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Autore: Caro14    06/12/2013    0 recensioni
Samantha è una ragazza di vent'anni con un grande sogno: la musica. Una grossa perdita le farà mettere in dubbio tutta la sua vita ma la vicinanza di 'un' ragazzo cambierà di nuovo tutto.
(è la mia prima ff, siate clementi)
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2 chapter

 
Rimasi nella mia stanza a piangere per diverse ore. Guardai l’orologio che scandiva ogni secondo; segnava l’una di pomeriggio.
‘Dovrei anche mangiare’ pensai tra me e me, ma non ne sentivo il bisogno.
Avrei voluto starmene seduta in quel letto a guardare un punto indefinito ancora per molto tempo, così da non affrontare la realtà. Ma quella stanza mi portava alla mente tanti di quei ricordi che alla fine sarebbe stato meglio alzarmi ed andarmene. E così feci. Trovai le forze per mettermi qualcosa di decente addosso, tanto per uscire e non sembrare una disadattata, e uscii di casa vagando senza una meta.
Sembrava che niente avesse un senso per me, camminavo svogliatamente, mi trascinavo avanti a fatica mentre cercavo di liberare la mente da tutti i brutti pensieri. Portai una mano al mio stomaco quando lo sentii lamentarsi e sorrisi appena: okay, era davvero giunto il momento di fermarmi in qualche posticino per rifornirmi.
Mi guardai attorno in cerca di qualche locale invitante e il mio sguardo venne catturato da un piccolo bar al di là della strada.
Entrai e mi accomodai in un tavolino appartato, non avevo la minima voglia di stare in mezzo a tanta gente felice che avrebbe parlato del tempo, del weekend..
«Vuole ordinare?» una cameriera mi si avvicinò con un sorriso smagliante, che ricambiai per quanto potessi.
«Un toast e dell’acqua naturale grazie»
La ragazza prese l’ordinazione e se ne andò rivolgendomi un altro sorriso. Sicuramente le facevo pena, ecco il motivo di tanti sorrisi.
Non appena arrivò il mio pranzo lo contemplai per dei minuti prima di decidermi a dare il primo morso; niente, il mio stomaco era ancora chiuso. Poggiai il toast nel piatto aspettando che mi venisse un attacco di fame.
All’improvviso sentii un frastuono assordante, voci e urla di ragazzine fuori dal bar e cinque ragazzi incappucciati che entravano di corsa nel locale cercando di sfuggire alla folla di assatanate lì fuori.
Sbattei le palpebre più volte per poi mettere a fuoco i loro volti, e si, erano chi pensavo. Quei cinque ragazzi montati che lavoravano sotto la mia stessa casa discografica, i Direction o qualcosa del genere. Non riuscivo a sopportarli, sembravano cinque caprette saltellanti quando erano sul palco. Davvero non riuscivo a capacitarmi di come le ragazzine potessero correre dietro a tipi del genere.
Alzai lo sguardo e li trovai di fianco a me, seduti al tavolo dopo il mio. Presi il cellulare e feci finta di rispondere a dei messaggi così da non dover alzare gli occhi e incrociare per sbaglio i nostri sguardi.
Mi sentivo osservata ed ero dannatamente in imbarazzo. Guardai dritto davanti a me e vidi il ricciolino intento a fissarmi, a studiarmi neanche fossi una cavia da laboratorio. Che diavolo voleva da me? Lo fulminai con lo sguardo, poi scossi la testa e tornai a rifugiarmi nei miei pensieri.
Era inutile restare lì, non avrei mangiato nulla e mi sentivo ancora gli occhi del ricciolino addosso, per cui decisi di alzarmi e andarmene.
Mentre passavo (mio malgrado) vicino al tavolo del gruppetto d’oro, il ricciolo si alzò e mi venne letteralmente addosso facendomi spostare di qualche passo.
«Oh scusami» sorrise guardandomi «A quanto pare siamo destinati a scontrarci».
Quel suo sorrisetto mi irritava e ebbi la sensazione che non fosse stato del tutto un incidente il suo venirmi addosso. Lo guardai male e mantenni il contatto coi suoi occhi, per dimostrargli quanto più disprezzo potessi.
Luì annuì leggermente imbarazzato, si voltò verso gli altri e poi ancora verso di me.
«So che anche tu lavori alla Syco Records, piacere Harry» mi porse la mano ma tutto ciò che ottenne da me fu un altro sguardo riluttante.
Con un sorriso ironico lo sorpassai a gran passo e uscii dal locale.
Aveva avuto anche la sfrontatezza di parlarmi, ridicolo.
Soffocai una risata sprezzante mentre mentalmente ricostruivo la scena: devo essergli sembrata una stronza per come mi sono comportata, ma io non cerco compassione da nessuno, tantomeno da un ragazzino sconosciuto.
Tornai a casa e mi sentii di nuovo invasa da quella sensazione di vuoto e solitudine che da settimane ormai era padrona di me. Due settimane, erano passate solo due settimane.
La casa era rimasta così com’era, con le nostre foto ancora in evidenza sugli scaffali, le sue cose sparse un po’ ovunque, per non parlare della sua stanza: non avevo ancora avuto il coraggio di entrarci. Avrei dovuto eliminare ogni traccia della sua presenza, ogni fottuta volta che i miei occhi si posavano su qualcosa di suo il mio cuore perdeva battiti. Ma non ne avevo la forza: togliere le sue cose era come accettare il fatto della sua scomparsa, e io ancora non volevo affrontare tutto questo. Perché in realtà è tutto un sogno vero? Presto mi sveglierò e la troverò lì, stesa sul divano come sempre, a guardare qualche stupido programma alla televisione mentre mangiava cucchiaiate di nutella direttamente dal barattolo.
La mia vista era ormai annebbiata, delle lacrime già mi rigavano il viso.
A rompere quel silenzio assordante fu la vibrazione del cellulare, che insistentemente sbatteva contro un vaso sopra il mobile. Lessi a fatica il nome nel display, poi portai il telefono all’orecchio.
«Pronto?» cercai di sembrare il più tranquilla possibile e soprattutto di trattenere i singhiozzi.
«Samantha tesoro, come stai?»
«Bene mamma, tutto bene. Voi?» le mie parole erano forzate, non riuscivo nemmeno a convincere me stessa, figuriamoci la donna che meglio mi conosceva al mondo.
«Si noi stiamo bene, ci manchi Sam»
«Anche voi .. mi mancate»
«Secondo me dovresti tornare qui in Italia, per un po’. Non dovresti stare da sola in questo momento, lo sai»
Ecco che ricominciava con la solita storia. ‘Non ti fa bene stare da sola, hai bisogno di qualcuno che ti stia vicino, così non supererai mai la cosa…’. Sempre le stesse cose che da due settimane a questa parte mi ripeteva ogni singolo giorno.
«Sam?»
«Si mamma, già l’hai detto»
«Pensaci..»
«Ci penserò, devo andare, scusa mamma»
Riattaccai il telefono.
Ero stanca, stanca di tutto questo. Mi dava fastidio ricevere tutte queste attenzioni, come fossi una malata incapace di intendere e volere. Non avevo bisogno di farmi compatire, della pane degli altri. Volevo stare da sola, dovevo superare il lutto da sola. Nessun’altro poteva aiutarmi. Nessuno. 
  
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