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Autore: jehan du moulin    12/03/2008    15 recensioni
Daniel non ha mai amato nessuno fuorchè se stesso e, sicuramente, "pecca" di lussuria. Tom è il suo migliore amico. Quali danni può provocare una bottiglia di birra in più? Forse un po' troppo grandi.
Too Much Love Will Kill In The End.
Genere: Romantico, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Daniel Radcliffe, Tom Felton
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Piccolissima dedica:
A Kelly Kee, naturalmente.
E, sopratutto, al vero Jehan,
che continua ad aiutarmi.
(e che non può credere
che questo accaunt

sia ancora in piedi).

Con una bic profumata da attrice bruciata
La Guerra E’ Finita”
Scrisse Così.

{.La Guerra E’ Finita – Baustelle.}

Si mosse velocemente, da una parte all’altra, rigido come fosse stato di ghiaccio, saettando lo sguardo da un capo all’altro della sala, così maestosamente imbandita da sembrar quasi uno spettacolo di balletto.

Se ne stava fermo, immobile, di fianco a quella grande pianta verdacea (rigorosamente vera) con la mancina abbandonata nella tasca dei pantaloni dello smoking e la destra a reggere un bicchiere colmo a metà di champagne.

I capelli neri erano stati sistemati con cura, estrema cura, si potrebbe osar dire, ma forse sarebbe troppo azzardato.

Gli occhi , di un delizioso ceruleo, erano stati ricoperti da uno strato di passiva noia che non sembrava volersene andare a nessuno inutile tentativo della incantevole Baronessa, che, con le sue due damigelle, non faceva altro che trovare scuse per stargli intorno, sotto il sorriso divertito di un’incantevole Bonnie, all’altro capo della sala, piacevolmente intrattenuta da una conversazione sul Disboscamento Globale e del Mercato Cinese in continuo avanzamento.

Ogni tanto gli lanciava uno sguardo, giusto per assicurarsi che si stesse annoiando abbastanza per i suoi gusti.

Bhè, ci stava riuscendo. Alla perfezione.

Un’altra stupida serata di beneficenza. Daniel odiava profondamente le serate di beneficenza.

Così pompose, piene di gente ricca a cui non importava assolutamente niente della causa, ma semplicemente di farsi fotografare in quella situazione dai giornalisti giusti.

Spesso si chiedeva se, in realtà, i soldi che gli toccava di sborsare ogni volta per un bambino sfruttato diverso (“Ma sono sempre i bambini sfruttati?” “Daniel!” “Ho capito, ma cambiassero una volta ogni tanto! A momenti prendono più loro di me” “Insensibile”), non fossero ben impiegati nell’organizzazione di quelle cerimonie al limite della sopportazione.


“Oh Daniel” la voce cristallina di una ragazza alta poco più di lui lo raggiunse alle spalle, facendolo voltare quasi sopreso che qualcuno potesse ancora scambiarlo per un’essere umano, invece che come parte del mobilio.

“Clèmence” si ritrovò a rispondere quasi d’istinto verso la biondina, ben avvolta in un abito color avorio, con due sottili spalline e un’ampia scollatura sulla schiena. Gli anni non l’avevano cambiata di una virgola, sempre meravigliosamente bellissima.

“Che piascere riverdorti” l’uomo era perfettamente cosciente che quell’accento fosse, in realtà, uno stupido modo di sembrare più adorabile di quanto già non fosse, ma la cosa le risultava talmente bene che nessuno si sarebbe mai sognato di chiederle di smetterla.

“Immenso piacere, sì – sforzò un goffo sorriso – Quanti anni sono passati dall’ultima volta…?” non aveva tenuto il conto.

“Diesci, quasi undisci” giocherellò con il bordo del bicchiere di cristallo che teneva in mano, portandolo, poi alle labbra rosee.

“Una vita – riflettè, abbassando gli occhi sulle scarpe – E come stai?”

“Oh benissimo. Mi sono sposata” accennò un timido sorriso e un cenno del capo in direzione di un affascinante uomo sulla quaratina che contemplava con aria assorta il tavolo del buffet.

Già. Proprio il genere di uomo che Clemence avrebbe potuto prediligere. Bello e stupido.

“Quando? – domandò senza intenzione – Oh, le mie congratulazioni” si affrettò ad aggiungere poi.

“Grasie – sembrava quasi in imbarazzo da quella conversazione così lontana dai tempi in cui pranzavano allo stesso tavolo, o da quando tutto sembrava più facile. Probabilmente c’era anche lei al matrimonio di Emma “E tu? Cosa mi dsci?”

“Mi sono sposato anch’io – ignorò l’espressione sorpresa sul suo viso ben delineato – Con Bonnie” accennò alla donna, al di là della sala.

Sgranò nuovamente i grandi occhi azzurri, posandoli prima su di lei, poi su Daniel.

“Oh – pareva confusa, balbettò qualcosa di incomprensibile, cambiando poi, bruscamente discorso – Hai saputo di Tom ed Emma?”

Tasto dolente.

“No – smorfia – Che hanno fatto?” il tono gelido e improvvisamente tagliente.

“Un’incidente”

Il rumore sottile e delicato di un bicchiere che cade, infrangendosi sul pavimento, la mano ancora ferma a mezzaria, gli occhi appena sgranati, la bocca dischiusa, le gote pallide e lo champagne, inbeveuto, che, lentamente, prende possesso del pavimento che gli sta intorno, muovendosi, allargandosi, ignorato da colui che lo teneva stretto.

Una ragazza dai capelli rossi e l’abito azzurro che si avvicina, parla, sembra preoccupata, si rivolge alla bionda, ma lui non sente.

Il tempo si è fermato a quella parola.

Quattro sillabe. Possono uccidere quattro sillabe? Quattro singole sillabe, leggere, come il vento.

Una parola come un’altra, che fino al giorno prima avresti usato in mille altri contesti.

“E… - la gola riarsa - …come stanno?”

Silenzio intorno a lui.
Bonnie si volta lentamente, perplessa. Clemence non crede alle sue orecchie.
Com’è possibile che non abbia saputo?

“Sono in coma, Daniel… ma davvero non lo sapevi?”

+

“Daniel, ti prego rallenta” voce ferma quella della donna al suo fianco, in quella stretta automobile.

I vestiti stropicciati, i figli in casa, e una notte troppo lunga.

“Daniel…” sembrava spazientita, eppure troppo debole per potersi permettere una litigata.

“DANIEL”

Sfrecciava e basta, nella campagna, attraverso le vie strette che conducevano a quasi duecento chilometri da lì.

Nel più perfetto nulla.

Nell’assoluto nulla.

Saint Patrick’s Hospital.

Sembra quasi una presa per il culo.

E come li curano lì i malati, eh? Coi folletti?

Eppure lei taceva. Se ne stava al suo fianco e lo osservava. Lo osservava urlare, forse anche piangere.

Lo guardava prendersela con quel povero camionista, che sicuramente, avrebbe dato qualsiasi cosa per non essere lì, a quell’ora del mattino, ma c’era, ed era una colpa sufficiente per essere preso a clacson e male parole.

Il tempo sembrava interminabile.

Scorreva lento, mentre la domanda lo assillava senza sosta.

Perché? Perché non gliel’hanno detto? Come ha fatto a non saperlo?

“Sono in coma da quasi una settimana. Incidente in autostrada. Stavano tornando da un viaggio. Sai, Emma ha scoperto di non poter avere figli e Tom voleva consolarla. Ma come potevi non sapere niente? Oh, bhè, comunque, stavano viaggiando a velocità piuttosto ragionevole, entro i limiti comunque. Certo l’orario non era dei migliori. Forse le quattro, intorno a quell’ora lì, comunque. C’era la nebbia ed era domenica, o meglio, lunedì mattina. Dio, sai come sono odiosi gli automobilisti di lunedì mattina? Intrattabili! Mettici poi una coda di quasi otto chilometri, una scorciatoia troppo stretta e un camionista che aveva bevuto troppo in Osteria. Trauma cranico, due costole rotte lei, quattro lui. Una gamba fratturata, e lesioni interne. Qualcosa mi dice che non ti interessa sapere di Emma” la conversazione non era andata avanti.

Si era limitato ad afferrare il polso di Bonnie, prendere chiavi e giacca dal guardaroba.

Aveva chiamato la Baby Sitter chiedendole di rimanere ancora ed era finita lì.

Su quei sedili in pelle rilegata, con la pioggia battente, per vie secondarie.

“Tu lo ami, non è vero?”

La voce atona della donna lo aveva sopreso, forse più del dovuto. Tanto che smise per un secondo di guardare la strada e di inveire, come se la voce gli si fosse improvvisamente affievolita.

“Come?”

“Andiamo Daniel, non prendermi per il culo…” non pareva arabbiata. Aveva quello sguardo da ‘tanto – lo – so – se – dici – una – cazzata’ e non se la sentiva di smetire.

Non rispose. Guardò semplicemente avanti, schiacciando l’accelleratore.

“Cosa pensi di fare arrivato lì?” domandò ancora.

“Non lo so”

“Non ti sentirà”

“Lo so”

“Daniel è in coma”

“Lo so”

“Daniel…”

“LO SO”

“…guida piano” sussurrò solo, lasciando divagare lo sguardo oltre le colline.

+

Il sole sorgeva lentamente, innondando e pitturando qualsiasi cosa incontrasse, tingendola di un morbido chiarore di metà primavera.

Bonnie, al suo fianco, aveva lasciato ricadere la testa di fianco, mollemente, e ora respirava piano, assopita.

Erano passati così tanti anni che il dubbio singolare che Tom fosse cambiato, che non fosse più quel ragazzino biondo dallo sguardo arrogante e presuntuoso lo assalì come una forte paura.

Lo aveva pensato, di tanto in tanto, chiedendosi se, seriamente, le cose sarebbero andate come le aveva preannunciate.

Purtroppo sì.

Thomas e Emma Felton si erano trasferiti con l’inizio di Ottobre, lasciandosi alle spalle la vita che avevano avuto fino a quel momento. Avevano ignorato gli amici che gli chiedevano di restare, e, ricordava con particolare chiarezza le parole di Rupert, nel descrivere la decisione del biondino nel voler partire immediatamente.

Aveva taciuto in quel momento, guardandosi con un certo imbarazzo la punta delle scarpe, come se fossero la cosa più interessante del mondo.

E ora era lì, su una macchina nera, che sfrecciava attraverso una campagna deserta, alle prime luci dell’alba, chiedendosi sinceramente cosa avrebbe fatto una volta arrivato lì.

Cosa avrebbe detto, come avrebbe reagito.

Non lo sapeva. Non se lo sapeva chiedere. Non voleva domandarselo.

Continuò a guardare davanti a sé, cercando di pensare ad altro, sebbene la cosa gli risultasse alquanto difficile.

+

Giunsero al Saint Patrick’s Hospital intorno alle dieci di mattina. Il parcheggio perfetto, i vestiti stroppicciati e le occhiaie ben in evidenza sulla carnagione chiara del uomo. Bonnie, al suo fianco, posava i piedi sull’asfalto, ancora insonnolita, apparentemente confusa sul perché si trovassero lì.

Daniel non si dilungò in alcuna spiegazione, trascinando soltanto la moglie verso l’entrata, tenendola ben stretta, ignorando gli sguardi ammirati dei pazienti, rispondendo con una certà acidità alle richieste di autografo.

Sembrava che esistessero solo loro. O solo lui.


Bonnie era davvero dubbiosa sul fatto che suo marito, in quel momento, potesse anche soltanto prenderla in considerazione, qualsiasi cosa avesse detto.

Qualsiasi.

“Sono incita” non seppe mai perché disse quelle parole.

Seppe solo che Daniel si fermò.

Si fermò in mezzo a quella sala, girandosi verso di lei con la bocca semi dischiusa e gli occhi pieni di qualcosa di molto simile al panico.

Non perché quella che era sua moglie avrebbe, di lì a poco, partorito il terzo figlio, ma perché qualcosa gli diceva che quel figlio non avrebbe avuto né i capelli neri né gli occhi azzurri.

Qualcosa gli diceva che questa volta sarebbe stato diverso.

“Ah”


Disse soltanto, con freddezza distaccata.

“Ah?” ripeté lei, sbattendo un paio di volte le palpebre.

“Cosa dovrei dirti, Bon?” il nervosismo tradiva la voce più del dovuto. Gli occhi erano bassi.

Prima Tom. Poi lei.

Quanto avrebbe retto ancora?

“Potresti chiedermi se è tuo” il gelo era sceso fra loro, e la mano che ancora le teneva sembrava solo una formalità di circostanza.

“So già la risposta” boffonchiò, voltando la testa verso la porta, a pochi metri da loro, dietro alla quale, probabilmente, stava Tom, o comunque lo avvicinava a lui.

“Davvero?” la sorpresa aveva preso il posto nel timbro vocale della ragazza.

Scrollò le spalle.

“Ne parliamo dopo” sbuffò, riprendendo a camminare.

“Dio Daniel non ti sopporto” lasciò la sua mano, restando ferma nel luogo in cui era poco prima.

“Cosa?” si voltò nuovamente, verso di lei questa volta.

“Non te ne frega niente, è questo il punto – esasperata alzò le braccia, per farle ricadere lungo i fianchi, incurante delle persone intorno a loro – C’è sempre lui prima di me. Sempre. E’ sempre stato così e mi chiedo se sarà così per sempre”

Si avvicinò a sua moglie, sibilante.

“Cosa devo dirti Bon? Cosa? Ti prego resta con me ti amo? Sarebbero balle, lo sai perfettamente. Sai perché siamo arrivati a questo punto. Sai che non c’è amore fra di noi. Lo hai sempre saputo e io non ti ho costretta a stare con una persona che non ti ama e che tu non ami. Però l’hai fatto” vicino al suo viso, le parole erano troppo basse per poter essere udite da altri, eppure a lei parvero fin troppo forti.

“Perché io ti amo – urlò con quanto fiato aveva in gola. Fu la sua volta quella di voltarsi verso la parte opposta – Ti aspetto in macchina” aggiunse soltanto, camminando più velocemente che poteva, nascondendo poche lacrime che le fasciavano ora il viso.

Forse avrebbe dovuto rincorrerla.

Forse avrebbe dovuto dirle che anche lui l’amava.

Fatto sta che non lo fece. Si limitò a sospirare, osservare la porta verdacea che si richiudeva e darle le spalle, camminando verso quella che lo avrebbe condotto da Tom.

Si proiettò per un secondo sul set, dieci anni prima.
Si chiese cosa sarebbe successo se Emma non ci fosse stata. Se le cose fossero andate in modo diverso.

Se Tom fosse rimasto fino alla fine quella notte e se, per caso, non avesse rinnegato tutto. Si domandò cosa sarebbe accaduto se durante il matrimonio avesse mandato a puttane tutto, o se durante il funerale avesse riso di lui.

Tutte cose che non erano successe.

Non evitò un sorriso nel pensare a come tutto era nato da una semplice scopata.

Niente di più idiota.

Con rapidi passi si avvicinò alla stanza indicata dal dottore, esitando, poi, a sorpassarne la porta.

Sembrava bloccato da qualcosa di nuovo, da qualcosa di diverso che non riusciva a capire.

Risultava tutto così assurdo in quel momento, in quel contesto. Puzzava e indossava uno smoking stropicciato. Eppure gli sembrava giusto. Non aveva portato nemmeno dei fiori.
Poco male.

Lo vide poco lontano dalla finestra.

Bello come lo ricordava con la carnagione nivea, le gote pallide e i capelli sparsi sul cuscino.

La fronte imperlata di un debole sudore e le braccia ai lati del corpo, in posa innaturale.

Gli occhi celati dalle palpebre richiuse.

Emma non la guardò nemmeno.

Si avvicinò lentamente, rendendosi conto, ad ogni passo, di quanto gli costasse muoversi verso di lui.

Di quanto gli sembrasse paradossale. Lui che l’aveva cacciato. Lui che gli aveva ordinato di andarsene.

Qualche lettino più in là un altro medico lo osservava.

Attese qualche secondo, prima di avvicinarsi a lui, senza guardarlo.

“Il Signor Felton è in bilico” spiegò senza che Daniel avesse domandato nulla.

“Bilico?” ripetè, guardandolo.

“Sta lottando da quando è arrivato. A volte sembra migliori, a volte peggiora di colpo” doveva essersi preso a cuore la questione e sembrava distrutto da quel paziente così complesso.

“Guarirà?” la voce gli morì in gola, mentre, ancora una volta lo guardava.

Che domanda sciocca, eppure, gli sembrava sensata.

“Non possiamo dirlo” scrollò le spalle l’uomo. Pareva provato da molte notti insonni.

Non disse altro. Si appoggiò con entrambe le mani alla sbarra di ferro del lettino, sospingendosi appena in avanti.

“Può lasciarci soli?” chiese gentilmente.

Annuì il dottore, uscendo rapidamente dalla stanza.

Sedette su una sedia lì vicino, stancamente, come se fosse molto più vecchio di quanto in realtà non sembrasse.

“Non sono mai stato bravo coi discorsi – iniziò – Non sono mai stato bravo in niente. Tu eri quello bravo. Quello che tutti amavano perché era sempre buono e giusto. Io ero quello arrogante, ti ricordi? Dicevi che a volte era più adulto il fratello di Rupert, un bambino di nove anni. Ormai avrà l’età che avevamo noi allora – sorrise debolmente, abbassando lo sguardo – Ma parlare, parlare era la mia pecca più grande. Ricordi le rassegne stampa? Sembravo sempre un’idiota. La coppia perfetta, ci definivano. Già. Tu eri l’angelo perfetto. Io piacevo per il mio ‘essere ribelle’… da cosa nessuno l’hai mai capito. E poi è successo. Non è un classico? Due amici che si innamorano? No. Di solito le cose sono diverse, no? C’è un lui e una lei. Io ero troppo idiota per essere l’uomo e troppo stupido per essere la donna – si sistemò un po’ meglio sulla sedia – Che hai fatto? – si ritrovò a domandare – Come è successo? Dov’eravate andati? – sospirò appena – Sei un’idiota – gli occhi bruciavano di lacrime annidate negli angoli, pronte a scaturire – Ho sempre pensato che prima o poi saresti tornato. Che non avresti preso sul serio quello che ti dicevo. Che…” non parlò più.

Rimase solo al suo fianco, prendendogli delicatamente la mano nella sua, accarezzandola appena.

Come poteva rinunciarvi? Come poteva anche solo credere che non lo avrebbe visto più?

+

Mi piacerebbe dire che dopo quel discorso Tom si risvegliò magicamente.

Non successe. Rimase fermo, come poco prima, non si mosse nemmeno di poco.

Tutto, effettivamente, rimase uguale a prima, eccezzion fatta per Bonnie che, stanca di aspettare, mise in moto quella macchina, puntandola chissà dove, lasciando Daniel a piedi, lontano da lei.

Nessun addio straziante. Perché avrebbero dovuto?

Dal canto suo il moro si augurava soltanto che la rossa trovasse la felicità, prima o poi.

Non seppe mai se effettivamente la ragazza la trovò oppure no.

+

L’orologio segnava le otto e un quarto di sera, precise e Daniel era appena tornato dall’Ospedale.

Sedeva su quel letto matrimoniale di quel Motel poco fuori, a cento metri dalla stanza di Tom, vicino alla stazione, con un bagno per piano e la colazione dalle sette alle nove.

Lo odiava abbastanza, effettivamente, ma non ci faceva troppo caso.

La sua vita era stata sconvolta nell’arco di due giorni e nemmeno se n’era accorto.

Pensare aveva pensato anche troppo nel tragitto per arrivare in quel paesino sperduto e ora aspettava, privo di qualsiasi pensiero a cui aggrapparsi se ne stava sdraiato, con le mani dietro la nuca.

Aveva già chiamato il Dottore che aveva in cura Tom dandogli il numero del Motel e quello della stanza per assicurarsi che se ci fossero state novità lo avrebbe saputo immediatamente (“a qualsiasi ora Dottore, non si faccia scrupoli, la prego” “eravate molto amici?” “no, non troppo” “è straordinario il vostro attaccamento” “abbiamo un conto in sospeso, diciamo”).

Chiamò tre volte sua madre e cinque Stephanie, per assicurarsi che il telefono non fosse rotto (“Daniel ha più di trentanni, smettila di giocare con il telefono” aveva detto spazientita la Manager alla quinta volta), ma restava muto quando si trattava di comunicargli la salute di Tom.

Troppo muto per i suoi gusti.

Decise, dopo circa due ore, che torturarsi in quel modo non era sano, e optò per uno dei vecchi rimedi della nonna di quando ancora era sulla cresta dell’onda del successo, imboccando la porta e lasciandosi avvolgere dalla notte, lasciando sul letto il cellulare e qualsiasi cosa avesse potuto rintracciarlo, deciso a non pensare a nulla per un po’, senza continuare a chiedesi per quale assurdo motivo nessuno lo chiamasse.

La notte era come l’aveva immaginata.

Calda e dolce come il succo del miele. Lo aveva accolto nelle sue braccia con tenerezza materna, avvolgendo i suoi pensieri in una specie di cotone, ovattandoli e lasciando vagare la mente nei ricordi di quando era troppo giovane perché il dolore avesse già fatto parte della sua vita.

Si muoveva lentamente, con la testa reclinata in avanti e le mani nelle tasche chiedendosi perché.
Perché fosse successo a lui e quanto era grande la sua idiozia da uno a dieci.

Undici, probabilmente.

Sbuffò, facendo dietro – front e riavviandosi al Motel, sicuro di essere costretto ad una notte senza sogni, e piuttosto agitata.

Rinunciò persino a chiedere a Calvin, il ragazzo nella pseudo – Hall del luogo se qualcuno avesse chiamato.

Fu allora che, Daniel fu certo, un infarto attraversò il suo corpo.

“Oh Signor Radcliffe è tornato finalmente – lo accolse con voce allegra il ragazzo, al quale rispose con un debole cenno del capo – Ha chiamato il Dottor Harrison dal Saint Patrick. Ha detto di richiamarlo con urgenza appena aveva un attimo”

Bloccato.

Se esisteva un Dio di certo ora gli doveva tutto.

Un Dio che, in quel momento, aveva le sembianze goffe di un ragazzotto sui venticinque anni, dietro un bancone, che sorrideva gaiamente, assolutamente inconsapevole di ciò che aveva appena detto.

“Ha lasciato un numero?” balbettò avvicinandosi.

“Certamente – aggiunse in tono vivace, chianandosi a cercarlo – Eccolo!” riemerse dopo pochi secondi, porgendo un foglietto di carta gialla all’attore.

“Gr…grazie” farfugliò, afferrando il telefono a disposizione dei clienti, componendo velocemente i numeri bianchi consumati dal tempo e attendendo una risposta.

“Pronto?”

“Dottor Harrison? Sono Daniel Radcliffe”

“Signor Radcliffe! Aspettavo proprio una sua chiamata”

“Lo so. Mi dica. Novità?”

“Assolutamente sì! Non so cosa lei abbia fatto, Daniel, ma poco dopo che se n’è andato il paziente ha iniziato ad animarsi, i valori sono cambiati rapidamente. Ricorda? Le avevo detto che non era stabile!”

“Sì, ricordo. Ma quindi? Non si è svegliato?”

“Svegliato? Signor Radcliffe abbiamo dovuto legarlo per tenerlo fermo al letto quando gli abbiamo detto che lei è venuto a trovarlo. In vita mia mai ho visto una ripresa del genere! Quando vuole venire noi la aspettiamo”

“Arrivo”

Non fu sicuro che il medico avesse udito le sue parole, troppo deboli per poter esser, effettivamente, sentite.

Attaccò fuoriosamente la cornetta, rivolgendo a Calvin il sorriso più bello che il ragazzotto avesse mai visto.

“Dì a chiunque mi chiami che se ne può andare al diavolo”


E detto questo uscì.

+

“Daniel” la voce spenta del biondo, seduto come poteva su quel letto, mentre tentava di chinarsi in avanti parve, al moro, la cosa più bella che avesse mai udito.

“Tom” boccheggiò avvicinandosi così rapidamente all’amico che parve quasi volare.

“Bene – sorrise il Dottor Harrison – Vi lascio. Credo che il nostro paziente ora sia in ottime mani. Vieni Linda” fece un cenno all’infermiera bionda che gli stava accanto, sbalordita dell’affluenza di star in quella stanza, ma non fiatò, seguendo l’uomo.

Attese che la porta si richiudesse alle loro spalle, prima di muoversi ancora verso di lui.

“Sei venuto” proferì con un bieco sorriso.

Non disse altro.

Le labbra di Daniel andarono a coprire quelle di Tom così velocemente che quasi non si rese conto dei movimenti che il moro compiva nei suoi confronti.
La mano volava leggera alla nuca del ragazzo, l’altra alla vita.

Quanto tempo era passato dall’ultima volta che era successo.
Dall’ultima volta che Daniel aveva baciato Tom.
Forse quell’unica sera, tanto e tanto tempo prima, quando le cose non erano ancora così complesse.

Quando ancora erano dei ragazzini.

Quando Daniel voleva solo una scopata e Tom, infondo al cuore, lo amava.

“Mi ami?” sussurrò il biondo, non appena l’ossigeno fra di loro cominciò a scarseggiare.

Ti amo.

“No” un sottil ghigno si delineò sulle labbra ben dipinte di Daniel.

“No?” pareva perplesso.

“No, Thomas Felton. Non ti amo. Ti amo è per i film. Ti amo è per Emma, per Bonnie. Io non ti amo” aggiunse con quel tono di voce che lo riportava indietro nel tempo.

“Quindi non mi ami?” sorrise divertito.

“Sì. Non ti amo”

“Originale”

Si chinò nuovamente, rapendo un altro bacio a quelle labbra così meravigliosamente rosee.

“E tu?”

“Io cosa?”

“Mi ami?”

Ti amo.

“No”

“E allora come la mettiamo?”

“Ah, non lo so”

“Amici?”

“Che idiozia, Potter. Come possiamo essere amici se non riesci a staccarti dalle mie labbra?”

“Stupido biondino viziato e spocchioso”

“Io non ti amo e non voglio sposarti”

“Neppure io”

“Perfetto”

“Perfetto”

“Ti piace West Road?”

“Sì, certo, perché?”

“Perché stavo pensando che quando Bonnie se ne andrà con i bambini mi avanzerà dello spazio”

“E’ una proposta?”

“E’ una non proposta, biondino egocentrico”

“Ah, è tutto chiaro allora”

ROMEO: Allora non muoverti, intanto che io raccolgo il frutto della mia preghiera. Ecco, le tue labbra hanno purgato le mie del loro peccato. (La bacia)
GIULIETTA: Allora è rimasto sulle mie labbra il peccato che esse hanno tolto alle vostre.
ROMEO: Il peccato dalle mie labbra? O colpa dolcemente rimproverata!
R
endimi dunque il mio peccato.

+

Come mi piacerebbe dire che Emma non si risvegliò mai e rimase per sempre nel mondo dei sogni.
Ma sarebbe una bugia.
Emma si risvegliò una settimana e due giorni dopo, con grande dispiacere di Daniel, il quale si prese una giornalata in testa per la brutta uscita sulle vecchine porta – sfiga e su quanto fossero accoglienti i cimiteri al giorno d’oggi.

Una settimana, due giorni e quattro ore dopo, dopo essersi assicurato che stesse bene e non rischiasse di infarto (“Ma non c’è nemmeno una piccolissima percentuale di infarto?” “Daniel piantala”) Thomas Felton ed Emma Watson firmavano i documenti per il divorzio legale.

+

A Mia Figlia

Sophie,

Luce della mia vita, ti scrivo sul treno che parte per la Germania e ti scrivo della mia felicità.

Da quando tu, la mamma e Joseph siete partiti non so descrivervi quanto la mia vita si sia svuotata, eppure, in qualche modo, tesoro, devi pensare che è giusto così.

Perché lo è.

Io ti amo, bambina mia, come la prima volta che ti ho tenuta in braccio e sai che mai il mio amore potrebbe venire meno, in nessuna occasione, tuttavia, ti chiedo, tesoro mio, di aspettare.

Di pensare a tuo padre come a qualcosa che ti veglia in ogni momento, in ogni istante, da lontano.
Sono certo che tua madre sarà meravigliosa e che ve la caverete benissimo anche senza di me, là, in Inghilterra.

Ormai hai nove anni e inizi a farti grande e a capire.

Papà e mamma sono felici. Non insieme, ma lo sono. Non guardare male l’uomo che ogni giorno la abbraccia, sorridigli, perché, sono certo, non sta aspettando altro.

Vivi, bambina mia. Vivi e ama ogni giorno, come sai fare tu, pensando, ogni tanto, che ti vorrò sempre bene, ovunque io sarò e che, finchè non tornerò, potrai rivolgerti a quell’uomo per qualsasi cosa.

Non soffro, come magari pensi. Sono felice, tesoro, come non lo sono stato mai, o come non lo ero da tanto tempo e, non appena sarai un po’ più grande, avrai la possibilità reale di scegliere.

Per ora, principessina mia, resta vicina alla mamma che ne ha tanto bisogno, come avrò bisogno io dei tuoi abbracci non appena, a Settembre, potremmo vederci di nuovo.

Salutami Joseph e fagli gli auguri. Fra poco è il suo compleanno.
Scegligli un bel regalo anche da parte mia.

Un abbraccio.

Ti voglio bene.

Papà.

+ + +

Troppo amore lo avrebbe ucciso alla fine. Ne era certo.
Ma qualcosa gli diceva che quello era solo l'inizio.

+ + +

Non credevo, sinceramente, che sarei mai arrivato alla fine di questa storia.
Sono cresciuto, cambiato con questa storia che, ormai, è un piccolo pezzetto di me.
Eppure eccola la fine che aspettavo. Che ho scritto una decina di volte e continuavo a chiedermi come avrei potuto mettere il fatto dell'incedene e non renderlo artefatto. Non renderlo finto. Mi sento soddisfatto, sarò sincero. E' una fine che mi piace com'è venuta fuori e quindi, ora, passo ai ringraziamenti. Nessun nome. Chi ha orecchie per intendere...

Grazie a chi legge.
Grazie a chi legge e commenta.
Grazie a chi legge e non commenta.
Grazie a chi legge in anticipo e poi commenta.
Grazie a chi conosce le canzoni citate.
Grazie a chi non conosce le canzoni citate e se le va ad ascoltare.
Grazie a chi non ha mai letto.
Grazie a chi cerca una storia e ne legge un'altra.
Grazie a chi ama lo yaoi.
Grazie a chi odia lo yaoi.
Grazie a chi ha letto solo l'introduzione di questa storia.
Grazie a chi ha aspettato questa storia.
Grazie a chi legge e ride.
Grazie a chi legge e piange.
Grazie a chi, semplicemente, si emoziona.
Grazie a chi, in qualche modo, mi sostiene.
Grazie a Daniel, Tom, Emma e Bonnie (sopratutto a Devon), senza i quali, questa storia non sarebbe stata possibile.

Ma sopratutto, Grazie a Mio Padre, che quando ho iniziato il primo capito c'era, e ora che ho finito l'ultimo non c'è più.
Grazie mille, papà.

Grazie a tutti.
.Jehan.


  
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