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Autore: TangerGin    17/08/2013    5 recensioni
"2003 - Lorraine Welsh è una di quegli esemplari di essere umano che dimostrano che la teoria darwiniana dell’evoluzione è vera: adesso non vige più la legge del più forte, ma del più affascinante. Del più scaltro. E lei è la più affascinante e la più scaltra ragazza di tutto il Cheshire. E sa perfettamente di esserlo."
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2010 - Sette anni dopo Harry torna tra le mura di quella scuola, di quell'inferno che lo ha costretto per quattro, lunghi anni. E rincontra la Regina di quell'inferno: Lol Welsh.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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~ XI ~
 

 
Sono dell’opinione che esiste un momento particolare, nella vita di ciascuno di noi, che resta impresso nella nostra memoria.
Un ricordo, paragonabile ad un tatuaggio invisibile, che marchia il nostro passato e ci permette di non dimenticare mai cosa o chi ci ha condotto a diventare le persone che siamo adesso – e saremo in un futuro. Un semplice click che ha fatto scattare la molla e che, con il senno di poi, ci fa comprendere che è solo grazie a quello scatto se adesso siamo delle persone complete.
Per molti questo momento è qualcosa di comune: alcuni di voi diranno che è stato, per esempio, il diciottesimo compleanno, che apre le porte ad un mondo nuovo ed adulto. Altri ricorderanno alla perfezione il giorno della loro laurea, o del loro matrimonio, o la nascita dei loro figli: delle giornate importanti e che cambiano nettamente la vita, senza ombra di dubbio. Eppure sono momenti che anche io ho vissuto, e che conservo gelosamente, ma che non sono stati quell’attimo che mi ha completamente plasmata, quel qualcosa che mi ha permesso di completarmi e poter finalmente dire “Sì, questa sono io”.

In realtà, se guardo attentamente i fatti con oggettività, tralasciando molti dettagli più o meno dolorosi e complicati, posso dire di essere stata quasi fortunata, sotto questo punto di vista. Molte persone, infatti, non riescono a sentirsi complete e non riescono a trovare loro stesse nemmeno dopo un’intera vita: io, invece, ho avuto la fortuna di  incontrare quella scintilla a sei anni.
Il primo giorno di scuola è sempre traumatico e scommetto che in molti lo avrete addirittura cancellato dalla memoria: tutte quelle divise uguali e ben stirate, gli zainetti troppo grandi per le piccole spalle dei bambini, le facce tirate e felici dei genitori orgogliosi che vedono i loro piccoli iniziare il loro viaggio. E poi c’è lo shock di entrare in una classe per la prima volta: dover passare ore ed ore assieme a bambini sconosciuti, con adulti altrettanto sconosciuti, che cercheranno di mettervi in riga e insegnarvi numeri e lettere che magari conosci già.
Ecco, sì, più o meno questo è stato il mio primo impatto con la scuola: da una parte i miei genitori, che avevano già riposto in me ogni speranza, nonostante avessi compiuto sei anni solo da qualche settimana, e dall’altra una mandria di sconosciuti che mi terrorizzava tanto da paralizzarmi sul ciglio della porta della classe.
Ricordo lo sguardo fiero di mio padre e la sua carezza dolce che mi invitava ad entrare, ricordo la punta delle mie scarpe di smalto nere, ricordo l’odore forte dell’amido usato per stirare la mia camicia. Ricordo i passi traballanti per quel corridoio, ricordo il brusio, ricordo gli infissi in legno chiaro delle aulee. E ancora, ricordo nettamente il colore giallo ocra delle pareti, ed i banchi bianchi puliti ed ordinati, e tutte quelle testoline che trottolavano da una parte all’altra, parlottando, cercando di fare amicizia, e la maestra che ci guardava sorridendo, rassicurando qualche mamma apprensiva che non riusciva a lasciare il suo pargoletto. E ricordo perfettamente la mia paura, ricordo il battito incessante del mio piccolo cuore nel petto, che mi pareva talmente forte e incontrollato da farmi esplodere da un momento all’altro, ricordo la mia incapacità di riuscire ad avanzare in quell’aula. E poi ricordo quella spinta un po’ troppo forte che mi fece perdere l’equilibrio, ricordo le mie ginocchia sul pavimento freddo, un po’ sbucciate, e ricordo quei capelli già fin troppo riccioli, e quegli occhietti vivaci, e quella bocca grande rosa. E poi ricordo «Scusa, ti sei fatta male?» seguito da un sorriso e la sua piccola mano che prendeva la mia, per aiutarmi.
«Guarda che non devi avere paura, è bello andare a scuola» ed io lo seguivo, come se improvvisamente fosse diventato tutto molto più semplice. Come se le mie ginocchia rosse ed ammaccate non avessero importanza, e non ne avesse nemmeno quel cuore, che non si azzardava a smettere di tamburellare come un pazzo.
Che poi, ripensandoci, in effetti non c’era nulla di cui aver paura, ed era davvero bello andare a scuola e, alla fin fine, tutto è semplice se c’è lui a tenermi la mano.
Non so perché, e non saprei dirvi nemmeno quando, quella stretta di mano tra due bambini diventò una più o meno subconscia rivalità tra noi.
A posteriori, dopo averci pensato per anni, sono giunta alla conclusione che per me l’idea di stuzzicarlo era un modo per poter sempre sentire i suoi occhi fissi su di me, la chiave che avevo trovato per non perderlo. Era l’unica maniera che avevo per riuscire a non allontanarlo da me ma, anzi, avvicinarlo sempre di più. Perché io, da quel primo giorno di scuola, avevo perfettamente compreso che potevo dirmi completa solo se c’era quella mano ad accompagnarmi attraverso ogni porta che mi avrebbe fatto paura. E nel corso degli anni ho pure creduto di essermi sbagliata, che quella sensazione di formicolio che dalla punta delle dita mi risalì fino alla punta dei capelli, era stata solo la fifa mista all’emozione di essere in prima elementare. Mi ero convinta che a sei anni si è troppo piccoli per aver trovato quel qualcuno che davvero ti fa sentire a posto non solo con il mondo, ma soprattutto con te stessa. Ed in questa convinzione ho tentato di arrancare in questi anni passati senza di lui, senza il suo sguardo, spesso fin troppo indagatore e senza le sue parole, spesso fin troppo acide, ma che per me erano piccole ancore di salvezza.
Sono anche riuscita ad andare avanti, nonostante la sua mancanza.
Sono riuscita a superare delle difficoltà che mi parevano insuperabili. Sono riuscita a risorgere, sono riuscita a ricostruire pian piano una vita che non volevo ma che mi pareva giusto avere.
Ma soprattutto, sono riuscita a mettere al mondo la creatura più bella di questo universo e, per la prima volta dopo quel primo giorno di scuole elementari, mi sono sentita calibrata alla perfezione mentre stringevo Eddie tra le braccia.
Tuttavia mi sono anche convinta che il mio intero fosse stato completato da quel piccolo marmocchio, nonostante sentissi sempre quello strano e piccolo vuoto in fondo alla bocca dello stomaco. E dopo che Liam se ne andò – e non mi aspettavo niente di più e niente di meno da lui e, sinceramente, mi sono sentita quasi sollevata quando mi disse che non se la sentiva di metter su famiglia con me – iniziai a prendere lentamente consapevolezza che quel minuscolo vuoto si stava pian piano espandendo, e non bastavano i primi passi di Eddie, o la sua risata, o il suo balbettare parole, a colmarlo.
Era un vuoto diverso, era qualcosa che stanziava là ormai da anni, era come una fessura nella stiva di una nave: nessuno si rende conto che c’è finché la nave non affonda. Ed io ero conscia di stare inesorabilmente affondando, e che avrei portato con me anche Edward, ma l’unico tappo che entrava alla perfezione in quel foro era lontano chilometri da me, non solo fisicamente, ma pure mentalmente.
Perché ormai Harry aveva una vita, una vita che pensavo essere perfettamente piena, ricolma di ogni soddisfazione, strabordante di successi. Harry è un uomo che aveva volontariamente lasciato ogni cosa e persona che riguardasse Holmes Chapel alle sue spalle ed io so benissimo che la colpa di tutto ciò è stata mia. In pratica me le ero suonate e cantate da sola: io ho tentato di tenerlo il più vicino possibile a me con l’arroganza, e sono stata ripagata con la giusta moneta della sua indifferenza.
E, nonostante sia dura ammetterlo, ormai l’ho accettato: ho sbagliato da sempre, su tutta la linea.

 


 

Sbuffare non serve a nulla, me lo ripete mia madre da quando sono nato.
Ma io sono uno sbuffatore di professione: sbuffo per protesta, sbuffo per mostrare approvazione, sbuffo per disgusto, sbuffo per divertimento. E di certo non riesco a fare a meno di non sbuffare faticosamente, mentre procedo con passo lento ed indeciso verso quella casa di mattoni rossi. Sospiro perché sento distintamente l’aria che inizia ad appesantirsi e condensarsi a livello dei polmoni, e diventa tutto così difficile e complicato.
Pure pensare, in queste condizioni, mi pare un’impresa titanica. “Sono un adulto, devo smetterla di comportarmi come un ragazzino” e mi ripeto questa frase come fosse un mantra, come se chiarificasse ogni cosa, come se non fosse già abbastanza palese.
Eppure le articolazioni molli, questo senso di nausea mista a fame, e le piccole gocce di sudore freddo che iniziano ad imperlarmi la fronte, coperta dai ricci, tendono a dimostrare tutto il contrario: ho le emozioni di un ragazzo di quindici anni racchiuse nel corpo di un ventottenne.
Mi blocco, davanti al cancelletto che apre sul piccolo cortile. Poso la mano sul ferro freddo e mi sembra quasi confortante, mentre stritolo le dita attorno a quella curva in metallo.
Ho paura.
Ho il terrore di cosa leggerò nei suoi occhi, ho paura del movimento sinuoso dei suoi capelli, e del tocco leggero delle sue mani. Ho paura, perché non ho idea di come potrò reagire io, né di come reagirà lei. Ho paura, perché temo di essere incapace di poterle dimostrare quello che è sempre significata per me, e sono spaventato a morte dalla probabile prospettiva di perdere l’uso consapevole della parola.
La logica, quando si tratta di me e Lorraine, è sempre stata un optional.
«Eddie, per favore, NON APRIRE LA PORTA E NON USCIRE!»
Mi allontano di scatto dal cancelletto, mentre quel bimbetto, fin troppo vispo, è evidentemente riuscito ad aprire la porta di casa e a sfuggire dalle grinfie della madre e si è precipitato nel giardino. Non appena mi vede, la piccola bocca scarlatta si schiude in una minuscola “o”, per poi allargarsi in un sorriso, terribilmente simile al suo.
“Mammaaaa!” inizia ad urlare, avvicinandosi a passi traballanti ma veloci verso di me. Ormai mi ha raggiunto, e mi fissa dal basso divertito, mentre si appende alle sbarre del cancello, forse per tentare di toccare la mia mano, che è tornata ad agguantare quel ferro come se fosse l’unico appiglio materiale per non rischiare di affogare.
E poi lei esce, sospirando esasperata, ma distendendo quelle labbra che amo in quel sorriso che adoro. Un sorriso che ora è davvero solo per me, e quegli occhi brillanti davvero sono rivolti solo a me.
E tutto comincia a ingranare diversamente dentro di me: quel ticchettio sconclusionato che mi ha accompagnato fin ora sembra assumere un ritmo più regolare, man mano che lei si avvicina.
Prende in braccio il piccolo, guardandolo severa, un po’ per gioco, e poi gli stampa un bacio sulla fronte.
«Lo sai che non devi uscire di casa da solo, Ed» lo rimprovera poi, facendolo scendere per andare a giocare verso il piccolo scivolo in plastica, sistemato in un angolo del cortile. E la fisso, mentre segue suo figlio con lo sguardo: l’amore che prova per Eddie è talmente potente che pare quasi di poterlo sfiorare, sembra quasi palpabile. Quindi si volta ancora una volta verso di me, e quello sguardo non cambia. Quella stessa forza tangibile è ancora densa nel suo sguardo, e mi sta avvolgendo dolcemente.
E quel ritmo regolare dentro di me sta diventando adesso una melodia.
Si abbassa per aprire il piccolo cancello che ci separa, e mi fa cenno di entrare. Non riesco a fare a meno di seguire ogni suo movimento, per quanto piccoli ed insignificanti possono essere: sembrano essere dettati da una scia luminosa che la segue. Lei intera sembra quasi brillare, e mi sento bene.
«Ha imparato ad aprire la porta di casa, si prospettano guai» sospira, mentre si mette a sedere sui gradini dell’ingresso, accennando con la testa al bambino che è ancora preso a giocare.
«Dovrai iniziare a tenerlo sott’occhio o inizierà ad andare ai party ed in discoteca!» rispondo scherzando, ed è tutto semplice. È semplice porre una parola dietro all’altra, è semplice la sua risata cristallina, sono semplici le piccole rughe attorno ai suoi occhi, mentre li socchiude per controllare Eddie.
È semplice il coraggio che, pian piano, inizia a riappropriarsi delle mie azioni, dei miei gesti, dei miei pensieri.
La seguo in cucina e, seduto al piccolo tavolo in legno scuro, la osservo preparare pazientemente il tea, con una calma rassicurante.
«Jane mi ha detto tutto. Mi ha raccontato ogni cosa: del fatto che eri incinta quando tornai e che avresti voluto andartene da qua, ma Liam ti chiese di sposarlo… e mi ha detto che se n’è andato» e mi ritrovo a pronunciare queste parole quasi sovrappensiero, ipnotizzato dal movimento altalenante delle sue spalle mentre respira. Vorrei aggiungere altre mille altre cose, vorrei poterle chiedere scusa per non esserci stato, per la mia ottusità, ma la vedo irrigidirsi un attimo, e ogni movimento si blocca per qualche secondo: chiude poi di scatto la teiera, e la pone sulla fiamma calda. Non si volta, continua a fissare 
dalla finestra della cucina Eddie che gioca in cortile, ed anche io sono in stand-by, immobile in attesa di una sua risposta, di una sua reazione.

Quindi si volta, e con lei tutto inizia nuovamente a scorrere: il  mio tempo ed il mio spazio sono dettati da lei. Si siede davanti a me, poggiando i gomiti sulla superficie liscia del legno, e non c’è alcuna rabbia né alcun risentimento nei suoi occhi o nei suoi gesti.
«Il tempismo non è mai stato il nostro forte» sussurra piano, avvicinando le mani al viso, nascondendo le emozioni in una gabbia di dita. Ma io so perfettamente cosa sta provando: sta rivivendo tutti gli attimi che ci hanno portato fino a qui.
Sta rivivendo quel primo giorno di scuola elementare, sta ripensando a quando vinse il premio di matematica, ed io arrivai al secondo posto – il mio primo secondo posto di una lunga serie, sta rivedendo quella rivalità acida e quella tensione adolescenziale. Sta riassaporando quel bacio umido ed arrabbiato e sta risentendo quelle parole sprezzanti che le vomitai addosso in piscina. E sta riassaporando l’esasperazione di quel bacio di tre anni fa. Ed io so tutto questo perché è esattamente ciò che sto provando anche io in questo momento.
Allungo la mano per cingere il suo polso sottile, facendo poi scivolare via lentamente la mano dal suo viso splendente, adesso solcato da calde lacrime, che assomigliano più a rugiada che ad un pianto umano.
Stringo le sue mani nelle mie e non stacco nemmeno un attimo i miei occhi dai suoi, ed è come se tutte le parole che mi ero programmato di dirle stessero fluendo silenziose e mute, da questo incontro di sguardi.
Porto la piccola mano vicino alla mia bocca, e mi ritrovo a baciarla piano, con timore quasi reverenziale. Continuo a posare leggere scie di baci lungo le nocche e lungo le dita fini, e vorrei che tutti questi baci possano lenire ogni sua ferita, come cerotti immaginari. E dietro ciascuno di quei baci c’è una richiesta di perdono: perdonami Lorraine, perdona la mia cecità, perdona il mio egoismo.
Riesce a liberare la mano dal mio lento rituale e sento il suo pollice che si muove lento lungo la mia guancia, e lo seguono poi le altre dita: una carezza calda che mi avvolge. Una carezza che per me è più un condono, che un gesto di affetto.
E lentamente le parti si capovolgono, e mi ritrovo a singhiozzare come un bambino, la fronte appoggiata sul tavolo, continuando a baciare il palmo della sua mano, mentre l’altra mi accarezza piano i capelli.
«Guardami» bisbiglia poi, soffiandomi piano le parole tiepide sul viso.
Socchiudo gli occhi, la testa ancora posata sul tavolo, e lei è là, che mi riscalda piano con il suo sorriso debole. Non smette di accarezzarmi la guancia, e non si cura del fischio incessante del bollitore dell’acqua: ogni sua attenzione è rivolta solo ed esclusivamente a me.
Si avvicina lenta, posando quelle labbra deliziose sul mio naso, procedendo poi verso il lembo di pelle che separa il labbro superiore e la punta del naso. Si stacca per un istante, cerca di valutare la mia reazione o forse sta solo constatando quanto fottutissimo tempo ci abbiamo messo ad arrivare fin qua. Alzo la testa dal tavolo, di scatto, impaurendo non solo Lol ma anche me stesso, ma non mi fermo.
Dobbiamo smetterla di avere paura, entrambi.
Dobbiamo piantarla di sprecare tempo, di far trascorrere secondi preziosi in gesti pigri e tentennanti.
Perché è da quando sono alto un metro e un tappo, è da quando la aiutai ad alzarsi quel primo giorno di prima elementare, è da allora che entrambi sapevamo di dover stare assieme, ma siamo sciocchi.
E codardi.
Mi alzo, e faccio scorrere deciso le mie mani tra i suoi capelli fini - e, Dio, da quanto tempo è che desideravo farlo? – e lei sorride e, con altrettanta decisione, avvicina il suo viso al mio e, finalmente, le nostre labbra si incontrano.
Ed è un bacio desiderato. Un bacio giusto, un bacio intenso ma sereno. La sento cercarmi così come io cerco lei.
Quel ticchettio stonato, che era diventato un ritmo regolare e poi una melodia, adesso è una sinfonia.
Noi siamo sinfonia.
Sentiamo la voce squillante di Eddie, che ci chiama dal giardino, e si unisce al fischio del tea, e le labbra di Lol, ancora unite alle mie, si schiudono in una risata che rimane soffocata in un altro bacio.
«Ci abbiamo messo solo ventidue anni per arrivare a questo, lo sai vero?» borbotta poi, affondando il viso nella stoffa della mia camicia. E mentre rido, stampandole un altro bacio sulla fronte, realizzo che questa è la nostra morte e la nostra rinascita.
Adesso siamo contemporaneamente alla fine e l’inizio del nostro viaggio.
 
 

 

   
 
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