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Autore: Belarus    05/09/2013    1 recensioni
«Ti somiglia…» sussurrò piano, poggiandosi al suo braccio.
Cesare preferì non voltarsi, continuando a fissare i sue due ragazzi che ridevano a squarciagola nel bel mezzo della strada.
«… ma non è mio figlio.» precisò con un velo di divertimento.
Isabel non mancò di tirargli per l’ennesima volta durante quel breve soggiorno una ciocca scura in segno di biasimo.
«Non lo è, ma trattalo come se lo fosse.»

[Attenzione: Spin-off tratto dalla serie “Welcome to Johnnie Walker n3030 Shackleton River, Chicago”]
Genere: Generale, Malinconico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Altri, Antica Roma, Francia/Francis Bonnefoy, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Soy un fué y un será – Sono un fu e un sarà.
Note: La storia è uno spin-off de "Welcome to Johnnie Walker n°3030 Shackleton River, Chicago".
Credo sia l’ultimo capitolo di questo piccolo spin-off… credo perché la mia mente ha partorito l’ennesima scena malinconica, ma non sono proprio propensa ad inserirla e ci sto ancora meditando su, giusto per rodermi ancora l’anima con questa epopea infinita. Il POV è quello di Nonno Roma, anche se un breve spazio l’ho concesso anche a Francis, ma si capisce facilmente ed è inutile che faccia sciocche precisazioni. Ringrazio quei pochi fedelissimi che hanno deciso di leggere anche questo spin-off e che continuano a seguire il Walker. Sappiate che vi voglio davvero molto bene, anche se a volte mi arrabbio perché non capisco se ci siate oppure no, ma vi voglio bene ugualmente. Merci a coloro che passeranno di qui, vorranno concedermi un pensierino{?!} o chiuderanno la pagina senza aver letto. Merci mes amis! *-*
Traduzioni a piè di pagina.
NoteII: Dedicata a César che mi ha ispirato e consigliato per la location.


Soy un fué y un será – Sono un fu e un sarà.




Fuentes de Ebro, 19 agosto 1912.




Una goccia di sangria cadde muta sul legno levigato del vecchio tavolo in cucina, lasciò che la lingua scivolasse sulle labbra in fretta, assaporando al meglio il sapore aromatizzato del vino che gli era stato servito quasi ghiacciato. Se non avesse percepito il retrogusto alcolico cui da anni aveva ormai fatto l’abitudine, lo avrebbe giudicato un vero toccasana per gente di qualsiasi età.
«Quindi vuoi portartelo via… »
Cesare riportò le iridi nocciola su di lei, scosse il capo abbandonandosi sullo schienale instabile della seggiola in raffia e legno intrecciato, giochicchiò con il bicchiere in vetro scheggiato che reggeva ancora tra le dita indurite dai troppi lavori che aveva svolto quando ancora era un ragazzino, piccoli cerchi umidicci lambirono la superficie brillando appena al tocco dei raggi che filtravano dal balconcino.
Non aveva alcuna intenzione di sottrarle l’unico figlio che avesse mai avuto, non era mai stato tanto superbo dal pensarlo neanche per un solo istante, ma in qualche modo, facendo i conti con il proprio cuore di padre, riusciva persino a comprenderla. Sapeva che non vi era alcuna rabbia nelle parole di Isabel, ma l’espressione cui si era piegato il suo viso a quella proposta, aveva insidiato in Cesare il timore che lei potesse infuriarsi, persino offendersi per tanto ardore. In fondo sarebbe stato del tutto giustificato, gli anni che avevano passo separati erano in netto vantaggio rispetto a quelli trascorsi insieme e durante quel lungo periodo non vi era stata alcuna lettera, nessuna notizia o scambio di saluti. Come due perfetti estranei i loro occhi si erano incontrati quasi per errore, su una strada desolata che nulla aveva a che vedere con quelle affollate di Zaragoza. Non si sarebbe stupito del sentirsi cacciare via, del beccarsi qualche secchio d’acqua o ramazza sul sedere, quello su cui stava accampando proposte era pur sempre suo figlio e Isabel aveva ogni diritto per privarlo di qualcosa che mai gli era appartenuto.
«Non voglio allontanarlo da te e Ferdinando, quello che st-» cominciò, sperando che la donna capisse.
«Oh Cesare non essere sciocco! So benissimo che non vuoi portarmi via Antonio! Quello che dico è…»
L’italiano piegò appena il capo sulla spalla, osservò con attenzione il cipiglio combattuto che la spagnola aveva assunto dopo quell’ultima affermazione. Isabel continuava a tirare e arrotolare un’unica ciocca di capelli scuri attorno all’indice, segno di quanto indispettita fosse con se stessa, soffiava fuori l’aria con piccoli sbuffi profondi che le davano un’aria persino divertente, ma Cesare si trattenne dal sorridere.
Conosceva la donna da abbastanza tempo dal saper prevenire qualsiasi papabile sfuriata e l’argomento su cui si erano soffermati, non era certo dei più leggeri neanche per lui. Quella questione andava discussa con estrema chiarezza e uno sforzo di volontà non indifferente, affinché non vi fossero problemi o incomprensioni, quando e semmai, lo spostamento sarebbe avvenuto.
«Chicago! Chicago?! Non so neanche dove sta Chicago!» sbottò, abbandonando di colpo i propri capelli.
«Te l’ho detto Isabel, è una città americana che si espande a dismisura ogni giorno, hanno persino un lago talmente grande da farci navigare dentro mercantili…» la donna gli rivolse un soffio esasperato.
«Sì, ma l’America è enorme Cesare!»
La sua voce parve mantenere il medesimo tono concitato, ma qualcosa nello sguardo che gli rivolse, fece intuire all’italiano quale fosse il vero cruccio che le stava tormentando la mente e la leggera incrinatura con cui aveva pronunciato il suo nome gli si palesò immediatamente dinanzi.
Avrebbe dovuto capirlo prima e si diede nuovamente dello sciocco come accadeva ormai troppo spesso da qualche anno. Isabel era pur sempre una madre prima di essere la ragazza alla mano che aveva conosciuto molto tempo prima, il suo senso di protezione era ormai imprescindibile da qualsiasi cosa riguardasse quel giovane di cui si ritrovavano a parlare e non poteva certo pretendere che svanisse con una sola proposta o qualche misera accortezza.
«Ho già spostato i miei affari lì, procede tutto senza alcun intoppo già da quattro anni e il mio trasferimento è ormai imminente… ci sarò io con lui, non sarà solo, me ne occuperò anche da lontano se vorrai.»
Isabel gli rivolse un’occhiata incerta, le dita sottili afferrarono nuovamente la ciocca scura che le era scivolata lungo la spalla nuda. Ripresero a rigirarla con lentezza, lasciando che il suono dei loro respiri riempisse la piccola cucina ombrosa.
«So che tu e Ferdinando avete fatto del vostro meglio, ma lì avrà una vita migliore. Gli troverò un lavoro onesto, potrà studiare se vorrà e farò in modo che non gli accada mai nulla…»
«Perché lo fai?» la domanda lo colse incredibilmente di sorpresa.
Avrebbe dovuto immaginare che alla fine qualcuno gliel’avrebbe posta, si aspettava già di riceverla nel suo precedente viaggio, ma Francis – l’unico con cui fosse riuscito a parlare – si era limitato ad accettare senza troppi preamboli. Aveva preparato un discorso da recitare come un’oratoria temendo di trovarsi con la lingua a corto di parole, vi aveva scritto ogni buon proposito capace di riparare alle cattive azioni compiute. Durante le sue lunghi notti insonni aveva passato le ore a ripetersi perché tutta quella messa in scena fosse necessaria, eppure adesso che Isabel lo fissava in silenzio dalla parte opposta del vecchio tavolo l’unica cosa che gli venisse in mente, era anche l’unica di cui non fosse certo.
«Antonio è figlio di Ferdinando.» sentenziò lei lapidaria, squarciando il flusso dei suoi pensieri.
«Come fai a-»
«Lo so e basta, non fare il presuntuoso con me Cesare! Antonio è figlio di Ferdinando e se sei venuto qua perché hai la coscienza sporca, va a lavarla da un’altra parte!» il disprezzo con cui quelle parole furono pronunciate gravò sulle spalle dell’italiano come un macigno.
Abbassò lo sguardo in silenzio, costringendosi ad osservare con particolare attenzione il legno scheggiato su cui giaceva abbandonato il bicchiere umido di sangria.
La sua coscienza si era macchiata di colpe che difficilmente avrebbe potuto lavare via con atti di generosità, durante la sua vita aveva dimenticato per troppo tempo cosa significasse badare ad una famiglia. Aveva costruito un impero sudando sangue ogni misero giorno, ma ciò che ne aveva ricavato era solo un conto in banca cospicuo e una casa più silenziosa di quanto avrebbe voluto. Gli unici momenti sereni che avesse mai trascorso erano quelli nel suo vecchio paese, in compagnia dei suoi due nipoti, ma ogni viaggio implicava una separazione e quelle separazioni ormai gravavano sin troppo sulle sue spalle. Aveva deciso di rimanere in disparte, aveva scelto di abbandonarsi sul ciglio della strada a osservare le vite di chi avrebbe dovuto aiutarlo a rialzarsi. Un giorno se ne sarebbe andato in silenzio, senza nessuno ad accompagnarlo, felice di sapere che qualcuno lo avrebbe ricordato come Nonno Roma, zio o magari amico piuttosto che come Cesare Vargas. Scioccamente non aveva pensato a cosa vi fosse alle spalle del punto in cui aveva deciso di accasciarsi pur sapendo dell’esistenza di un passato, aveva deciso di ignorarlo sperando che il suo buon proposito fosse convincente e la messa in scena potesse cominciare senza fughe da parte degli attori.
«Mi spiace… sono stata sgarbata…» il borbottio di Isabel lo distrasse nuovamente.
Le iridi scure risalirono la sua figura, permettendogli di sfoggiare un sorriso amaro.
«No, sono io a dovermi scusare… non sarei dovuto venire sin qui dopo così tanto tempo.»
Scostò con garbo il bicchiere in vetro scheggiato verso di lei, le mani fecero forza sul ripiano fresco, pronte a fornire la spinta per farlo rialzare e accompagnarlo alla porta. Un sospiro rassegnato gli gonfiò il petto largo, mentre le labbra rosse di Isabel si piegavano in un broncio indispettito.
«No, hai ragione… avresti dovuto passare tutte le estati qui, magari a quest’ora ti avrei versato anche un goccio di vino in più nella sangria!» precisò con rimprovero rivolgendogli il medesimo sorriso con cui l’aveva accolto.
Cesare sgranò stupito gli occhi per qualche istante, tacque, mentre la donna afferrava la caraffa e gli versava nuovamente da bere. Poggiò la camicia rossiccia allo schienale fragile della sedia su cui si era accomodato, una muta risata spontanea riempì la cucina quando Isabel l’ebbe fissato nuovamente con occhi grati.
Era ancora una delle donne più belle che avesse mai visto in vita sua, ma senza dubbio era quella che maggiormente si era pentito di non aver amato abbastanza.


Per l’ennesima volta durante quella presunta passeggiata si passò il fazzoletto sulla fronte asciugando parte del sudore che continuava ad imperlargli la fronte, lo lasciò scivolare sino alla nuca dove alcune ciocche bionde sfuggite al codino si erano ormai appiccicate come una seconda pelle.
«Dovresti procurarti un cappello, altrimenti ti scotterai e diventerai rosso como uno de questi!»
Francis rivolse un’occhiata preoccupata alla cassa di peperoni che il ragazzo gli stava sventolando davanti come fosse un cestino della merenda.
Avrebbe volentieri posto rimedio all’intoppo proponendo ad Antonio di trovare rifugio in qualche cascina abbandonata o di fare un bagno in quel fiumiciattolo gorgogliante che scivolava tra i campi, ma con la carnagione che si ritrovava sarebbe stato semplicissimo beccarsi una qualche ustione in quel paese e non aveva intenzione di rimetterci solo per qualche proposta piccante. In realtà avrebbe volentieri corso il rischio per poggiare le mani su quel sedere polveroso, ma il rosso gli donava in quantità limitate e Cesare lo avrebbe scovato senza troppa fatica se non fosse rientrato entro una ventina di minuti.
«Non so come tu faccia a vivere in un posto noioso e impossibile come questo, con o senza cappello!» borbottò contrariato risalendo l’ultimo tratto di sterpaglia che conduceva alla scalinata.
«È casa mia!» affermò sicuro consentendogli di salire per primo.
«Tu non sai cosa siano le lamentele, vero Antoine?» il ragazzo gli concesse l’ennesimo sorriso.
Da quando Francis gli aveva rivolto con solo una staccionata divelta a separarli Antonio non aveva smesso di sorridere per un solo secondo. Lo aveva visto concentrato sul lavoro, con l’espressione seria e composta di chi sta impegnando ogni goccia della propria volontà per svolgere il proprio compito al meglio, ma sul suo volto non vi era mai stata traccia di nervosismo, stanchezza o persino diffidenza. Gli aveva stretto un braccio attorno alle spalle come se si conoscessero da sempre, come se quello a parlargli non fosse un perfetto estraneo, bensì un amico.
«E poi non è noioso! C’è un sacco di gente interessante e ora sei arrivato anche tu!»
Le labbra del francese si piegarono in un sorriso di pura tenerezza, batté estasiato le ciglia bionde per qualche istante prima di passargli una mano tra la zazzera accaldata in un moto di affetto incontenibile.
«Oh mon chouchou sei l’essere più adorabile che abbia conosciuto in vita mia!» cinguettò lezioso coccolandolo.
Trovava qualcosa di surreale nel sorriso caldo che quel ragazzo continuava a rifilare anche alle mosche, talmente surreale da spingerlo a tenere a freno le proprie voglie, nonostante l’altro non fosse facilmente ignorabile sotto quel punto di vista. Francis lo aveva osservato a lungo prima di rivolgergli la parola, ne aveva osservato con famelica attenzione ogni movimento persino involontario. Aveva scoperto in poco tempo che in caso di difficoltà – fosse anche un peperone che non voleva staccarsi dalla propria pianta – Antonio tendeva a serrare le labbra in un sorriso piatto, che quando rideva le spalle si protendevano in avanti o che aveva un andamento particolarmente fermo anche sobbarcato di casse di verdura e che non era molto avvezzo alle frasi troppo complesse, ma non certo per stupidità. Quel ragazzo si era palesato ai suoi occhi come un vecchio libro aperto di cui il proprietario sfoglia le pagine sapendo perfettamente cosa andare a cercare.
«E tu sei di certo quello che parla in modo più strano!» ridacchiò senza scostarsi.
«Io non parlo in modo strano! Non va bene se cominci a dire cose cattive al fratellone eh!» serrò le braccia al petto, offeso.
Quando ebbe raggiunto la cima della scalinata, continuò a camminare con il naso in su per una buona decina di metri lungo la strada polverosa che l’altro aveva consigliato come scorciatoia. Si fermò quando alle proprie spalle non sentì che un tonfo leggero piuttosto che i passi dello spagnolo a seguirlo, si volse confuso abbandonando inconsciamente la posa teatrale assunta poco prima. Le iridi blu ripercorsero il tragitto sino alla cassa che giaceva abbandonata sul basolato sabbioso del calle.
«Uhm?» mugolò stranito, mentre l’altro continuava a fissarlo.
«Non rimpiangi di aver lasciato casa tua per andare in America?» chiese serrando le labbra in quel sorriso che il francese aveva già imparato a riconoscere.
«Casa mia resta lì, dove l’ha comprata mio padre, non credo la Seine deciderà di portarsela via, ci tornerò quando ne avrò voglia.» soffiò fuori con un mezzo sorriso, intanto che Antonio tornava a sorridere.
Gli passò nuovamente una mano tra i riccioli scuri, mentre la piccola casa che apparteneva alla famiglia Carriedo tornava a far capolino tra le catapecchie con i suoi fiori gialli e il catino abbandonato sul balcone.
«Rimpiangi solo quello che non puoi più avere mon ami, al resto si può sempre rimediare…» mormorò con una vena di tristezza ad incrinargli la voce.
Antonio lasciò che la mano del parigino scivolasse via dai capelli e ricadesse lungo i pantaloni sporchi per il viaggio in carro, quando furono innanzi a casa e poté finalmente poggiare la cassa di verdura un sorriso fraterno gli scaldò il viso spingendolo a poggiare un braccio attorno alle spalle dell’altro. Francis lo osservò per qualche istante ricambiando il mezzo abbraccio, non si accorse neanche di star sorridendo e di quanto quello spagnolo sapesse essere contagioso.
«È quello l’uomo di cui parlavi?» chiese al francese, fissando il balconcino da cui s’intravedeva la cucina.
«Oncle? Oui... » annuì, mentre una strana consapevolezza lo coglieva.
Da quando aveva incontrato gli occhi dello spagnolo, aveva avuto l’inusuale sensazione di conoscerlo da sempre. Quei tratti assurdamente maturi in cui si riusciva a leggere ben poco di un’infanzia di vezzi e lussi, gli erano parsi quelli conosciuti di un familiare che non si vede da troppo tempo, ma che si riconosce anche fra una folla festante nonostante non ci si ricordi il tono della voce. Aveva trovato incredibilmente naturale parlargli e persino aiutarlo a sistemare i peperoni sporchi di terra all’interno della cassa con cui li avrebbe trasportati in casa. Avevano chiacchierato senza pretese o preamboli come mai tra sconosciuti si sarebbe fatto. Si era ritrovati in un calle polveroso come due fratelli divisi dalla nascita che vagavano l’uno accanto all’altro, diretti verso un futuro di cui conoscevano ben poco.
Francis non era ancora molto certo del perché certi eventi capitassero, la maggior parte delle volte attribuiva i meriti a Dio, eppure, mentre gli occhi del vecchio Cesare scivolavano sul cancello a osservare lui e Antonio, pensò seriamente che quell’uomo avesse la medesima capacità dello spagnolo di farsi voler bene.


Fuentes de Ebro, 23 agosto 1912.




«Ti somiglia…» sussurrò piano, poggiandosi al suo braccio.
Cesare preferì non voltarsi, continuando a fissare i sue due ragazzi che ridevano a squarciagola nel bel mezzo della strada tra le raccomandazioni e i rimproveri in parte tali di Ferdinando, intento a dare indicazioni al vecchio Àlvaro.
«… ma non è mio figlio.» precisò con un velo di divertimento.
Isabel non mancò di tirargli per l’ennesima volta durante quel breve soggiorno una ciocca scura in segno di biasimo.
«Non lo è, ma trattalo come se lo fosse.» il tono s’incrinò appena e l’italiano si limitò a stringerle la mano poggiata al proprio braccio.
Antonio Fernandez Carriedo non portava il suo cognome, non era suo figlio e neanche un lontano parente, ma Cesare avrebbe mantenuto gli occhi puntati su quel ragazzo come se quei dettagli non esistessero. Lo avrebbe portato in America, gli avrebbe dato l’opportunità di una vita migliore, lo avrebbe custodito come carne della sua carne osservandolo da lontano e avrebbe gioito del vederlo passare per la strada su cui lui si era accasciato senza il peso della sofferenza a gravare sulle spalle. Antonio avrebbe recitato inconsapevole la propria parte e avrebbe avuto ciò che gli spettava esattamente come gli altri.
«È l’ultima volta che ci vedremo, vero?» una mano rovinata dal tempo si poggiò sulla sua guancia.
La malinconia del passato e la speranza nel futuro parvero liquefarsi lungo la gola, annegando nei polmoni improvvisamente aridi, infiacchendo le membra con i pesi delle colpe.
Quella era l’ultima volta in cui i suoi occhi si sarebbero posati sul viso di Isabel, l’ultima volta che avrebbe sentito le sue dita accarezzare le braccia o tirargli infantili un ricciolo ribelle. Non l’avrebbe mai più rivista o abbracciata se non forse nei propri ricordi, nei sogni ardenti di silenzio in cui trascorreva le notti pensando allo spettacolo grottesco della propria esistenza. Le loro strade si sarebbero divise inevitabilmente, Isabel gli avrebbe voltato le spalle e avrebbe ripercorso il proprio cammino rifugiandosi in una catapecchia arroventata più accogliente di quanto non fossero le sue ville, avrebbe continuato a stendere i panni bianchi, mentre la carne di Cesare cedeva allo scorrere del tempo, avrebbe osservato il suo spettacolo dal balconcino di quella strada polverosa felice del vederlo un po’ meno solo.
Quella era l’ultima volta in cui i suoi occhi si sarebbero posati sul viso della sua Isabel, ma da quel momento in avanti avrebbe avuto una sua parte a scaldare le strade grigie e uggiose di Chicago.
«Ricordagli quale treno prendere e dove imbarcarsi, io farò in modo che incontri Francis quando arriverà in America.» indicò, fingendo un’indifferenza che non gli apparteneva.
«Mi mancherete... » mormorò, mentre le sue labbra posavano un bacio sulla barba accennata.
Percepì la sua mano allontanarsi dal fianco poco prima che Isabel agguantasse Ferdinando. Li superò con passo greve, dirigendosi verso il carro su cui il biondo si era già accomodato tra le risate del giovane spagnolo. Si concesse il lusso di scompigliargli i capelli in modo affettuoso oltrepassandolo, prima di salutare nuovamente Àlvaro con la sua Ana Maria e sedersi accanto a Francis. Lanciò un’occhiata affettuosa alla figura di Antonio che lenta e inesorabile si allontanava da loro sorridendo, mentre il carro riprendeva il proprio viaggio verso Zaragoza.
«Francis copriti bene quando sarete lì, mettiti la sciarpa! E tu Cesare, vedi di non bere troppo e di non comportarti come un ragazzino!» la voce di Isabel gli scaldò il cuore quel tanto che bastava per aiutarlo.
La stanchezza era divenuta un elemento imprescindibile di quella che avrebbe dovuto essere la sua vita, ma adesso, mentre le sterpaglie tornavano a riempire il sentiero polveroso di Fuentes de Ebro, mentre Francis cominciava a lamentarsi per i propri pantaloni lavati di fresco, non poteva che sorridere libero da un’altra colpa.




«¡Ah de la vida! ¿Nadie me responde?
Aquì de los antaños, que he vivido:
La fortuna mis tiempos ha mordido,
Las horas mi locura las esconde.

¡Que sin poder saber cómo ni adónde
La salud y la edad se hayan huìdo!
Falta la vida, asiste lo vivido,
Y no hay calamidad que no me ronde.

Ayer se fué, Mañana no ha llegado,
Hoy se está yendo sin parar un punto;
Soy un fué y un será y un es cansado.

En el Hoy y Mañana y Ayer junto
Pañales y mortaja, y he quedado
Presentes sucesiones de difunto.»

– Quevedo –








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Note dell’autrice:
Avrei un bel po’ di cose da dover spiegare, ma chiarire quei punti implicherebbe anche svelare parte del finale della serie originale e non credo di poterlo fare ancora. Spero comunque che il necessario sul passato di Antonio si sia inteso o comunque abbozzato con questo piccolo spin-off. In futuro mi toccherà anche quello di Francis e di qualche altro personaggio, ma al momento sono arenata nell’intolleranza verso questa epopea e non credo di farcela proprio con altri spin-off. Chissà, magari fra due giorni avrò cambiato idea, ma tanto poco importa… comunque! Vado con le traduzione che mi toccano sempre *-*

-“Mon chouchou”: Mio amore/prediletto e qualsivoglia vezzeggiativo, ha un significato piuttosto ampio.
-“Oncle? Oui…”: Lo zio? Sì…
- Sonetto spagnolo di Quevedo: “Ehi, della vita! Nessuno mi risponde? / Qui tutti gli anni passati che ho vissuto! / La fortuna ha addentato il mio tempo; / le ore le nasconde la mia pazzia. // Che io non possa sapere come né dove la salute e l’età siano fuggite! // Manca la vita, rimane il vissuto, / e non c’è calamità che non mi circondi. // Ieri fu, Domani non è giunto; / Oggi se ne sta andando senza fermarsi un istante; / son un fu e un sarà, e un è stanco. // Nell’Oggi e Domani e Ieri congiungo, / pannolini e sudario, e son rimasto / eredità presente di defunto”.




  
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