi avvicino e mi chiede di portare a un ospite della prima fila un libretto autografato dagli attori.
Annuisco e mi avvio, mentre già si abbassano le luci.
Guardo l’appunto: posto 8.
È centrale, cavolo.
Mi fermo a lato del corridoio per vedere come passare senza coprire tutti, quando all’improvviso lo vedo.
 
Mi si ferma il cuore.
Seduto in prima fila, con una giacca scura, i capelli ribelli che gli ricadono sulla fronte e un’aria impassibile… c’è Ben.
Caccio un signorile urlo alla Tarzan di pura gioia e mi fiondo verso di lui, che sorride, si alza e apre le braccia per accogliermi.
 
Per me e solo per me.
 

   
 
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