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Autore: Matt_Stewartson77    16/08/2013    1 recensioni
come ogni ventenne, Susan Dawson, figlia di una delle più famose famiglie di esploratori, non aspetta altro che un occasione per mettere alla prova le proprie capacità. prende così parte alle spedizione della nave Starlight, alla ricerca di una reliquia spersa nell'Oceano Atlantico. ma qualcosa va storto...
Susan, insieme ai suoi amici, si ritrova naufraga su un'isola non circoscritta sulle cartine, e lì dovrà affrontare le sue paure e combattere contro uomini che vogliano ucciderla. perché la vogliono morta? quale segreto cela l'isola? presto, Susan, imparerà cosa significa davvero la parola "fiducia"
Genere: Avventura, Azione, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Songi e incubi

      Mamma, Rosie, Clark, George e nonno Victor caddero quasi quando gli levai da sotto le orecchie il legno della porta. Stavano origliando la nostra conversazione? Dalla porta del corri doglio?

      «Cosa state combinando qui fuori?» chiesi sconcertata.

      Tutti si ricomposero all’istante. Mamma e nonno fecero un sospiro di sollievo quando mi videro, forse si erano spaventati che fossi stata papà, allora sarebbero stati guai.
       «Niente» rispose Rosie, cercando di tenere un tono diffidente. Gli lanciai uno sguardo a tipo “A chi vuoi darla a bere?”
       Li guardai uno ad uno, sperando che mi rispondessero, o meglio, che affermarono quello che già avevo capito. George fece finta di aggiustarsi la camicia, mamma guardò altrove, nonno trovò la scusa di doversi sedere perché era anziano, Clark non poté trovare scuse dato che già lo stavo fissando.
      «Clark?» lo chiamai con un sorriso.
      Sbuffò, ma alla fine si arrese «Stavamo cercando di origliare la vostra conversazione» lo disse tutto d’un fiato.
      «Dalla porta del corri doglio?»
      «Non potevamo venire a quella dello studio» si intromise nonno. I capelli biondi della foto, avevano lasciato spazio e quelli grigio lucido che aveva adesso, avvolti in una coda di cavallo «Ci avrebbe scoperti subito»
      «Chi?» mi sporsi per guardarlo.
      «Chi?! Tuo padre! È una lepre!» rispose senza guardarmi. Esagerato!
      Sapevo che era bravo nel suo lavoro, ma non che avesse sviluppato i cinque sensi, a meno che non sia un vampiro o qualcosa del genere.
      «Beh?» mamma mi saltò letteralmente addosso. La guardai sconcertata.
      «Cosa vuoi, mamma?»
      «Tuo padre?» mi chiese «Cosa ti ha detto?»
      Sembrava uno di quegli interrogatori della polizia, dove ti siedono ad un tavolo in una stanza completamente scura con soltanto un lampada puntata a tre centimetri di distanza dal tuo volto. Li avete presenti? Beh era lo stesso in quel momento per me, solo che al posto della lampada, c’era mia madre.
      «Te lo dirà lui» me la scansai di dosso e mi allontanai. La testa mi stava scoppiando.
      Mamma sbuffo e poi mi seguì «Figurati se me ne parla tuo padre!» in effetti era vero. Preferiva non dire niente alla mamma, il perché non lo conoscevo «Dai, dimmelo» si avvicinò di pochi passi a me. La guardai impaurita, pensando che volesse assalirmi di nuovo. Indietreggiai di poco.
      «Te lo scordi!» non avevo nessuna voglia di dirglielo, o almeno non adesso. Non volevo pensare a nient’altro, avevo troppa roba nella testa.
      «Ti prego, Tesoro» sembrava che tra poco si volesse addirittura inginocchiare.
      «Ok» i suoi occhi si illuminarono, come quelli do Rosie e gl’altri «Te lo dico domani» quella luce si spense di colpo. Sentivo che voleva uccidermi se ne avesse avuto la possibilità, e così nonno e Rosie. George aveva negl’occhi una luce di speranza, forse voleva che restassi –come volevano tutti- o forse no, anche se le possibilità che speravano nella mia partenza ero più che remote. L’unica persona che non gli faceva ne caldo e ne freddo, era Clark. Lo apprezzai.
      Alla fine rinunciarono tutti «Va bene, io vado a letto» nonno si alzò dal divano, e se ne andò.
      «Io resto» disse mamma «Aspetto a tuo padre»
      George andò in cucina, seguito a ruota da Rosie, forse dovevano ancora metterla in ordine. Che non avevano fatto perché dovevano origliare. Mah!
      «Io vado a nanna» lanciai uno sbadiglio, per poi avviarmi verso le scale. Le percorsi come avevo fatto con il corri doglio. Pian piano, un passo alla volta.
      Iniziai a contare gli scalini per passare il tempo. Uno. Due. Tre. Anche se mi scocciava andare così piano, avevo voglia di farlo.
      «Potresti andare più veloce, Tesoro?» mi voltai appena udii la voce di mia madre. Mi stava fissando scocciata.
      Mi rivoltai, e continuai con il mio cammino «No!» Quattro. Cinque. Sei. Sentii sbuffare sonoramente lei. Quanto mi piaceva farla irritare!
      «Susy!» mi bloccai di scatto quando sentii un’altra voce scocciata alle mie spalle. Mi girai a guardare Clark, ancora vicino alla porta del corri doglio che portava allo studio di mio padre. Mi ero completamente dimenticata di lui. Sentii tossire mamma, che subito gli lanciò uno sguardo torvo. Lui fece una faccia sconvolta e rispose «Mi scusi, Signora Dawson» e fece una sorta di inchino «È solo che la Signorina Dawson, era abbastanza… irritante. Se posso» stavolta fui io a lanciarglielo, uno sguardo omicida. Riuscii ad intravedere un ghigno sulle sue labbra Ma guarda te questo! Pensai sbalordita, ma allo stesso tempo divertita.
      «Già!» disse mamma, facendomi riprendere dai miei pensieri «È molto irritante eh?» sottolineò con tono la parola “molto”. Sguardo assassino! Fece un ghigno nella mia direzione, in modo che potessi vederlo.
      È la serata dei ghigni, e degli omicidi! Pensai ironica.
      Lascia perdere, e tornai al conto. Sette. Otto. Nove. Dieci. Undici. Voltai alla mia sinistra. Dodici. Tredici. Quattordici. Quindici.
      «Quando la vuoi piantare?» sbottò irritata mamma.
      «Quando finiscono gli scalini!» urlai voltandomi verso di lei. Clark era ancora lì, che mi fissava scocciato. Lo guardai incuriosita. Lui mimò un «Cosa vuoi?» gli feci cenno di salire. Lui guardò mia madre, e mi fece capire che non poteva «Clark potresti salire un secondo?» urlai in modo che mi sentissero entrambi.
      «Ok» urlò ironico, e salì le scale fino a dove ero io «Cosa vuoi?» era due scalini sotto di me. Vidi con la coda dell’occhio che mamma stava uccidendo Clark con lo sguardo. Capii che non era il posto giusto dove parlare.
      «Vieni in camera mia» non potevo risparmiare una frecciatina così piccante a mamma.
      Lui rimase un po’ sconcertato dalle mie parole, del tutto prevedibile. Lo presi per mano, un’altra frecciatina per lei, e corsi fino ad arrivare alla porta del corri doglio che portava alla mia camera, con lo sguardo impaurito di mamma che ci seguiva. Non mollai la sua mano per tutta la corsa diretta alla mia camera. Non sapevo il perché, ma mi piaceva stringerla. Spalancai la porta e mi gettai di peso sul letto, ridendo. Lui era rimasto ancora vicino alla porta, immobile, ad osservarmi sconcertato.
      Gli feci un sorriso incoraggiante «Dai vieni qui» indicai il posto di fianco a me.
      Lentamente, si sedette vicino. Mi stesi, e osservai il soffitto in silenzio. Restammo così per qualche minuto.
      «Allora…ehm…» balbettò per rompere il silenzio, imbarazzato. La situazione mi divertiva. Mi alzai lentamente, e posai una mano sulla sua spalla, con un tocco sottile. Gli vennero i brividi alla schiena, feci un sorriso compiaciuto. Non era male come ragazzo: bello, gentile, e intelligente. In quella situazione, iniziai anche a farci un pensiero.
      No! Le relazioni, soltanto dopo il viaggio!
      Prima ancora che potessi fermare la mia mano, lui si era già voltato verso di me. Si stava avvicinando pericolosamente al mio viso, alzò una mano e mi sfiorò leggermente la guancia che era diventata calda come il fuoco, e altrettanto rossa. Il mio cuore perse un battito. Il mal di testa ormai era solo un ricordo lontano. Nonna Lily. Chi era nonna Lily? Non capivo più niente.
      «Clark» sussurrai, non riuscivo a parlare, la voce mi tremava. Perché mi faceva quest’effetto? Forse era solo l’idea del sesso. No, non era solo quello. Non riuscivo più a sentire il morbido letto sotto di me, c’eravamo solo io e lui, nient’altro. Non c’era niente di concreto in quel momento se non noi stessi. Mi fece stendere sul letto, piano, poi si stese altrettanto leggermente su di me. Ma che diavolo mi era preso? Che diavolo ci era preso?
      «Clark! Fermo» la mia voce era più insistente, ma altrettanto tremante «Clark, per piacere. Fermo» non volevo strattonarlo, così rischiavo di offenderlo, ed era l’ultima delle mie intenzioni. Lui cappi che stavo cercando di evitare quel rapporto, anche se una parte di me lo voleva. Mi era sempre piaciuto Clark, ma lo avevo tenuto solo per me, lo avevo rivelato –non volendo- anche a Rosie.
      Si scansò e si scusò subito «Scusami Susan, non volevo. Avevo frainteso completamente. Scusami» non volevo che si scusasse, non chiedetemi il perché!
      «No tranquillo Clark, è tutto ok. Tranquillo» gli lanciai un sorriso incoraggiante. Mi rispose con uno simile.
      «Ma allora perché mi hai chiamato?» quello che aveva capito lui non mi dispiaceva, però il motivo era un altro.
      «Volevo chiederti una cosa»
      «A me? Certo, dimmi» sembrava speranzoso.
      «Ok, tu hai detto, prima in cucina, che dovevo sbrigarmi altrimenti avrei fatto tardi a questa serata importante. Giusto?» acconsentì con la testa «Ma io non ricordo di averti mai detto del mio futuro viaggio. Te lo ha detto qualcuno?»
      «Ah!» distolse lo sguardo. Sembrava deluso dalla mia domanda. Capii all’istante cosa si aspettava, temevo di averlo offeso «No, non mi ha detto niente nessuno. Tranquilla» un sorriso sforzato si fece spazio sul suo volto. Non sapevo cosa dire.
      Sta zitta! Mi riproverai da sola.
      «Tutto qui?» chiese ancora seduto a gambe incrociate di fianco a me.
      «Cosa? Ah, sì. Tutto qui. Grazie» il mal di testa tornò a tormentarmi, con un nuovo pensiero: Clark è sulla buona via per odiarmi.
      «Perfetto!» cappi dal tono di voce che non vedeva l’ora di andarsene. Avevo ancora qualche domanda riguardante l’argomento, ma preferii lasciar stare. La delusione causatagli era troppa da aggiungerne. Si alzò dal letto, e si avviò verso la porta a grandi falcate, lo guardai andarsene delusa. Dovevo fare qualcosa per riparare all’errore, ma cosa?
      Mi alzai di corsa «Clark!» corsi di fianco a lui.
      «Cosa?» si girò scocciato verso di me.
      «Io… io volevo dirti… ehm…» cosa diavolo volevo dirgli?! «Se… se vuoi… possiamo “rivederci”» non era il termine appropriata, ma era l’unico per fargli capire le mie intenzioni «Sempre se ti va?» mi morsi il labbro inferiore. Già me lo vedevo che si incazzava urlando “Sì per deludermi ancora!”. Sperai con tutta me stessa che non fosse vero.
      «D… davvero? Dici sul serio?» ringrazia iddio perché non si era infuriato.
      «Sì! Certo. Insomma, mi piacerebbe passare del tempo con te» sorrisi a 32 denti «Sempre se tu vuoi»
      «Certo che voglio!» urlò euforico. Si corresse subito vedendo la sua reazione esagerata «Si, mi piacerebbe»
      Bloccai una risata, che lui notò.
      «Ehm, mi… mi dispiace per prima» indicò il letto «Io non volevo, scusami se ti sono sembrato un…»
      «No!» lo bloccai «Non lo sei sembrato affatto!» come faceva a considerarsi in un modo così orrendo?
      Timidamente, alzò una mano sul mio volto, e spostò una ciocca ribelle dietro il mio orecchio. Arrossì non poco. Mal di testa: andato! Cos’era il mal di testa? I nostri volti separati da pochi centimetri d’aria. Come prima, il mio cuore perse un colpo, c’eravamo solo io e lui «SUSAN!» e mia madre che ci guardava stupefatta sulla soglia della porta, Rosie dietro di lei esultava entusiasta.
      Clark si staccò di colpo da me, cercai di dire qualcosa, trovare una giustificazione, aprì bocca per parlare, ma non ne uscì nulla.
      «Signora Dawson, le assicuro che non è successo niente» Clark, a quanto pare non aveva perso l’uso della voce.
      «Lo spero, signorino Forester!» si capiva che era incazzata nera, e non volevo nemmeno immaginare quando lo sarebbe stato papà nel momento in cui glielo avrebbe detto «Comunque sia, Signorino, lei sembra essere l’unica mia ancora di salvezza» disse cercando di non farsi credere debole. Io e Clark ci scambiammo uno sguardo incuriosito.
      «Cosa?» chiese lui sbalordito.
      «Vieni con me» si scansò per fare spazio tra lei e l’uscita. Clark mi guardò un secondo, per poi avviarsi alla porta.
      «A me non è dispiaciuto affatto!» urlai verso di lui.
      «Che cosa?» si voltò, guardandomi incuriosito.
      «Quello di prima» risposi arrossendo un po’.
      «Ah!» esclamò con un sorriso «In fondo in fondo, nemmeno a me»
      Mamma ci scrutò, cercando di capire a cosa ci riferissimo. All’istante capì, o almeno lo credeva «Oddio! Fuori, fuori!» spintonò via Clark. Sorrisi a quella scena, Rosie mi vide sorridere e si avvicinò.
      «Avete…?»
      «No, tranquilla» la rassicurai «Ma quasi» confessai infine.
      Si mise la mano davanti alla bocca dallo stupore, poi alzò le mani a mo’ di resa e se ne andò barbottando qualcosa che non capii.
       Chiusi la porta, interrogandomi sulla sorta di Clark tra le mani di mamma, dopo quello che aveva visto. Preferii non pensarci, troppo pericoloso per me, e per lui. Poveretto. Mi avvicinai al letto, misi il pigiama, e mi coricai nel mio dolce e caldo letto. Era tutto apposto, certo, c’era il piccolo inconveniente di poco fa, ma avrei risolta anche quello prima o poi, ma in fin dei conti avevo risolto tutto.
      Papà, mamma, Clark. Tutto.
      Era tutto ok.
      Indossai il pigiama e mi coricai.
      Fu facile addormentarmi quella notte, erano successe troppe cose in una sera, la mia mente era andata in sovraccarico, e non appena aveva trovato un appiglio per lo spegnimento, gli si è aggrappata senza indugi.
      La notte fu calma, segno che tra pochi mesi sarebbe arrivata la primavera. Feci un sogno stranissimo, che me la rovinò completamente, svegliandomi nel cuore della notte, facendomi perdere ogni singola briciola di sonno.
      Sognai di essere arrivata al giorno della partenza, e di essere partita sulla Starlight, con mia zia e tutto il resto. Il viaggio fu tranquillo per tutto il tempo, trovammo la reliquia, insieme ad essa, l’entusiasmo della nave intera. Tutto trionfanti e contenti, ci mettevamo in viaggio per tornare a casa, a Londra, ma qualcosa andò storto. Qui il sogno si faceva sempre più confuso, non riuscivo a distinguere la realtà, dal frutto della mia immaginazione. Ricordavo di trovarmi nella mia cabina, quando ad un tratto, sentivo la nave muoversi bruscamente, facendomi cadere atterra. Le luci mancarono per qualche secondo, poi tutto tornò normale.
      Insieme a me c’era una figura che non riconoscevo, ma sapevo che era lì con me, che era un mio amico, benché non lo riuscivo a mettere a fuoco. Preoccupata decidevo di andare a chiedere a mia zia, capitano della nave, cosa era stato. Percorrendo i corri dogli bianchi della nave, talmente bianchi da accecarti se su di loro batteva la luce. Uscita fuori, il celo era limpido, senza nemmeno una nuvole, emergeva su di lui soltanto una piccola mezza luna splendente, osservai il mare, pensando che fosse completamente piatto, invece era agitato, e molto. Arrivata alla cabina del comandante, incontrai zia Jasmine, aveva il volto sconvolto, e mi diceva, mi urlava qualcosa che non riuscivo a capire, non sentivo.
      «Cosa?» gli urlai, stranamente udii la mia voce, ma allora perché non riuscivo a sentire la sua? «Cosa c’è, zia?» gli continuavo ad urlare. La sua espressione cambiò, diventò serena e pacata. Si avvicinò al timone e lo voltò tutto verso la sua sinistra con un colpo secco «Zia, cosa stai facendo?» iniziavo a spaventarmi. Sapevo, anche se non ero esperta di nave e come si navigavano, che un timone lanciato così poteva far rovesciare la nave, specialmente con il mare così agitato, ma lei continuava a guardarmi, non mi toglieva gl’occhi di dosso, come se fossi la cosa più preziosa della sua intera esistenza, ma allo stesso tempo, la più pericolosa. Adesso ero spaventata. Il modo in cui mi fissava mi faceva gelare il sangue nelle vene. L’unica cosa che desideravo era andarmene di lì, non riuscivo a sopportare quello sguardo.
      Inizia a correre nella parte opposta alla cabina di navigazione, scesi le scale di corsa e, fortunatamente, senza inciampare. Dovevo correre nella mia cabina, dal ragazzo, non sapevo perché, ma dovevo andare da lui, era un obbligo imposto da me stessa che non potevo violare, era troppo importante, ma non riuscivo a cogliere il perché. Forse era una persona molto importante per me anche nella realtà, papà, mamma, Rosie, ma non ne ero sicura.
      Mi infilai di nuovo in quei corridoi bianchi come la neve appena scesa dal celo, e correvo a perdi fiato nella mia cabina. Quando ci arrivai e vidi che lui non c’era, quella figura talmente importante per me, ma allo stesso tempo talmente misteriosa, mi sentii le gambe troppo pesanti da reggermi, e crollai sulla fredda e dura superfice. Lui non c’era, e io mi sentivo distrutta.  Ricordo di aver pensato che forse era uscito a cercarmi, che era uscito spaventato dalla mia assenza. Corsi ancora fuori, il celo era ancora calmo, anche il mare stavolta. Scrutavo ogni singolo centimetro alla ricerca della causa del mio malore, ma lui non c’era da nessuna parte, non ce n’era traccia. Notai che la nave si stava inclinando leggermente vero Prua, non sapevo cosa fare, lui non c’era, la nave e il mare si comportava in modo diverso dal normale, e mia zia mi guardasse come fossi un tesoro.
      Cedetti alla pressione, cadendo sul freddo metallo della nave.
      Mi risveglia in un posto completamente diverso dalla nave, che non centrava niente con essa, era su una spiaggia, col sole cocente di mezzo giorno, frastornata da qualcosa che era successo prima, ma non riuscivo a ricordare cosa. Adesso l’immagine, rispetto a come era sulla nave, era più nitida, era come se fossi cosciente di quello che stava succedendo anche se era un sogno. Mi alzai barcollando dalla sabbia umida, bagnata dalle acqua salate del mare. Mi guardai in giro, in cerca di qualcosa.
      O qualcuno.
      Ma non stavo cercando l’uomo della nave, no, non era lui. Mi concentrai sulle mie ricerche, su cosa stavo cercando, poi ci arrivai. Stavo cercando non qualcuno, ma qualsiasi. Stavo cercando qualsiasi persone ci fosse nelle vicinanze per… per aiutarmi? Forse, oppure per aiutare io a lui. Il sole, insieme al sogno, iniziava a perdere lucidità, non era più limpido come guardare attraverso un vetro, ma era come se ero stata avvolta in una stoffa completamente nera, e semitrasparente. Barcollavo su me stessa, come se mi fossi dimenticata come si camminava, poi, udii una voce che mi chiamava.
      «Ehi, tu!» mi voltai, confusa, verso la fonte.
      Da quello che riuscivo a vedere attraverso la stoffa, era un uomo, ma non ne ero completamente sicura. A giudicare dall’altezza, poteva avere quarant’anni al massimo. Dal modo in cui era vestito, sembrava un mercenario, o qualcosa del genere. Si avvicinò a grandi falcate verso di me. Istintivamente indietreggiai.
      «Da dove vieni?» chiese con voce roca, a pochi metri da me.
      «Io… io non lo so» balbettai spaventata.
      L’uomo mi scruto, o almeno quello riuscii ad intravedere, poi portò una mano dietro la sua schiena. Indietreggiai di qualche altro passo. Lui estrasse un’oggetto nero. Una pistola.
      «N… no» balbettai ancora stranita «Cosa vuoi fare?»
      A giudicare dal suono della sua gola, capii che emise un ghigno. Niente di buono. Spaventava, cercai di scappare da lì. Inciampai due o tre volta sulla sabbia, non riuscivo a vedere bene dove andavo, non me ne importava, volevo solo scappare da quell’uomo che mi faceva tanta paura, non sapevo dove sarei sbucata.
      Dove mi trovavo? Cosa era successo per trovarmi lì? Cosa voleva l’uomo da me?
      Tutte le mie domande trovarono risosta, o meglio, non la trovarono affatto, perché furono cancellate insieme a me. Ricordavo solo che l’uomo dietro di me aveva sussurrato «Addio», un colpo di pistola, e poi… niente.
      Mi ero svegliata di colpo, sudata fracida nel mio letto. Il sogno mi aveva scosso completamente. Provai a riprendere sonno, ma fu del tutto inutile. Mi misi seduta, a guardare dritta di fronte a me, il nulla. Posai una sguardo veloce sulla sveglia sul comodino di fianco al letto. Le lancette segnavano le 4:20. Non dovrò aspettare molto, almeno. Pensai, cercando il lato positivo della situazione.
      Fuori dominava la tranquillità della notte, c’erano poche nuvole, e la luna era alta in celo, la sua luce bianca illuminava tutta la stanza dalle vetrate. L’avevo sempre trovata bellissima, la luna, così lontana ma all’apparenza così vicina. Preferivo di gran lunga la notte, al giorno.
      Mi alzai dal letto, e mi diressi in bagno. Tanto il sonno era passato, e valeva la pena rilassarsi con un bagno e togliersi il sudore di dosso.
      Riempii la vasca d’acqua fredda, era quello che ci voleva –almeno secondo me- in quel momento.
      Portai la sveglia in bagno per non perdere la cognizione del tempo, e mi persi fra le quasi fredde temperature di quell’acqua.
      La mia testa ha seri problemi pensai, ricordando il sogno, o dovrei dire incubo? Non aveva niente di concreto. Sulla nave, poteva anche andarci, ma cosa centravo sulla spiaggia, persa, a cercare aiuto? E l’uomo? Perché mi sparava? Cosa voleva da me?
      Mi lascia cullare dal relax di quella situazione, arrivai quasi a riprendere sonno, ma era un falso allarme. Quello stramaledettissimo sogno mi aveva scombussolato tutta. Lanciai uno sguardo alla sveglia. 5:45 AM. Lanciai uno sguardo alla vasca piena d’acqua, e decisi che mi ero messa a mollo anche troppo. Uscii e mi vestii, pronta in anticipo –molto in anticipo- per la colazione. Mi sdraiai sul divano, aspettando almeno le sette o le otto di mattina. Il tempo sembrava non passare mai. Era snervante stare senza far niente.
      Sbuffai annoiata, guardandomi in torno. Accesi, scocciata, il computer. Giocai ad uno dei videogiochi che ci avevo installato tempo fa sotto consiglio di Clark.
      Clark. Istintivamente, mi voltai a guardare il letto sconvolto. Le mie guance avvamparono leggermente
      «No!» non dovevo pensarci, non poteva mai succedere che io e Clark… impossibile! Ma perché lo era? Perché lui era un maggiordomo, ed io la figlia di un riccone? No, non era per quello. E anche se fosse, di certo non mi avrebbe impedito di amarlo, se lo amavo.
      Ma cosa mi metto a pensare?! L’insonnia fa brutti scherzi.
      6:30AM. Ce l’avevo quasi fatta.
Dato che non avevo nulla di meglio da fare, mi misi a contare a ritmo con le lancette dell’orologio, i minuti che mancavano alle sette. Fuori la calda luce dei primi raggi del sole, si facevano largo fra le nuvole, spalancai le finestre per sentire sulla mia pelle, la fresca e frizzante aria di prima mattina.
      6:45 AM.
      Potevo anche andare ormai. Di certo non avrei trovato tutti svegli –anzi, nessuno- ma i domestici dovevano essersi alzati tutti. Lanciai un ultimo sguardo allo specchio prima di andare. La mia posizione si poteva definire… decente.
      Me ne fregai altamente, e uscii dalla camera. Il corri doglio, con tutto quel silenzio, faceva non poca paura. Lo percorsi il più velocemente possibile senza fare rumore. In salotto non c’era anima viva, e il braciere nel camino di ieri sera, era ormai del tutto spento. Lancia qualche sguardo in giro per assicurarmi che non ci fosse davvero nessuno. Via libera.
      Cucina, lì avrei trovato di sicuro George o Rosie a preparare la colazione. Aprii la porta e, come avevo pensato, George era lì.
      «’Giorno capo!» lo saluti scherzosa.
      «Signorina Susan?!» rimase quasi sconvolto quando mi vide «Che ci fa in piedi a quest’ora?!»
      «Perché? Non posso alzarmi alle sette?» mi accomodai, come mio solito, sugli scaffali dove lui era intendo ad affettare il pan-carré. Ne presi una fetta, e l’addentai.
      «Come mai così mattiniera?»
      «Sogni» corrugai la fronte «O incubi? Non lo so ancora?»
      Mi guardò come ci si vede un pazzo maniaco. In effetti, lo sembravo non poco quella mattina. Cosa aveva la mia testa? Perché elaborava sempre cazzate a non finire? George si fece scappare un risolino.
      «Che c’è?» chiesi quasi offesa aspettandomi già la sua risposta.
      «Nulla» rispose, continuando a ridere.
      Come se avessi letto nella sua mente, lo risposi «Tu non sai quella diavoleria ha elaborata la mia testolina stanotte! Quindi, taci!» puntai il mio indice, sulla mia tempia.
      «Non lo sa, ma è facile immaginarlo» qualcuno era entrato dalla porta della cucina, e avevo risposto a mo’ di scherzo… o offesa?
      Mi voltai e vidi Clark che si infilava la camicia nei pantaloni. Era un’offesa.
      «Questi servizi non potresti farli in camera tua?» indicai le sue mani che giocherellavano nei pantaloni. Mi vennero i brividi solo a pensarci.
      «Beh non sapevo che volessi vedere l’alba stamattina, e poi, speravo che tu potresti aiutarmi» mi lanciò uno dei sui ghigni più malefici.
      «Ti va di essere ironico?» lo guardai schifata mentre si avvicinava al tavolo di fronte a me.
      «Nah, pensavo alla sera prima» disse senza guardarmi.
      Maledetto pervertito! Lo maledii con il pensiero. Come se la notte non mi fosse bastata, ci si metteva anche lui a rompere con le sue frecciatine del cavolo!
      «Cosa è successo ieri Clark?» chiese incuriosito George.
      «Perché non ti uccidi Clark?» ignorai la domanda di lui.
      «Mancherei a qualcuno. Potresti spostarti?» mi spostai e lascia che prese l’occorrente per apparecchiare.
      Risi di gusto «E a chi mancheresti, sentiamo?»
      «A te!» urlò, entrando nella sala pranzo.
      Ma porca…! Ma come faceva a sapere tutto?! Ho detto sapere tutto? Pardon, intendevo dire: Ma come faceva ad essere così insopportabile?!
      «Cosa voleva dire?» mi domandò George, guardando me, e puntando il coltello alla porta dove era appena scomparso Clark.
      «Non contarci!» urlai in modo che mi potesse sentire dall’altra stanza, ignorando di nuovo il povero George, inconsapevole della causa scatenante della nostra guerra mattutina.
      Per un po’ non rispose. Pensai che non avesse sentito, o che forse si fosse arreso. O ancora peggio, offeso.
      «Io credo proprio sì!» tornò con quel maledetto ghigno ancora stampato sulla sua faccia. Offeso?! Ma come diavolo mi era passato per la mente, che lui si fosse offeso?!
      «Io invece credo di no!» decisi di fare l’indifferente.
      «Ah sì?» posò quello che aveva in mano, e mi fissò curioso «E perché non ti mancherei?» si avvicinò, senza distogliere lo sguardo.
      «Beh, non so, forse perché non c’è nessun motivo che ci… ci leghi?» Non guardarlo! Non guardarlo! Mi ripetevo di continuo Si arrenderà, così!
      «Nessun motivo, eh?» ripeté le mie parole.
      «Già!»
      «Io credo che uno ci sarebbe» si misi di fronte a me, poggiando le mani di fianco alle mie gambe.
      «E… e quale sarebbe?» Non iniziare, Susan!
      Avvicinò il volto al mio, fino a che non ci trovammo a pochi centimetri, l’uno dall’altro «Perché tu mi…» non riuscì a finire la frase che Rosie entrò in cucina.
      «Fateli da un’altra parte i piccioncini, voi due!» Clark si scansò di colpo da me, e guardò Rosie in cagnesco, che gli lanciò uno dei suoi sorrisi più malefici.
      «Non stavamo facendo i piccioncini Rosie!» la rimproverai.
      «A no?» chiesero all’un isolo lei e Clark.
      Guardai lui sconcertata, ad occhi sbarrati «Clark!» urlai mo’ di rimprovero.
      «Che c’è? Non li stavamo facendo?» si giustificò.
      «Ma sei pazzo?!» continuavo a guardarlo sbalordita.
      «Si, lo sono» disse con un ghigno, fissandomi dritta negl’occhi. Distolsi lo sguardo, non riuscivo a sopportarlo ancora per molto prima di cedere, ed arrossire come una stupida.
      «Questo è da ricovero!» spostai i miei occhi su Rosie, che mi guardava in modo… spaventoso, direi.
      «Scusate!» si intromise George, infastidito dal nostro complotto «Noi non stavamo parlando di quel sogno-incubo?!» mi chiese infastidito, puntandomi il dito contro.
      «Sogno-incubo? Cos’è successo?» chiese preoccupato Clark. Rosie si avvicinò a noi tre con altrettanta preoccupazione.
      «Ma niente, tranquilli» li rassicurai tutti «È colpa della mia testolina bacata» dissi indicandola con l’indice.
      «Sicura?» mi chiese Rosie di fianco a me.
      «Certo» la rassicurai ancora.
      «Ok» sussurrò «Però adesso è meglio se ti avvii di là» indicò la sala pranzo «tra poco arriveranno tutti» annuii malinconica. Mi piaceva stare con loro, erano di certo più divertenti della colazione in famiglia. Scesi, e mi avviai verso la porta. La tavola era già pronta per accogliere me, e la mia famiglia. Mi accomodai al mio posto, e attesi che gl’altri arrivassero.


 

  
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