A
radioactive con dolore e amore
«Hoping one day you’ll make a dream last
But dreams come slow and they go so fast
You see
her when you close your eyes
Maybe one day you’ll understand why
Everything
you touch surely dies»
Il fischio di una
spada e una lama macchiata, sporca di sangue:
il sangue di Liv.
La televisione cadde
in un tonfo sordo, un rumore che non riuscì a percepire con chiarezza.
Crollò accanto ai
suoi piedi, esattamente come quel corpo martoriato, lo stesso che con ansia
aspettava di poter riabbracciare e accarezzare.
Una voce lo chiamò
in preda al panico dalla cucina, la stessa che da tre giorni gli ripeteva che non poteva vivere sul divano, che
trascorrendo settantadue ore con
l’angoscia, dormendo poco e non lavandosi non avrebbe riportato a casa la sua
fidanzata.
Aveva ragione.
Imboccò la porta di
casa senza prestare attenzione a sua madre, uscì senza dire una parole, senza
darle la spiegazione che si poteva chiaramente leggere sul suo viso sconvolto,
incredulo. Liv era morta: no, non era
vero.
Corse verso il
torrente fuori città, dove le case in mattoni pesanti lasciavano il posto
all’erba e agli alberi, dove innumerevoli volte aveva passato il tempo con lei.
Sentiva un groppo attanagliargli la gola e stringergli il petto, facendogli
venire voglia di accasciarsi e urlare, di strapparsi qualsiasi cosa gli stesse
causando quel dolore così reale.
Non era vero: non lo
era per il semplice motivo che queste cose succedono agli altri e mai a te.
Inciampò in un
qualcosa d’indefinito, probabilmente nei suoi piedi, e crollò sulle ginocchia,
i palmi a stringere i ciuffi verdi, le unghie piantate nella terra.
Tutto quello che non
aveva detto e fatto lo investì con la forza di un treno in corsa, lo colpì
talmente forte da rubargli quel poco di fiato che gli restava, costringendolo
ad ansimare.
Non l’aveva baciata
abbastanza, non aveva avuto l’occasione per dimostrarle quanto l’amava, quanto
il suo mondo ruotasse soltanto in funzione di lei: di quelle labbra di carne e
quei capelli di grano. Sentì il peso del ciondolo di azzurrite che portava al
collo, lo vide ciondolare lentamente a metà strada fra il prato e il suo viso.
Lo guardò, e bastò questo a riportarlo indietro alla Mietitura, al giorno in cui quella collana passò dal petto di lei
al suo.
Si rese conto di
quanto il suo mondo fosse in pezzi, e del fatto che non aveva la forza di
provare a raccogliere quei frammenti di un futuro che non esisteva più.
Niente Liv.
Niente matrimonio.
Niente figli.
Niente. Non aveva più niente per cui valesse la pena
continuare a respirare.
Portò la mano al
petto, sopra il cuore, premendo con tutta la forza che aveva, cercando un modo
per attenuare quelle fitte lancinanti che gli toglievano il fiato, ma ogni
tentativo era vano.
Lo avevano
addestrato a sopportare il male fisico, poteva resistere con un pugnale
conficcato in una gamba, ma non era in grado di reggere il dolore di un cuore
spezzato.
Inspirò
profondamente sedendosi su una grossa pietra, la punta delle scarpe a mollo
nell’acqua gelida di quel ruscello, complice di quell’amore che più volte
avevano consumato all’ombra di quelle fronde. Ricordò i sussurri e i sospiri,
la sua bocca sfiorare quella pelle candida e liscia, come seta sotto le sue
dita ruvide, consumate da quel mestiere che stava ancora imparando a fare, lo
stesso che avrebbe dato sostentamento alla famiglia che volevano costruire
assieme.
Non aveva mai avuto
grandi aspettative, non aveva chiesto la luna e le stelle, solo di poter amare
ed essere amato fino alla fine dei suoi giorni, sperimentando che cosa
significasse diventare padre e poi nonno, per poi morire fra le braccia di
quella donna che dal primo istante aveva amato.
«Tu non lo sai cosa mi fai…»
soffiò piano su quel collo pallido, compiacendosi del brivido che scosse il
corpo sotto di lui. Liv non lo sapeva davvero che cosa era in grado di fargli
provare, che effetto avevano le sue mani e il suo profumo su di lui.
Il fiato caldo di lei gli accarezzò il padiglione
auricolare facendolo vibrare mentre le sue mani le accarezzavano le cosce color
madreperla, insinuandosi sotto la stoffa di quel vestitino rosa che le ricadeva
in maniera scomposta sulle braccia, scoprendole di poco i seni.
«Roel…» mormorarono quelle
labbra, prima che lui le impegnasse in un bacio.
Il rumore di passi
lo strappò dal quel caro e dolce ricordo.
«Lo sapevo che
saresti venuto qui».
Riconobbe la voce
del suo migliore amico Hoyt, ma non rispose, non si
degnò nemmeno di alzare lo sguardo, rimase semplicemente a fissare l’acqua di
quel rigagnolo che con il suo suono si premurava di raccontargli ogni singolo
momento passato lì, su quella riva, con Liv.
Il ragazzo, dal
canto suo, non sembrò prendersela per via della mancata replica alla sua
affermazione, si sedette semplicemente accanto a lui, conscio che un buon amico
non ha bisogno di parole, e che Roel in quel momento
necessitava solo del silenzio, di una spalla su cui poter piangere. Rimasero lì
per delle ore, seduti uno accanto all’altro, accompagnati dal canto del fiume e
degli uccelli, dal suono del vento fra i rami, e mentre quella melodia
rievocava vani pensieri nella mente del biondo, il sole si nascondeva
lentamente dietro le montagne, lasciando il suo posto alla luna e alla notte.
D’un tratto Hoyt si alzò senza preavviso «Andiamo a casa…»
disse tendendo una mano all’amico – il coprifuoco era già in vigore da qualche
ora, non era il caso di farsi trovare dai Pacificatori.
«Il pomeriggio prima
della Mietitura abbiamo fatto l’amore qui» pigolò Roel
degnandosi di comporre una frase di senso compiuto. Non riusciva a pensare a
niente che non fosse Liv, a qualcosa di diverso dalle sue iridi e dalle sue
mani che gli accarezzavano i capelli.
Il ragazzo dalla
carnagione scura lo guardò scuotendo appena il capo. Lo avrebbe definito patetico, perché in effetti lo era, ma
chiunque al suo posto sarebbe stato in quello stato, se non addirittura in condizioni
peggiori. «Roel, per favore» mormorò chinandosi sulle
ginocchia, e in quel momento un’idea gli balenò in testa, illustrandogli che
cosa in realtà l’amico avesse in mente.
«Adesso capisco…» sbottò prendendogli il mento, costringendolo a
ricambiare il suo sguardo «Tu vuoi che ti frustino, non è così? Pensi che il
dolore fisico possa cancellare quello che senti, vero?».
«Vai a casa, Hoyt» gli rispose in tono piatto, come un automa, tornando
a posare lo sguardo smeraldo sull’acqua che, imperterrita, continuava a scorre.
Era così che Hoyt avrebbe voluto che facesse, come quel dannato fiume
che proseguiva il suo corso nonostante le rocce. Si era aspettato di vederlo
piangere e urlare – avrebbe effettivamente preferito che si disperasse – ma
niente, su quel viso scavato non c’era una briciola di dolore, solo una
snervante apatia che gli faceva venire voglia di prenderlo a pugni.
«Lei non avrebbe
voluto vederti così».
Eccola: la frase che
non avrebbe voluto sentire.
Che cosa ne sapevano
gli altri di cosa avrebbe voluto?
Si alzò di scatto
spingendo il ragazzo con la schiena a terra, premendogli poi un gomito sulla
gola «Che cosa vuoi saperne tu?»
sbraitò retorico, facendo pressione con il braccio sulla gola dell’amico «Tu
non lo sai cosa si prova!»
Non lo sapeva
davvero. Nessuno lo sapeva, nessuno… tranne i
genitori di Liv.
Allentò la presa con
lo sguardo perso: si era dimenticato dei Nerys, troppo preso
dall’autocommiserazione per domandarsi come stessero loro, quel padre e quella
madre che avevano perso una figlia, la loro unica
figlia.
Hoyt ne approfittò per
liberarsi e lo spinse via, facendolo rotolare accanto a lui sull’erba «No, non
lo so cosa si prova» mormorò alzandosi «ma sono comunque qui per impedirti di
fare stronzate, quindi alza quel culo, Flos» aggiunse
sollevando di peso il compagno d’infanzia.
Poggiò la mano sul
pomello della porta, indeciso sul da farsi.
Aveva giurato ad Hoyt che sarebbe tornato a casa, ma l’ultima cosa di cui
aveva bisogno era la compassione della sua famiglia. Inspirò profondamente
l’aria fresca di montagna lasciando la presa sulla maniglia, facendo poi gli
scalini a ritroso, uno dopo l’altro.
Ripensò a quando lui
e Liv tardavano e si nascondevano dai Pacificatori, e con quel dolce ricordo in
testa e nel cuore iniziò a correre, prendendo le strette vie fra le abitazioni
fino a quando i suoi piedi non rallentarono nei pressi di una dimora. Aprì la
porta di scatto com’era solito fare quasi ogni sera, come se lui abitasse
effettivamente lì, e quando se la richiuse alle spalle realizzò finalmente che
cosa in realtà avesse fatto.
Il padre di Liv lo
guardò con fare stupito, ma non disse niente, si limitò a lasciare libero il
passaggio fino al soggiorno, fino al divano dove una donna ricurva su se stessa
piangeva con il viso stretto fra le mani. Cercò le parole dal fondo della sua
gola, ma la voce si rifiutava di uscire e ogni frase gli sembrava stupida. Vide
la figura sul divano sollevare il capo e puntare gli occhi gonfi nella sua
direzione – gli sembrava un fuscello scosso dal vento, uno di quegli arbusti
fragili che non sopravvivevano ai temporali perché troppo delicati. Sentì due
braccia stringerlo con forza e delle calde lacrime bagnargli il collo: cercare
conforto in lui, che di consolazione non ne aveva.
La tenne a sé
comunque, passandole lentamente le dita fra i capelli e sulla schiena.
«Mi dispiace…» mormorò chiudendo gli occhi, lasciando che una
piccola stilla gli rigasse il viso, dando via libera al dolore che fino ad ora
non era riuscito ad esternare.
In un atto
masochistico, quella sera, dormì in quella stanza, sullo stesso letto che
avevano condiviso innumerevoli volte, e fra le lacrime e la dolce memoria di
Liv prese una decisione: si sarebbe offerto volontario ai Settantatreesimi Hunger Games. Lo avrebbe fatto
per lei.
“C’è una ragione per ogni cosa. Anche alla morte c’è
una ragione. E anche all’amore perduto. Se la morte ce lo porta via rimane
sempre un amore. Assume una forma diversa, nient’altro. Non puoi vedere la
persona sorridere, non le porti da mangiare, non le arruffi i capelli… Ma quando questi sensi si indeboliscono, un altro
si rafforza. La memoria. Essa diviene tua compagna. Tu l’alimenti, tu la serbi,
ci danzi assieme. La vita deve avere un termine, l’amore no.
MITCH
ALBOM
| LE
CINQUE PERSONE CHE INCONTRI IN CIELO |
• NdA;
Sono ancora io, sì.
Premetto che è
uscita meno angst di quanto pensassi, ma va bene. Io
sono dell’idea che Roel abbia principalmente attraversato
tre fasi: una di rabbia, una di autocommiserazione mista ad apatia, e l’ultima
che è il dolore vero e proprio. Non ci sarà mai una fase di rassegnazione
perché, al contrario di quanto dice la canzone là in alto, lui non la lascerà
mai andare.
Potete trovare
l’ennesimo riferimento petrarchesco, ma giuro che non è intenzionale – sebbene Roel mi sappia di Petrarca. C’è tanta licenza poetica in
questo scritto, tante cose di cui non sono certa, e forse è questo che mi
lascia insoddisfatta, ma ho scritto questa One-shot
due volte: non aveva voglia di riscriverla per la terza.
Spero che radioactive abbia apprezzato più di me,
e non so cos’altro dire.
Il titolo è una
frase di “21 Guns”
e per chi non sapesse l’inglese significa “Quando
è il tempo di vivere e lasciar morire” anche se, mi ripeto, non è proprio
il caso di Roel.
Insomma, è un
ragazzo dalla personalità intricata, complesso nella sua semplicità, e il suo
dolore è talmente lungo e travagliato che ci vorrebbe una long a parte solo per
quello… sul serio.
Diciamo che
raggiungerà poi uno stato di apatia che resterà quello, si costruirà uno spazio
suo e della sua sofferenza, un posto dove nessuno potrà entrare, nemmeno la sua
famiglia. Praticamente si crogiola nel dolore… sì.
Sto sproloquiando,
lo so.
Il bellissimo
banner che vedete là in lato è di
proprietà di radioactive
che ringrazio per la grafica e il bettaggio: thanks, my love. ~ Io
amo questo banner, fatelo anche voi.
Me ne vado che è
meglio.
~yingsu.
Ta ta ta ta…
pubblicità.
• Die
on the front page, just like the stars [ 72nd Hunger Games | Lyosha and Ariel Isaacs | DISTRETTO 8 ] di
radioactive.
• Blur [ Klondon | Klaus e
London | DISTRETTO 6 ] di Ivola.
• Senza di te
non posso sopportare il suono della pioggia. [SPIN-OFF 72nd Hunger
Games | Mietitura Distretto 2 | Roel/Liv
] di yingsu.
• Sono stato fatto per amarti. [child!Roel/child!Liv | SPIN-OFF 72nd and 73rd Hunger Games ] di radioactive.