Il
gioco di Tom
Alexis
Il Sole tramontava
all’Orizzonte con una lentezza quasi esasperante. I minuti
scorrevano come gocce di miele su una superficie increspata e poco
inclinata. Le ombre nella mia stanza si allungavano sempre
più dense e scure, incorniciate dal colore caldo del tipico
arancione tenue di quelle ore.
Ero sdraiata sul
letto, sotto la candida trapunta verde chiaro, e fissavo con occhi
vacui quel pigro spettacolo che si prospettava dalla mia
porta-finestra, all’undicesimo piano dell’Hotel.
Avevo ancora gli
occhi gonfi e arrossati per il pianto nonostante avessi dormito per
circa due ore buone. Il sapore dolciastro del sangue aveva abbandonato
i miei sensi quasi definitivamente rilasciando solo un’oscura
ombra lontana nella mia mente. Tutte quelle sensazioni provate in
corridoio quel pomeriggio mi parvero irreali. Troppo irreali. Pensai
quasi di aver sognato tutto.
Ma sapevo che non
era così.
Per qualche strana
ragione avevo pensato che fosse stato Jared a procurarmi quegli spasmi
allo stomaco, il giramento di testa e tutto il resto.
Jared…
Perché proprio
lui? Perché adesso? Perché qui?
Oh, Diavolo! Non poteva essere lui. Non dopo due anni. Non quando ero
quasi riuscita a dimenticarlo…
Era solo stanchezza. Solo quella. Niente più.
Io, poi, non sono il genere di ragazza che si lascia intimidire da
qualche rumore. Non sono superstiziosa, ecco.
Scossi la testa emettendo un lieve grugnito che morì tra i
sottili filamenti del cuscino.
Basta essere
paranoica!
Mi proibii mentalmente di
piangere ancora.
Fissai incessantemente il cerchio infuocato finchè non
sparì completamente dietro le colline in lontananza.
Strano che ci fosse stato il Sole quel giorno; quella mattina e il
primo pomeriggio mi erano parsi troppo intrisi di nebbia e bassa
temperatura per mostrare anche solo uno spicchio di tiepida luce.
Ebbene mi ero sbagliata.
Non che mi rammaricassi così tanto. In un certo senso
detestavo quella palla incandescente, anche se vivevo grazie a lei, ma,
soprattutto d’estate, il bagliore rovente che irradiava mi
dava un certo fastidio.
Prima non era così. O meglio, prima di compiere quei dannati
diciassette anni non provavo tanto disgusto per un semplice fenomeno
naturale.
Era il tramonto anche quel
giorno. Vero, Jared?
Strinsi
convulsamente il lenzuolo tra le mani e mi morsi il labbro quasi a
farlo sanguinare.
Mi alzai dal letto con una velocità impressionante e mi
diressi in bagno.
Dovevo fare qualcosa o tutto ciò che vedevo e respiravo mi
riportava a pensare a quel giorno, a quelle sensazioni, a lui.
Aprii il rubinetto e lasciai scorrere l’acqua fredda.
Guardandomi allo specchio rimasi inorridita dal mio aspetto.
I lunghi capelli biondi erano tutti annodati e il grosso frangione non
era più diviso da una parte, ma scompigliato
all’indietro. Gli occhi erano circondati da terribili
occhiaie violacee, come se avessi fatto a pugni, e la matita che
sbavata fino alle guance accentuava inevitabilmente il pianto di poco
fa.
Lo sguardo era vacuo, triste, fittizio. Mi spaventai perché
non mi vedevo conciata in quel modo da tanto tempo. Da quasi
due anni.
Chiusi le palpebre, strizzandole pur di non far sgorgare nemeno una
lacrima.
Misi le mani sotto l’acqua gelida e mi sfregai il viso con
violenza. Il contatto con il freddo mi svegliò subito e mi
diede sollievo. Sospirai.
L’orologio segnava le diciannove e un quarto. Non avevo
nessuna voglia di andare al festino di quei ragazzi, ma non avevo alcuna
alternativa.
Se declinavo sarebbe stato come dar ragione al rastaro, ammettere che
non si era sbagliato sul mio conto e sulla mia salute, cosa che
detestavo.
Mai e poi mai gli avrei dato questa soddisfazione. Non mi conosceva
come pensava, nemmeno lontanamente.
Non mi fidavo di lui, tantomeno dei suoi amici.
Fatto stava che non avevo un movente accettabile per respingere
l’invito, quindi non avevo scelta.
Avevo tempo per prepararmi. Mancavano due ore abbondanti e non avevo
messo ancora niente sotto i denti.
Strano, ma vero.
Uscire era fuori discussione, così chiamai il sevizio in
camera e ordinai una bistecca al sangue con insalata. Il dolce non lo
gradivo granchè. Ordinai anche una bottiglia
d’acqua frizzante; chissà perché, ma
quella naturale non mi dissetava per niente.
Nell’attesa, mi gettai sotto l’acqua calda della
doccia. Mi lasciai sfuggire un respiro di sollievo a contatto con il
getto rilassante.
Quanto l’avevo desiderato quel giorno? Minimo venti volte,
sicuro!
Mi sembrava quasi un sogno
starmene tranquillamente appoggiata con le braccia al vetro appannato e
la schiena esposta agli spruzzi violenti, puri e scroscianti.
Niente cellulare, niente David, niente lavoro. Solo quel rumore
rasserenante e la sensazione di lavare via ogni preoccupazione.
Mi lavai i capelli con lo shampoo al cocco e mi detersi la pelle con il
bagnoschiuma alla vaniglia. In quel momento non sarei stata in grado di
descrivere niente di più bello.
Uscii dalla doccia completamente rigenerata e rinfrescata da un alone
di dolce profumo.
Mi avvolsi nell’asciugamano fornito dall’albergo e
iniziai ad asciugarmi i capelli.
Molti credono che, dalla lunghezza, ci metto molto per farmi una piega
decente, invece di norma non ci impiego più di
mezz’ora.
Quella volta, al contrario, decisi di dargli solo un colpo veloce
giusto per non tenerli bagnati e per dare una forma accettabile al
frangione da un lato.
Dopo dieci minuti rientrai in camera da letto per vestirmi.
Il mio guardaroba è molto limitato nei colori, ma comunque
non si può dire sia povero di scelta. Poco dopo ero avvolta
in un paio di jeans stretti e una maglietta di cotone rigorosamente
nera a maniche lunghe e larghe. Non mi piacevano i troppi fronzoli, ma
comunque sfoggiavo un semplice disegno raffigurante due ali rosse
spezzate all’altezza del seno, a destra.
Stavo ancora definendo i dettagli quando bussarono alla porta: servizio
in camera.
Una donna sulla quarantina mi porse il vassoio e si defilò
per il corridoio senza una parola. Meglio così. Quella sera
non ero in vena di chiacchiere superflue.
Aprii il tavolino pieghevole appostato dietro la tenda della finestra e
lo sistemai davanti alla TV. Mi sedetti sul letto e l’accesi
sul quinto canale per il telegiornale.
L’odore del cibo mi strinse lo stomaco e quasi mi diede la
nausea. Possibile che non avessi fame?
Contro voglia mi sforzai di addentare ogni boccone della bistecca,
inghiottendo con sforzo. Non la gradivo ben cotta, ma preferivo fosse
sempre un po’ al sangue. Mia madre mi costringeva sempre a
mangiarla quasi arrostita, rimproverandomi perché a me
piaceva praticamente cruda.
Scelte di vita.
Il telegiornale era uno dei pochi programmi che, in mancanza di altro
da fare, guardavo abbastanza volentieri. Tuttavia, ultimamente non si
parlava d’altro che di politica e, malgrado tutto, non ero
sufficientemente incline ad assorbirmi i vari discorsi dei leader dei
partiti, quindi decisi di fare un po’ di zapping.
Come da protocollo, a quell’ora c’è poca
scelta: o telegiornale o soap opera mielose. Mia madre ne va matta, io
preferisco il suicidio.
Mi bloccai sul canale musicale, immobile.
Non avrei mai ammesso di essere rimasta a bocca aperta con la forchetta
a mezz’aria nemmeno sotto tortura. Eppure era così.
Mi ritrovai a fissare quel moretto con i capelli sparati, in piedi, sul
cornicione di un palazzo che cantava una delle sue canzoni attraverso
lo schermo del televisore.
Incredibile, vero?
Ammetto che la cosa fa un certo effetto. Solo poche ore fa
l’avevo visto litigare con il fratello per la suite
dell’albergo e adesso me lo ritrovo sul canale musicale, in
classifica su Top Music, nelle prime dieci.
Avrei dovuto aspettarmelo. Dopotutto non lavoravo per una ditta di
autotrasporti, bensì per un gruppo musicale in tour europeo,
pronti a lanciare il loro secondo disco dopo il grande successo del
primo.
Finita la canzone, la bistecca si era ormai raffreddata e
dell’insalata proprio non mi andava, così spostai
il tavolino pieghevole in un angolo e spensi lo schermo lasciandomi
cadere di schiena sul letto.
Dovevo ammetterlo: erano in gamba.
Altro che ragazzini con le padelle! Quelli sapevano veramente fare
musica!
D’accordo, era ancora presto per giudicare dato che avevo
ascoltato solo un loro successo, ma dubitavo che gli altri testi
fossero da meno.
Spring nicht era davvero una bella canzone.
Il video, poi, era uno dei pochi che avessi mai visto girato con grande
stile.
Insomma, soltanto sotto minaccia di morte avrei confessato che mi fossi
sbagliata sul loro conto, almeno per quanto riguarda il loro lavoro,
fatto stava che mai e poi mai avrei ammesso che fossero bravi.
Solo tra me e me potevo concedermi un simile pensiero.
Però erano bravi sul serio.
Driiin Driin…
Dopo che mi ero rilassata sotto la doccia, lo squillo del cellulare non
mi fece più tanto imbestialire. Nonostante tutto dovevo
assolutamente cambiare quella cazzo di suoneria!
“Alexis! Come stai, tesoro? Tutto a posto, lì, a
Berlino?” mia madre. Donna di gran classe, ma io non la penso
così.
“Certo. Tu?” evitai apposta di chiedere di mio
padre. Sinceramente, non me ne fregava un cazzo.
“Oh, qui va tutto splendidamente. Sai, ho iniziato un corso
di yoga!”
“Magnifico.” Risposi senza entusiasmo. Mia madre e
le sue idee strampalate!
“Oh, dài… raccontami
com’è il tuo lavoro! Voglio sapere
tutto!”
Talvolta mia madre dimentica di parlare con me. Crede di essere al
telefono con una delle sue amiche del club del thè delle
cinque e si pregusta tutti i pettegolezzi serviti quel giorno su un
piatto d’argento. A volte mi chiedo se fosse veramente la mia
madre naturale…
“E’… faticoso.” Non riuscii a
dire altro.
“Oh…” parve sconcertata dalla voce. E
anche un po’ delusa, a dire il vero.
“E David com’è?” riprese con
più foga.
“E’ quello che mi rende il lavoro
faticoso.” Talvolta mento a mia madre, non per il gusto di
farlo, più che altro perché almeno evito ore di
discussioni inutili. Invece quella era la pura e semplice
verità.
“Bè… è pur sempre un lavoro
importante. E’ normale che sia un po’
duro…” ho già detto che mia madre ha
una voce di cinque toni più alta degli squilli del telefono?
“Già…” appurai.
“E com’è vivere al fianco delle rock
star più famose dell’ultima stagione?”
chiese.
Sinceramente? Irritante e prossimo alla perdita del controllo.
“Non è male.” Mentii spudoratamente.
Prima che potesse passare ad altri argomenti, decisi di chiudere quella
conversazione per la mia salute e per il suo bene.
Riagganciai subito dopo averla salutata e scaricata con una scusa
banale ma efficace.
Volevo evitare di parlare di papà e di fare una scorta di
nervosismo ancor prima di andare a quello stupido festino.
L’orologio segnava
le ventuno e dodici.
Sospirai e mi rinchiusi in bagno per pettinarmi, ravvivando i capelli,
per darmi un tocco di matita sotto gli occhi e giusto un po’
di correttore per nascondere le occhiaie.
Tornai in camera da letto per infilarmi le nike bianche e nere e il
cinturone borchiato in vita. I gioielli non erano per niente il mio
genere, ma qualche piccolo monile potevo permetterlo anche io.
Al polso sinistro tenevo l’orologio-bracciale in oro bianco,
in quello destro avevo agganciato un sottile braccialetto, sempre in
oro bianco. Al collo portavo una catenina con uno strano ciondolo a
forma di luna intrecciata da filamenti, anch’essa in oro
bianco. Avrei preferito l’argento, ma purtroppo ero allergica
a quel metallo.
Gli orecchini non era nel mio stile portarli, anche se avevo i buchi.
Naturalmente avevo un altro ornamento, ma, a meno che non fossi stata
in costume ( e io non andavo né al mare né in
piscina ) o in reggiseno, nessuno poteva vederlo.
Non presi il cellulare, né il portafogli, né
tanto meno la borsa quando uscii dalla mia stanza. La suite di Bill era
tre camere più avanti.
Quando fui arrivata ero in anticipo di pochi minuti, ma bussai
ugualmente. Prima sarei entrata e prima mi sarei tolta dalle scatole.
Attesi giusto un momento e il moro scombinato mi aprì la
porta accogliendomi con un gran sorriso.
Portava jeans a vita bassa, una semplice felpa blu scuro e un paio di
pantofole ai piedi. I capelli erano stirati e lisciati. Stava meglio
così, a parer mio.
“Ciao, Occhi di Mammola!” salutò con
foga.
Occhi di
Mammola?!
“Scusa?” chiesi incrociando le
braccia al petto, con sguardo accigliato.
Parve fin troppo divertito dalla mia espressione.
“Non lo sai? Mentre ti aspettavamo ti abbiamo affibiato un
soprannome!” il suo sorriso si allargò ancora di
più.
Fantastico. Nemmeno mi conoscono e mi etichettano già con un
ridicolo nomignolo, come se fossimo mai stati buoni amici in una vita
passata.
E poi… che diavolo è una mammola?
“Che diavolo è una mammola?” sempre
concisa, io.
Rise di gusto. Errore, tesoro: rischi di perdere il tuo bel nasino!
“E’ una viola spontanea delle siepi e delle
boscaglie della foresta Nera. Ti si addice proprio, vero?”
possibile che non si era ancora accorto che stava osando troppo?
Fanculo!
Scossi la testa cercando di
tenere a freno la mia mano destra.
“Se tu o i tuoi amici, di là, vi azzardate anche
solo una volta a chiamarmi ancora in quel modo giro i tacchi e me ne
torno in camera mia!” cosa che non mi dispiacerebbe
affatto avrei voluto aggiungere, ma sempre meglio non
tirarla per le lunghe.
Subito si mise sulla difensiva con le mani aperte davanti a
sé. Chissà perché mi
ritornò in mente la sua figura sul cornicione del palazzo.
Mah.
“Va bene. Recepito il messaggio.” Disse per
scusarsi.
Meglio così.
Dietro di lui comparì il suo gemello, Tom, con il sorriso da
ebete stampato in faccia, al solito.
“Sei di parola, Occhi di Mammola!” mi
salutò con un cenno.
Sbuffai, intravedendo il cantante che si portò entrambe le
mani sul viso e gli occhi imploranti verso di me.
Decisi di dargli cinque secondi di vantaggio per avvertire anche gli
altri, niente di più.
Stare sulla porta mi aveva alquanto stufata e decretai di farla finita
con questa buffonata il più presto possibile.
“Allora… mi fate entrare oppure no?”
Tom sembrava già brillo. Era tutto rosso in viso e
barcollava leggermente. Se continuava così sarebbe crollato
prima delle undici.
Ottimo.
Bill spinse il fratello da un lato e mi fece sengo di accomodarmi in
salotto, in fondo allo stretto corridoio.
Entrai, seguita dai gemelli. Non mi piaceva per niente essere in testa.
Ad ogni passo, sentivo gli occhi del rasta sul mio corpo e non poterlo
fissare per intimidirlo mi diede un gran fastidio.
Appena misi piede in salotto mi maledii di aver accettato quello
stupido invito.
Georg e Gustav erano seduti a gambe incrociate, sul tappeto, i joistik
in mano e un’alta pila di giochi per playstation in un angolo.
Sul tavolino, dietro di loro, c’erano varie bottiglie di
alcool e liquore, di gradazioni diverse.
I due ragazzi seduti si voltarono a guardarmi e sorrisero come bambini
davanti ad un nuovo giocattolo. “Ciao, Occhi di
Mammola!” urlarono quasi all’uniscono.
La rabbia stava crescendo.
Lanciai un’occhiataccia a Bill, che nel frattempo si era
accomodato sul divano, e lui scrollò le spalle di rimando
come per scusarsi.
I cinque secondi di vantaggio non gli erano bastati a quanto pareva.
Male.
Scossi la testa e pregai che non si prospettasse una nottata troppo
lunga.
Tom mi oltrepassò, sfiorandomi quasi impercettibilmente la
schiena con le dita, abbastanza che me ne accorgessi, ma
sufficientemente poco perché potessi protestare.
Si lasciò cadere sulla poltrona più vicina e mi
sorrise. Non ricambiai.
Ordinò al batterista e al bassista di spegnere la console e
si scolò mezzo bicchiere di vodka, o almeno era quello che
sembrava. Non staccò mai lo sguardo dal mio.
Ero abituata a dover sostenere occhi più pesanti di quelli,
quindi non fu un problema, né tanto meno per lui.
Georg chiese: “Con cosa iniziamo?”
Tom mi sorrise ancora, stavolta con più
intensità: “Con il gioco della
bottiglia!”
*
Bastardo!
Perché non rifiutai? Credetemi, il ricatto
è un’ottima forma di persuasione!
Così mi ritrovai con una bottiglia rigorosamente vuota di
birra in mano e il rastaro seduto di fronte a me, a doverlo
fronteggiare con astuzia e gioco di sguardi.
Maledetto sadico!
“Avanti, Alex.
Gira quell’affare prima che faccia giorno!” mi
spronò, quasi a prendermi in giro.
Appoggiai il fiasco sul tavolino, ma esitai.
Non ero così stupida da non trattare.
“Sia chiaro: niente sconcerie!” era la mia unica
arma.
Tom parve accigliarsi, ma si ricompose all’istante:
“Niente sconcerie.” Accettò.
Davvero avevo creduto che si fosse scusato, in corridoio?
Che idiota!
La sua era tutta una farsa per attirarmi nella trappola, per farmi
abboccare all’esca.
E ci era riuscito alla perfezione.
Inutile dire che non l’avrei mai ammesso, ma purtroppo era
così.
E io, cretina, che gli sono andata dietro.
Ero completamente disarmata, indifesa.
Bell’idea andare ad un festino notturno con quattro maschi
ubriachi!
Compimenti, Alex!
Comodamente stravaccato sulla poltrona, mi scrutava con i suoi occhi
nocciola, sorrideva come se avesse appena vinto un trofeo, sorrideva
per deridermi della mia azione incauta.
Oh, bè. Ormai c’ero dentro fino al collo. Tanto
valeva danzare!
La finestra del salotto lasciava intravedere uno spicchio
di luna. Nell’oscurità qualcosa si mosse, ma non
ci badai.
Brividi di freddo mi attraversarono la schiena come acqua ghiacciata e
solo allora mi sentii osservata.
Quella sensazione mi rese irrequieta. Non avevo tempo per preoccuparmi
delle mie paranoie. Davanti a me c’era Tom, prossimo a
stanarmi come un cacciatore stana la sua preda, e non avevo nessuna
intenzione di perdere.
Girai il polso sul fianco della bottiglia e lasciai. Il gioco era
inizato.
"La
sento. E' irrequieta. Percepisco la sua tensione.
Ormai è parte di me."
Continua...!?!
Ciao a tutti! Eccomi tornata con il terzo capitolo di "The Eyes of the Darkness"!
Dunque... prima di tutto mi scuso per il ritardo! Il mio pc fa i capricci una volta al mese e i capitoli si cancellano quasi sempre! Che disgrazia! sigh!
Molti di voi... o almeno lo spero... si staranno chiedendo chi cavolo sia questo Jared. Oh bhè, nel quarto capitolo spiegherò tutto! ^^ Tranquilli!
Buwuwuwawawa... avete visto che bastardo l'ho fatto diventare TOM? uhuhuh... che Sadico! *-* ... comunque alla fine ... ihih... non vi racconto niente! ^^
Se avete altre domande: fatele! Me risponderà a tutto quanto! ^^
Scusate, oggi ringrazio così perchè non ho proprio tempo:
- CaTtY
- BeCkY_kAuLiTz
- selina89
- (§Giulietta§)
- miss miyu 91
- LiSa90
- sara
- Barbycam
- hEiLig FuR ImMeR
- shine_angel
Grazie a tutti quelli che hanno recensito!
Davvero, è grazie a loro se questa ff va avanti!
Un abbraccione forte forte e un bacio a tutti!
Kisskiss
Hilaryssj