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Autore: hilaryssj    25/02/2008    8 recensioni
Alexis. L'assistente manager dei Tokio Hotel. Una diciannovenne come tante, con i problemi di tutti i giorni. Capelli biondi, fisico praticamente perfetto... una cosa la differenzia da tutti: I Suoi Occhi. Talmente profondi da tendere ad un viola glaciale. Nascondono qualcosa di terribile...
Genere: Romantico, Dark, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Il gioco di Tom

 

Alexis

 


Il Sole tramontava all’Orizzonte con una lentezza quasi esasperante. I minuti scorrevano come gocce di miele su una superficie increspata e poco inclinata. Le ombre nella mia stanza si allungavano sempre più dense e scure, incorniciate dal colore caldo del tipico arancione tenue di quelle ore.
Ero sdraiata sul letto, sotto la candida trapunta verde chiaro, e fissavo con occhi vacui quel pigro spettacolo che si prospettava dalla mia porta-finestra, all’undicesimo piano dell’Hotel.
Avevo ancora gli occhi gonfi e arrossati per il pianto nonostante avessi dormito per circa due ore buone. Il sapore dolciastro del sangue aveva abbandonato i miei sensi quasi definitivamente rilasciando solo un’oscura ombra lontana nella mia mente. Tutte quelle sensazioni provate in corridoio quel pomeriggio mi parvero irreali. Troppo irreali. Pensai quasi di aver sognato tutto.
Ma sapevo che non era così.
Per qualche strana ragione avevo pensato che fosse stato Jared a procurarmi quegli spasmi allo stomaco, il giramento di testa e tutto il resto.
 

Jared…

 

Perché proprio lui? Perché adesso? Perché qui?
Oh, Diavolo! Non poteva essere lui. Non dopo due anni. Non quando ero quasi riuscita a dimenticarlo…
Era solo stanchezza. Solo quella. Niente più.
Io, poi, non sono il genere di ragazza che si lascia intimidire da qualche rumore. Non sono superstiziosa, ecco.
Scossi la testa emettendo un lieve grugnito che morì tra i sottili filamenti del cuscino.

 
Basta essere paranoica!
 

Mi proibii mentalmente di piangere ancora.
Fissai incessantemente il cerchio infuocato finchè non sparì completamente dietro le colline in lontananza.
Strano che ci fosse stato il Sole quel giorno; quella mattina e il primo pomeriggio mi erano parsi troppo intrisi di nebbia e bassa temperatura per mostrare anche solo uno spicchio di tiepida luce. Ebbene mi ero sbagliata.
Non che mi rammaricassi così tanto. In un certo senso detestavo quella palla incandescente, anche se vivevo grazie a lei, ma, soprattutto d’estate, il bagliore rovente che irradiava mi dava un certo fastidio.
Prima non era così. O meglio, prima di compiere quei dannati diciassette anni non provavo tanto disgusto per un semplice fenomeno naturale.

 

Era il tramonto anche quel giorno. Vero, Jared?

 

Strinsi convulsamente il lenzuolo tra le mani e mi morsi il labbro quasi a farlo sanguinare.
Mi alzai dal letto con una velocità impressionante e mi diressi in bagno.
Dovevo fare qualcosa o tutto ciò che vedevo e respiravo mi riportava a pensare a quel giorno, a quelle sensazioni, a lui.
Aprii il rubinetto e lasciai scorrere l’acqua fredda. Guardandomi allo specchio rimasi inorridita dal mio aspetto.
I lunghi capelli biondi erano tutti annodati e il grosso frangione non era più diviso da una parte, ma scompigliato all’indietro. Gli occhi erano circondati da terribili occhiaie violacee, come se avessi fatto a pugni, e la matita che sbavata fino alle guance accentuava inevitabilmente il pianto di poco fa.
Lo sguardo era vacuo, triste, fittizio. Mi spaventai perché non mi vedevo conciata in quel modo da tanto tempo. Da quasi due anni.
Chiusi le palpebre, strizzandole pur di non far sgorgare nemeno una lacrima.
Misi le mani sotto l’acqua gelida e mi sfregai il viso con violenza. Il contatto con il freddo mi svegliò subito e mi diede sollievo. Sospirai.
L’orologio segnava le diciannove e un quarto. Non avevo nessuna voglia di andare al festino di quei ragazzi, ma non avevo alcu
na alternativa.
Se declinavo sarebbe stato come dar ragione al rastaro, ammettere che non si era sbagliato sul mio conto e sulla mia salute, cosa che detestavo.
Mai e poi mai gli avrei dato questa soddisfazione. Non mi conosceva come pensava, nemmeno lontanamente.
Non mi fidavo di lui, tantomeno dei suoi amici.
Fatto stava che non avevo un movente accettabile per respingere l’invito, quindi non avevo scelta.
Avevo tempo per prepararmi. Mancavano due ore abbondanti e non avevo messo ancora niente sotto i denti.
Strano, ma vero.
Uscire era fuori discussione, così chiamai il sevizio in camera e ordinai una bistecca al sangue con insalata. Il dolce non lo gradivo granchè. Ordinai anche una bottiglia d’acqua frizzante; chissà perché, ma quella naturale non mi dissetava per niente.
Nell’attesa, mi gettai sotto l’acqua calda della doccia. Mi lasciai sfuggire un respiro di sollievo a contatto con il getto rilassante.
Quanto l’avevo desiderato quel giorno? Minimo venti volte, sicuro!

Mi sembrava quasi un sogno starmene tranquillamente appoggiata con le braccia al vetro appannato e la schiena esposta agli spruzzi violenti, puri e scroscianti.
Niente cellulare, niente David, niente lavoro. Solo quel rumore rasserenante e la sensazione di lavare via ogni preoccupazione.
Mi lavai i capelli con lo shampoo al cocco e mi detersi la pelle con il bagnoschiuma alla vaniglia. In quel momento non sarei stata in grado di descrivere niente di più bello.
Uscii dalla doccia completamente rigenerata e rinfrescata da un alone di dolce profumo.
Mi avvolsi nell’asciugamano fornito dall’albergo e iniziai ad asciugarmi i capelli.
Molti credono che, dalla lunghezza, ci metto molto per farmi una piega decente, invece di norma non ci impiego più di mezz’ora.
Quella volta, al contrario, decisi di dargli solo un colpo veloce giusto per non tenerli bagnati e per dare una forma accettabile al frangione da un lato.
Dopo dieci minuti rientrai in camera da letto per vestirmi.
Il mio guardaroba è molto limitato nei colori, ma comunque non si può dire sia povero di scelta. Poco dopo ero avvolta in un paio di jeans stretti e una maglietta di cotone rigorosamente nera a maniche lunghe e larghe. Non mi piacevano i troppi fronzoli, ma comunque sfoggiavo un semplice disegno raffigurante due ali rosse spezzate all’altezza del seno, a destra.
Stavo ancora definendo i dettagli quando bussarono alla porta: servizio in camera.
Una donna sulla quarantina mi porse il vassoio e si defilò per il corridoio senza una parola. Meglio così. Quella sera non ero in vena di chiacchiere superflue.
Aprii il tavolino pieghevole appostato dietro la tenda della finestra e lo sistemai davanti alla TV. Mi sedetti sul letto e l’accesi sul quinto canale per il telegiornale.
L’odore del cibo mi strinse lo stomaco e quasi mi diede la nausea. Possibile che non avessi fame?
Contro voglia mi sforzai di addentare ogni boccone della bistecca, inghiottendo con sforzo. Non la gradivo ben cotta, ma preferivo fosse sempre un po’ al sangue. Mia madre mi costringeva sempre a mangiarla quasi arrostita, rimproverandomi perché a me piaceva praticamente cruda.
Scelte di vita.
Il telegiornale era uno dei pochi programmi che, in mancanza di altro da fare, guardavo abbastanza volentieri. Tuttavia, ultimamente non si parlava d’altro che di politica e, malgrado tutto, non ero sufficientemente incline ad assorbirmi i vari discorsi dei leader dei partiti, quindi decisi di fare un po’ di zapping.
Come da protocollo, a quell’ora c’è poca scelta: o telegiornale o soap opera mielose. Mia madre ne va matta, io preferisco il suicidio.
Mi bloccai sul canale musicale, immobile.
Non avrei mai ammesso di essere rimasta a bocca aperta con la forchetta a mezz’aria nemmeno sotto tortura. Eppure era così.
Mi ritrovai a fissare quel moretto con i capelli sparati, in piedi, sul cornicione di un palazzo che cantava una delle sue canzoni attraverso lo schermo del televisore.
Incredibile, vero?
Ammetto che la cosa fa un certo effetto. Solo poche ore fa l’avevo visto litigare con il fratello per la suite dell’albergo e adesso me lo ritrovo sul canale musicale, in classifica su Top Music, nelle prime dieci.
Avrei dovuto aspettarmelo. Dopotutto non lavoravo per una ditta di autotrasporti, bensì per un gruppo musicale in tour europeo, pronti a lanciare il loro secondo disco dopo il grande successo del primo.
Finita la canzone, la bistecca si era ormai raffreddata e dell’insalata proprio non mi andava, così spostai il tavolino pieghevole in un angolo e spensi lo schermo lasciandomi cadere di schiena sul letto.
Dovevo ammetterlo: erano in gamba.
Altro che ragazzini con le padelle! Quelli sapevano veramente fare musica!
D’accordo, era ancora presto per giudicare dato che avevo ascoltato solo un loro successo, ma dubitavo che gli altri testi fossero da meno.
Spring nicht era davvero una bella canzone.
Il video, poi, era uno dei pochi che avessi mai visto girato con grande stile.
Insomma, soltanto sotto minaccia di morte avrei confessato che mi fossi sbagliata sul loro conto, almeno per quanto riguarda il loro lavoro, fatto stava che mai e poi mai avrei ammesso che fossero bravi.
Solo tra me e me potevo concedermi un simile pensiero.
Però erano bravi sul serio.

 
Driiin Driin…

 
Dopo che mi ero rilassata sotto la doccia, lo squillo del cellulare non mi fece più tanto imbestialire. Nonostante tutto dovevo assolutamente cambiare quella cazzo di suoneria!

 “Pronto?” risposi.
“Alexis! Come stai, tesoro? Tutto a posto, lì, a Berlino?” mia madre. Donna di gran classe, ma io non la penso così.
“Certo. Tu?” evitai apposta di chiedere di mio padre. Sinceramente, non me ne fregava un cazzo.
“Oh, qui va tutto splendidamente. Sai, ho iniziato un corso di yoga!”
“Magnifico.” Risposi senza entusiasmo. Mia madre e le sue idee strampalate!
“Oh, dài… raccontami com’è il tuo lavoro! Voglio sapere tutto!”
Talvolta mia madre dimentica di parlare con me. Crede di essere al telefono con una delle sue amiche del club del thè delle cinque e si pregusta tutti i pettegolezzi serviti quel giorno su un piatto d’argento. A volte mi chiedo se fosse veramente la mia madre naturale…
“E’… faticoso.” Non riuscii a dire altro.
“Oh…” parve sconcertata dalla voce. E anche un po’ delusa, a dire il vero.
“E David com’è?” riprese con più foga.
“E’ quello che mi rende il lavoro faticoso.” Talvolta mento a mia madre, non per il gusto di farlo, più che altro perché almeno evito ore di discussioni inutili. Invece quella era la pura e semplice verità.
“Bè… è pur sempre un lavoro importante. E’ normale che sia un po’ duro…” ho già detto che mia madre ha una voce di cinque toni più alta degli squilli del telefono?
“Già…” appurai.
“E com’è vivere al fianco delle rock star più famose dell’ultima stagione?” chiese.
Sinceramente? Irritante e prossimo alla perdita del controllo.
“Non è male.” Mentii spudoratamente.
Prima che potesse passare ad altri argomenti, decisi di chiudere quella conversazione per la mia salute e per il suo bene.
Riagganciai subito dopo averla salutata e scaricata con una scusa banale ma efficace.
Volevo evitare di parlare di papà e di fare una scorta di nervosismo ancor prima di andare a quello stupido festino.

L’orologio segnava le ventuno e dodici.
Sospirai e mi rinchiusi in bagno per pettinarmi, ravvivando i capelli, per darmi un tocco di matita sotto gli occhi e giusto un po’ di correttore per nascondere le occhiaie.
Tornai in camera da letto per infilarmi le nike bianche e nere e il cinturone borchiato in vita. I gioielli non erano per niente il mio genere, ma qualche piccolo monile potevo permetterlo anche io.
Al polso sinistro tenevo l’orologio-bracciale in oro bianco, in quello destro avevo agganciato un sottile braccialetto, sempre in oro bianco. Al collo portavo una catenina con uno strano ciondolo a forma di luna intrecciata da filamenti, anch’essa in oro bianco. Avrei preferito l’argento, ma purtroppo ero allergica a quel metallo.
Gli orecchini non era nel mio stile portarli, anche se avevo i buchi.
Naturalmente avevo un altro ornamento, ma, a meno che non fossi stata in costume ( e io non andavo né al mare né in piscina ) o in reggiseno, nessuno poteva vederlo.
Non presi il cellulare, né il portafogli, né tanto meno la borsa quando uscii dalla mia stanza. La suite di Bill era tre camere più avanti.
Quando fui arrivata ero in anticipo di pochi minuti, ma bussai ugualmente. Prima sarei entrata e prima mi sarei tolta dalle scatole.
Attesi giusto un momento e il moro scombinato mi aprì la porta accogliendomi con un gran sorriso.
Portava jeans a vita bassa, una semplice felpa blu scuro e un paio di pantofole ai piedi. I capelli erano stirati e lisciati. Stava meglio così, a parer mio.
“Ciao, Occhi di Mammola!” salutò con foga.

 
Occhi di Mammola?!

 
“Scusa?” chiesi incrociando le braccia al petto, con sguardo accigliato.
Parve fin troppo divertito dalla mia espressione.
“Non lo sai? Mentre ti aspettavamo ti abbiamo affibiato un soprannome!” il suo sorriso si allargò ancora di più.
Fantastico. Nemmeno mi conoscono e mi etichettano già con un ridicolo nomignolo, come se fossimo mai stati buoni amici in una vita passata.
E poi… che diavolo è una mammola?
“Che diavolo è una mammola?” sempre concisa, io.
Rise di gusto. Errore, tesoro: rischi di perdere il tuo bel nasino!
“E’ una viola spontanea delle siepi e delle boscaglie della foresta Nera. Ti si addice proprio, vero?” possibile che non si era ancora accorto che stava osando troppo?
 

Fanculo!
 

Scossi la testa cercando di tenere a freno la mia mano destra.
“Se tu o i tuoi amici, di là, vi azzardate anche solo una volta a chiamarmi ancora in quel modo giro i tacchi e me ne torno in camera mia!” cosa che non mi dispiacerebbe affatto avrei voluto aggiungere, ma sempre meglio non tirarla per le lunghe.
Subito si mise sulla difensiva con le mani aperte davanti a sé. Chissà perché mi ritornò in mente la sua figura sul cornicione del palazzo. Mah.
“Va bene. Recepito il messaggio.” Disse per scusarsi.
Meglio così.
Dietro di lui comparì il suo gemello, Tom, con il sorriso da ebete stampato in faccia, al solito.
“Sei di parola, Occhi di Mammola!” mi salutò con un cenno.
Sbuffai, intravedendo il cantante che si portò entrambe le mani sul viso e gli occhi imploranti verso di me.
Decisi di dargli cinque secondi di vantaggio per avvertire anche gli altri, niente di più.
Stare sulla porta mi aveva alquanto stufata e decretai di farla finita con questa buffonata il più presto possibile.
“Allora… mi fate entrare oppure no?”
Tom sembrava già brillo. Era tutto rosso in viso e barcollava leggermente. Se continuava così sarebbe crollato prima delle undici.
Ottimo.
Bill spinse il fratello da un lato e mi fece sengo di accomodarmi in salotto, in fondo allo stretto corridoio.
Entrai, seguita dai gemelli. Non mi piaceva per niente essere in testa. Ad ogni passo, sentivo gli occhi del rasta sul mio corpo e non poterlo fissare per intimidirlo mi diede un gran fastidio.
Appena misi piede in salotto mi maledii di aver accettato quello stupido invito.
Georg e Gustav erano seduti a gambe incrociate, sul tappeto, i joistik in mano e un’alta pila di giochi per playstation in un angolo.
Sul tavolino, dietro di loro, c’erano varie bottiglie di alcool e liquore, di gradazioni diverse.
I due ragazzi seduti si voltarono a guardarmi e sorrisero come bambini davanti ad un nuovo giocattolo. “Ciao, Occhi di Mammola!” urlarono quasi all’uniscono.
La rabbia stava crescendo.
Lanciai un’occhiataccia a Bill, che nel frattempo si era accomodato sul divano, e lui scrollò le spalle di rimando come per scusarsi.
I cinque secondi di vantaggio non gli erano bastati a quanto pareva. Male.
Scossi la testa e pregai che non si prospettasse una nottata troppo lunga.
Tom mi oltrepassò, sfiorandomi quasi impercettibilmente la schiena con le dita, abbastanza che me ne accorgessi, ma sufficientemente poco perché potessi protestare.
Si lasciò cadere sulla poltrona più vicina e mi sorrise. Non ricambiai.
Ordinò al batterista e al bassista di spegnere la console e si scolò mezzo bicchiere di vodka, o almeno era quello che sembrava. Non staccò mai lo sguardo dal mio.
Ero abituata a dover sostenere occhi più pesanti di quelli, quindi non fu un problema, né tanto meno per lui.
Georg chiese: “Con cosa iniziamo?”
Tom mi sorrise ancora, stavolta con più intensità: “Con il gioco della bottiglia!”

 

*
 

Bastardo!

 
Perché non rifiutai? Credetemi, il ricatto è un’ottima forma di persuasione!
Così mi ritrovai con una bottiglia rigorosamente vuota di birra in mano e il rastaro seduto di fronte a me, a doverlo fronteggiare con astuzia e gioco di sguardi.

 
Maledetto sadico!

 

“Avanti, Alex. Gira quell’affare prima che faccia giorno!” mi spronò, quasi a prendermi in giro.
Appoggiai il fiasco sul tavolino, ma esitai.
Non ero così stupida da non trattare.
“Sia chiaro: niente sconcerie!” era la mia unica arma.
Tom parve accigliarsi, ma si ricompose all’istante: “Niente sconcerie.” Accettò.
Davvero avevo creduto che si fosse scusato, in corridoio?
Che idiota!
La sua era tutta una farsa per attirarmi nella trappola, per farmi abboccare all’esca.
E ci era riuscito alla perfezione.
Inutile dire che non l’avrei mai ammesso, ma purtroppo era così.
E io, cretina, che gli sono andata dietro.
Ero completamente disarmata, indifesa.
Bell’idea andare ad un festino notturno con quattro maschi ubriachi!
Compimenti, Alex!
Comodamente stravaccato sulla poltrona, mi scrutava con i suoi occhi nocciola, sorrideva come se avesse appena vinto un trofeo, sorrideva per deridermi della mia azione incauta.
Oh, bè. Ormai c’ero dentro fino al collo. Tanto valeva danzare!

 
La finestra del salotto lasciava intravedere uno spicchio di luna. Nell’oscurità qualcosa si mosse, ma non ci badai.
Brividi di freddo mi attraversarono la schiena come acqua ghiacciata e solo allora mi sentii osservata.
Quella sensazione mi rese irrequieta. Non avevo tempo per preoccuparmi delle mie paranoie. Davanti a me c’era Tom, prossimo a stanarmi come un cacciatore stana la sua preda, e non avevo nessuna intenzione di perdere.
Girai il polso sul fianco della bottiglia e lasciai. Il gioco era inizato.


"La sento. E' irrequieta. Percepisco la sua tensione.
Ormai è parte di me."

Continua...!?!

Ciao a tutti! Eccomi tornata con il terzo capitolo di "The Eyes of the Darkness"!

Dunque... prima di tutto mi scuso per il ritardo! Il mio pc fa i capricci una volta al mese e i capitoli si cancellano quasi sempre! Che disgrazia! sigh!

Molti di voi... o almeno lo spero... si staranno chiedendo chi cavolo sia questo Jared. Oh bhè, nel quarto capitolo spiegherò tutto! ^^ Tranquilli!

Buwuwuwawawa... avete visto che bastardo l'ho fatto diventare TOM? uhuhuh... che Sadico! *-* ... comunque alla fine ... ihih... non vi racconto niente! ^^

Se avete altre domande: fatele! Me risponderà a tutto quanto! ^^

Scusate, oggi ringrazio così perchè non ho proprio tempo:

  • CaTtY
  • BeCkY_kAuLiTz
  • selina89
  • (§Giulietta§)
  • miss miyu 91
  • LiSa90
  • sara
  • Barbycam
  • hEiLig FuR ImMeR
  • shine_angel

Grazie a tutti quelli che hanno recensito!
Davvero, è grazie a loro se questa ff va avanti!
Un abbraccione forte forte e un bacio a tutti!

Kisskiss


Hilaryssj



  
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