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Autore: yingsu    29/10/2013    2 recensioni
Il fischio di una spada e una lama macchiata, sporca di sangue: il sangue di Liv.
La televisione cadde in un tonfo sordo, un rumore che non riuscì a percepire con chiarezza.
Crollò accanto ai suoi piedi, esattamente come quel corpo martoriato, lo stesso che con ansia aspettava di poter riabbracciare e accarezzare.
Una voce lo chiamò in preda al panico dalla cucina, la stessa che da tre giorni gli ripeteva che non poteva vivere sul divano, che trascorrendo settantadue ore con l’angoscia, dormendo poco e non lavandosi non avrebbe riportato a casa la sua fidanzata.

«Hoping one day you’ll make a dream last | But dreams come slow and they go so fast | You see her when you close your eyes | Maybe one day you’ll understand why | Everything you touch surely dies»
▪ 72nd Hunger Games ◊ Liv Nerys ◊ DISTRETTO 2
▪ SPIN-OFF de "Die on the front page, just like the stars | CAP.13".
▪ PREQUEL de "I'm frozen to the bones".
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovi Tributi, Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Anche la neve morirà domani.'
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A radioactive con dolore e amore

 

 

 

 



 

 

 

«Hoping one day you’ll make a dream last

But dreams come slow and they go so fast

You see her when you close your eyes

Maybe one day you’ll understand why

Everything you touch surely dies»

| PASSENGER → LET HER GO |

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il fischio di una spada e una lama macchiata, sporca di sangue: il sangue di Liv.

La televisione cadde in un tonfo sordo, un rumore che non riuscì a percepire con chiarezza.

Crollò accanto ai suoi piedi, esattamente come quel corpo martoriato, lo stesso che con ansia aspettava di poter riabbracciare e accarezzare.

Una voce lo chiamò in preda al panico dalla cucina, la stessa che da tre giorni gli ripeteva che non poteva vivere sul divano, che trascorrendo settantadue ore con l’angoscia, dormendo poco e non lavandosi non avrebbe riportato a casa la sua fidanzata.

Aveva ragione.

Imboccò la porta di casa senza prestare attenzione a sua madre, uscì senza dire una parole, senza darle la spiegazione che si poteva chiaramente leggere sul suo viso sconvolto, incredulo. Liv era morta: no, non era vero.

Corse verso il torrente fuori città, dove le case in mattoni pesanti lasciavano il posto all’erba e agli alberi, dove innumerevoli volte aveva passato il tempo con lei. Sentiva un groppo attanagliargli la gola e stringergli il petto, facendogli venire voglia di accasciarsi e urlare, di strapparsi qualsiasi cosa gli stesse causando quel dolore così reale.

Non era vero: non lo era per il semplice motivo che queste cose succedono agli altri e mai a te.

Inciampò in un qualcosa d’indefinito, probabilmente nei suoi piedi, e crollò sulle ginocchia, i palmi a stringere i ciuffi verdi, le unghie piantate nella terra.

Tutto quello che non aveva detto e fatto lo investì con la forza di un treno in corsa, lo colpì talmente forte da rubargli quel poco di fiato che gli restava, costringendolo ad ansimare.

Non l’aveva baciata abbastanza, non aveva avuto l’occasione per dimostrarle quanto l’amava, quanto il suo mondo ruotasse soltanto in funzione di lei: di quelle labbra di carne e quei capelli di grano. Sentì il peso del ciondolo di azzurrite che portava al collo, lo vide ciondolare lentamente a metà strada fra il prato e il suo viso. Lo guardò, e bastò questo a riportarlo indietro alla Mietitura, al giorno in cui quella collana passò dal petto di lei al suo.

Si rese conto di quanto il suo mondo fosse in pezzi, e del fatto che non aveva la forza di provare a raccogliere quei frammenti di un futuro che non esisteva più.

Niente Liv.

Niente matrimonio.

Niente figli.

Niente. Non aveva più niente per cui valesse la pena continuare a respirare.

Portò la mano al petto, sopra il cuore, premendo con tutta la forza che aveva, cercando un modo per attenuare quelle fitte lancinanti che gli toglievano il fiato, ma ogni tentativo era vano.

Lo avevano addestrato a sopportare il male fisico, poteva resistere con un pugnale conficcato in una gamba, ma non era in grado di reggere il dolore di un cuore spezzato.

Inspirò profondamente sedendosi su una grossa pietra, la punta delle scarpe a mollo nell’acqua gelida di quel ruscello, complice di quell’amore che più volte avevano consumato all’ombra di quelle fronde. Ricordò i sussurri e i sospiri, la sua bocca sfiorare quella pelle candida e liscia, come seta sotto le sue dita ruvide, consumate da quel mestiere che stava ancora imparando a fare, lo stesso che avrebbe dato sostentamento alla famiglia che volevano costruire assieme.

Non aveva mai avuto grandi aspettative, non aveva chiesto la luna e le stelle, solo di poter amare ed essere amato fino alla fine dei suoi giorni, sperimentando che cosa significasse diventare padre e poi nonno, per poi morire fra le braccia di quella donna che dal primo istante aveva amato.

 

«Tu non lo sai cosa mi fai…» soffiò piano su quel collo pallido, compiacendosi del brivido che scosse il corpo sotto di lui. Liv non lo sapeva davvero che cosa era in grado di fargli provare, che effetto avevano le sue mani e il suo profumo su di lui.

Il fiato caldo di lei gli accarezzò il padiglione auricolare facendolo vibrare mentre le sue mani le accarezzavano le cosce color madreperla, insinuandosi sotto la stoffa di quel vestitino rosa che le ricadeva in maniera scomposta sulle braccia, scoprendole di poco i seni.

«Roel…» mormorarono quelle labbra, prima che lui le impegnasse in un bacio.

 

Il rumore di passi lo strappò dal quel caro e dolce ricordo.

«Lo sapevo che saresti venuto qui».

Riconobbe la voce del suo migliore amico Hoyt, ma non rispose, non si degnò nemmeno di alzare lo sguardo, rimase semplicemente a fissare l’acqua di quel rigagnolo che con il suo suono si premurava di raccontargli ogni singolo momento passato lì, su quella riva, con Liv.

Il ragazzo, dal canto suo, non sembrò prendersela per via della mancata replica alla sua affermazione, si sedette semplicemente accanto a lui, conscio che un buon amico non ha bisogno di parole, e che Roel in quel momento necessitava solo del silenzio, di una spalla su cui poter piangere. Rimasero lì per delle ore, seduti uno accanto all’altro, accompagnati dal canto del fiume e degli uccelli, dal suono del vento fra i rami, e mentre quella melodia rievocava vani pensieri nella mente del biondo, il sole si nascondeva lentamente dietro le montagne, lasciando il suo posto alla luna e alla notte.

D’un tratto Hoyt si alzò senza preavviso «Andiamo a casa…» disse tendendo una mano all’amico – il coprifuoco era già in vigore da qualche ora, non era il caso di farsi trovare dai Pacificatori.

«Il pomeriggio prima della Mietitura abbiamo fatto l’amore qui» pigolò Roel degnandosi di comporre una frase di senso compiuto. Non riusciva a pensare a niente che non fosse Liv, a qualcosa di diverso dalle sue iridi e dalle sue mani che gli accarezzavano i capelli.

Il ragazzo dalla carnagione scura lo guardò scuotendo appena il capo. Lo avrebbe definito patetico, perché in effetti lo era, ma chiunque al suo posto sarebbe stato in quello stato, se non addirittura in condizioni peggiori. «Roel, per favore» mormorò chinandosi sulle ginocchia, e in quel momento un’idea gli balenò in testa, illustrandogli che cosa in realtà l’amico avesse in mente.

«Adesso capisco…» sbottò prendendogli il mento, costringendolo a ricambiare il suo sguardo «Tu vuoi che ti frustino, non è così? Pensi che il dolore fisico possa cancellare quello che senti, vero?».

«Vai a casa, Hoyt» gli rispose in tono piatto, come un automa, tornando a posare lo sguardo smeraldo sull’acqua che, imperterrita, continuava a scorre.

Era così che Hoyt avrebbe voluto che facesse, come quel dannato fiume che proseguiva il suo corso nonostante le rocce. Si era aspettato di vederlo piangere e urlare – avrebbe effettivamente preferito che si disperasse – ma niente, su quel viso scavato non c’era una briciola di dolore, solo una snervante apatia che gli faceva venire voglia di prenderlo a pugni.

«Lei non avrebbe voluto vederti così».

Eccola: la frase che non avrebbe voluto sentire.

Che cosa ne sapevano gli altri di cosa avrebbe voluto?

Si alzò di scatto spingendo il ragazzo con la schiena a terra, premendogli poi un gomito sulla gola «Che cosa vuoi saperne tu?» sbraitò retorico, facendo pressione con il braccio sulla gola dell’amico «Tu non lo sai cosa si prova!»

Non lo sapeva davvero. Nessuno lo sapeva, nessuno… tranne i genitori di Liv.

Allentò la presa con lo sguardo perso: si era dimenticato dei Nerys, troppo preso dall’autocommiserazione per domandarsi come stessero loro, quel padre e quella madre che avevano perso una figlia, la loro unica figlia.

Hoyt ne approfittò per liberarsi e lo spinse via, facendolo rotolare accanto a lui sull’erba «No, non lo so cosa si prova» mormorò alzandosi «ma sono comunque qui per impedirti di fare stronzate, quindi alza quel culo, Flos» aggiunse sollevando di peso il compagno d’infanzia.

 

Poggiò la mano sul pomello della porta, indeciso sul da farsi.

Aveva giurato ad Hoyt che sarebbe tornato a casa, ma l’ultima cosa di cui aveva bisogno era la compassione della sua famiglia. Inspirò profondamente l’aria fresca di montagna lasciando la presa sulla maniglia, facendo poi gli scalini a ritroso, uno dopo l’altro.

Ripensò a quando lui e Liv tardavano e si nascondevano dai Pacificatori, e con quel dolce ricordo in testa e nel cuore iniziò a correre, prendendo le strette vie fra le abitazioni fino a quando i suoi piedi non rallentarono nei pressi di una dimora. Aprì la porta di scatto com’era solito fare quasi ogni sera, come se lui abitasse effettivamente lì, e quando se la richiuse alle spalle realizzò finalmente che cosa in realtà avesse fatto.

Il padre di Liv lo guardò con fare stupito, ma non disse niente, si limitò a lasciare libero il passaggio fino al soggiorno, fino al divano dove una donna ricurva su se stessa piangeva con il viso stretto fra le mani. Cercò le parole dal fondo della sua gola, ma la voce si rifiutava di uscire e ogni frase gli sembrava stupida. Vide la figura sul divano sollevare il capo e puntare gli occhi gonfi nella sua direzione – gli sembrava un fuscello scosso dal vento, uno di quegli arbusti fragili che non sopravvivevano ai temporali perché troppo delicati. Sentì due braccia stringerlo con forza e delle calde lacrime bagnargli il collo: cercare conforto in lui, che di consolazione non ne aveva.

La tenne a sé comunque, passandole lentamente le dita fra i capelli e sulla schiena.

«Mi dispiace…» mormorò chiudendo gli occhi, lasciando che una piccola stilla gli rigasse il viso, dando via libera al dolore che fino ad ora non era riuscito ad esternare.

 

In un atto masochistico, quella sera, dormì in quella stanza, sullo stesso letto che avevano condiviso innumerevoli volte, e fra le lacrime e la dolce memoria di Liv prese una decisione: si sarebbe offerto volontario ai Settantatreesimi Hunger Games. Lo avrebbe fatto per lei.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

C’è una ragione per ogni cosa. Anche alla morte c’è una ragione. E anche all’amore perduto. Se la morte ce lo porta via rimane sempre un amore. Assume una forma diversa, nient’altro. Non puoi vedere la persona sorridere, non le porti da mangiare, non le arruffi i capelli… Ma quando questi sensi si indeboliscono, un altro si rafforza. La memoria. Essa diviene tua compagna. Tu l’alimenti, tu la serbi, ci danzi assieme. La vita deve avere un termine, l’amore no.

 

MITCH ALBOM

| LE CINQUE PERSONE CHE INCONTRI IN CIELO |

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NdA;

 

Sono ancora io, sì.

Premetto che è uscita meno angst di quanto pensassi, ma va bene. Io sono dell’idea che Roel abbia principalmente attraversato tre fasi: una di rabbia, una di autocommiserazione mista ad apatia, e l’ultima che è il dolore vero e proprio. Non ci sarà mai una fase di rassegnazione perché, al contrario di quanto dice la canzone là in alto, lui non la lascerà mai andare.

Potete trovare l’ennesimo riferimento petrarchesco, ma giuro che non è intenzionale – sebbene Roel mi sappia di Petrarca. C’è tanta licenza poetica in questo scritto, tante cose di cui non sono certa, e forse è questo che mi lascia insoddisfatta, ma ho scritto questa One-shot due volte: non aveva voglia di riscriverla per la terza.

Spero che radioactive abbia apprezzato più di me, e non so cos’altro dire.

Il titolo è una frase di “21 Guns e per chi non sapesse l’inglese significa “Quando è il tempo di vivere e lasciar morire” anche se, mi ripeto, non è proprio il caso di Roel.

Insomma, è un ragazzo dalla personalità intricata, complesso nella sua semplicità, e il suo dolore è talmente lungo e travagliato che ci vorrebbe una long a parte solo per quello… sul serio.

Diciamo che raggiungerà poi uno stato di apatia che resterà quello, si costruirà uno spazio suo e della sua sofferenza, un posto dove nessuno potrà entrare, nemmeno la sua famiglia. Praticamente si crogiola nel dolore… sì.

Sto sproloquiando, lo so.

Il bellissimo banner che vedete là in lato è di proprietà di radioactive che ringrazio per la grafica e il bettaggio: thanks, my love. ~ Io amo questo banner, fatelo anche voi.

 

Me ne vado che è meglio.

 

 

~yingsu.

 

 

 

Ta ta ta ta… pubblicità.

 

Die on the front page, just like the stars [ 72nd Hunger Games | Lyosha and Ariel Isaacs | DISTRETTO 8 ] di radioactive.

  Blur [ Klondon | Klaus e London | DISTRETTO 6 ] di Ivola.

Senza di te non posso sopportare il suono della pioggia. [SPIN-OFF 72nd Hunger Games | Mietitura Distretto 2 | Roel/Liv ] di yingsu.

Sono stato fatto per amarti. [child!Roel/child!Liv | SPIN-OFF 72nd and 73rd Hunger Games ] di radioactive.

 

   
 
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