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Autore: Moira__03    05/01/2014    7 recensioni
Stava spolverando tutto quel marcio, quasi volesse dissolvere ogni suo schifoso peccato.
Era pura e sincera passione. Non c’era male… non c’era odio né violenza.
Era amore.
Solo amore che si stava consumando sotto le fiamme di quei sentimenti inaspettati, forse nemmeno compatibili. [...]
E lei sorrideva, mentre gli occhi del saiyan la scrutavano intensamente, senza staccarli mai dai suoi.

Bulma sgranò gli occhi, mentre dall’altro lato Yamcha le strinse la mano con dovuta forza tanto da farle capire che stava esplodendo dall’emozione.
Le ci volle un minuto intero prima che lei riprendesse a respirare.
Temeva che se lo avesse fatto, le lacrime sarebbero comparse a decretare quell’amara ed ingiustificata tristezza.
Eppure, solo due mesi fa entrambi avevano desiderato di averne uno. Cercò di riesumare quei momenti con l’intento di saturarsi della stessa emozione che l’aveva pervasa quando aveva accettato un figlio da lui, in quella notte in cui avevano bruciato la passione… per l’ultima volta.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Vegeta, Yamcha | Coppie: Bulma/Vegeta, Bulma/Yamcha
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo
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Capitolo 1



L’odio si stava bruciando sotto il fuoco incessante di quella passione.
La membrana robusta che faceva da involucro a quell’animo nero, oscurandone la purezza che esso serbava nel suo punto più profondo, si stava sgretolando, carbonizzando.
Anche lui, un tempo, era stato un uomo puro, sia pur ridotto all’ esiguo e limitato istante in cui emise il suo primo vagito.
Ma quanto immacolato può essere lo spirito di un bambino nato dall’incontro di due corpi violenti e saturi di odio?
Si era estinto così velocemente quel barlume di animo incontaminato, costernandosi in fretta dalla perenne devozione alla guerra, tanto da ridursi ad essere un puntino dalla grandezza di un atomo, circondato interamente dal male.
Non vi era modo che quel buono in lui si espandesse, ed era rimasto così. Piccolo, irrilevante, impossibile da percepire tanto che lui aveva sempre trascurato con cotanta naturalezza.
Ma anche lui, in fondo, ce l’aveva. E lei lo stava riscoprendo dietro a  quello stesso animo alimentato spiriti malvagi e  che lei ora, con la sfacciataggine degna di una donna, stava sfiorando con dolcezza, delicatamente così come si sfiora il cristallo, una cura a cui lui non era abituato.
Ma stava riuscendo ad arrivare lì, in quella piccola parte di anima  illuminata da una limpidezza che possiede solo un uomo senza peccati.
E senza saperlo lei aveva scoperto qual era l’arma in grado di sconfiggere la brutalità di un mercenario assetato solo di sangue innocente.
Per vincere quel male, non bisognava usare altro male.
Ma solo sincero amore.
Se solo lo avessero saputo i suoi nemici… sarebbe morto ormai da tempo.
Perché l’amore lo stava levigando piano, senza che quel nero lercio e sporco di sangue riuscisse ad infettarlo. Riusciva a bruciare silenziosamente le impurità che lo avevano reso un uomo crudele e infame, così silenziosamente da impedire che lui se ne accorgesse.
E con altrettanta calma e segretezza lei era arrivata sul punto più sensibile del suo cuore, valicando quella consistente corazza che lui stesso aveva creato intorno ad esso.
«Tu vuoi farmi impazzire…».
Le aveva detto Vegeta, fiatandole quelle parole con un’insolita spontaneità.
E lei sorrideva. Sorrideva perché era conscia che lui sarebbe impazzito. Perché è questo che succede a chi non conosce i sintomi dell’amore e quanto esso è in grado di fregarti.
Chissà quanto avrebbe sbraitato se fosse venuto a conoscenza che la stessa cosa che lo stava mandando in un piacevole delirio, gli stava spianando anche l’involucro della sua avvelenata anima.
Stava spolverando tutto quel marcio, quasi volesse dissolvere ogni suo schifoso peccato.
Era pura e sincera passione. Non c’era male… non c’era odio né violenza.
Era amore.
Solo amore che si stava consumando sotto le fiamme di quei sentimenti inaspettati, forse nemmeno compatibili.
Quello stesso amore che stavano praticando sotto lenzuola sgualcite e immacolate, mentre si accarezzavano con lentezza quasi entrambi volessero sincerarsi che stesse succedendo davvero.
Un tripudio di emozioni, sconosciute per lui,incontrollabili per lei.
Per Bulma non sarebbe esistito un solo umano a reggere il confronto, perché se un uomo temprato dal male e che in passato ha goduto solo dinanzi al mero spargimento di sangue, riesce a far provare sensazioni così caste da sembrar surreali, si può star certi che queste sono tanto vere quanto travolgenti.
E lei sorrideva, mentre gli occhi del saiyan la scrutavano intensamente, senza staccarli mai dai suoi.
Le era esplosa dentro una felicità senza eguali, perché nemmeno una Dea sarebbe mai riuscita a rendere Vegeta un amante focoso privo di qualunque violenza.
Si faceva guidare dalle sue mani, quelle stesse mani che un tempo avevano ucciso, ora bramavano il suo corpo con una delicatezza che non gli apparteneva.
I loro respiri si erano uniti, emanando un’unica e dolce fragranza.
Le loro bocche si erano toccate, morse… desiderate.
Le lingue si erano intrecciate in un bacio che per svariati punti di vista poteva definirsi illecito.
I loro corpi, così dannatamente contrastanti, si erano uniti.
Lei aveva assaporato l’essenza di quell’alieno che sembrava fatto d’acciaio, lui si era inebriato di quella bellezza devastante che era sparsa su ogni millimetro della sua nivea pelle.
Lui l’aveva vista arrossire, gemere, tremare, mentre le sue mani così spietate l’avevano così avidamente cercata.
«Io voglio te, Vegeta».
Aveva sussurrato lei, senza alcuna razione, perché razione non ci poteva essere in ciò che lei ora desiderava.
Ed era stata una sconfitta per lui. Perché nessun essere dotato di senno avrebbe lo avrebbe mai voluto.
Nemmeno la persona più folle dell’universo aveva mai sognato di stargli così tanto vicino.
Perché non esisteva essere nell’universo che non sarebbe morto, guardandolo negli occhi a quella stessa distanza.
E queste erano consapevolezze che avevano deflagrato l’ orgoglio, lo avevano calpestato fino a fargli sentire il dolore direttamente sulla pelle.
Aveva miseramente fallito. Non poteva più ritenersi, ora, lo stesso valoroso guerriero di un tempo.
Perché nel suo mondo chi non riusciva ad incutere terrore, valeva poco e niente.
Adesso Vegeta l’aveva trovato, aveva trovato quell’ insignificante essere in grado di espugnare un’intera vita da mercenario, perché Bulma, era l’unica in tutto l’universo, a non aver paura di lui.
Era stato decimato così meschinamente, reso conscio di una verità che gli bruciava più di tutte le ferite che aveva sul corpo.
Non aveva nemmeno più senso che lui fosse il principe della sua razza. Lei era riuscita persino a declassarlo così tanto da togliergli la corona.
Perché lì dove aveva vissuto, combattendo per mantenere saldo il suo titolo reale, non bisognava presentare un solo punto debole.
Ora ce l’aveva.
Ed era lei.
 
 
 
 
 
 
 
Stava sorseggiando del tè, riscaldando le mani avvolgendole alla tazza calda e fumante.
Gli occhi fissavano le bianche pareti di quella cucina, perdendosi lì con uno sguardo assente.
Accese nervosa una sigaretta. Inspirò quella nicotina come se potesse essere l’unico mezzo per annebbiare le immagini che di continuo le affastellavano la mente.
Erano passate due settimana. Solo due settimane da quando era successo.
E ancora non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione delle mani di Vegeta sul suo corpo.
Nemmeno il bollente getto della doccia aveva sortito alcun effetto.
Continuava a ripetersi che ciò che tra loro c’era stato, non avrebbe implicato niente. Dopotutto non si erano più parlati, né tantomeno incrociati se non di sfuggita.
Era stato illecito quel loro incontro quella notte, questo non riusciva a negarlo, specie in un momento come quello. Ma per quanto si stesse sforzando, non riusciva a negare che avrebbe ripetuto quel dannatissimo sbaglio tutte le notti della sua vita.
Tanto erano vividi quei ricordi che quasi pensava fossero visibili agli occhi esterni.
Sperava che il fumo perlomeno le offuscasse, perché da lì a poco sarebbe arrivato Yamcha.
Non era nemmeno passato così tanto tempo dall’ultima volta che era stata a letto con lui. Era successo prima dell’arrivo dei saiyan, promettendosi nel letto amore eterno nel caso in cui il loro arrivo avrebbe spazzato via dalla galassia ogni residuo del pianeta.
Si erano avvinghiati l’un l’altro con foga, facendo l’amore come se si stessero dicendo addio.
L’avevano fatto più volte, e mai come allora si erano desiderati. Perché solo quando c’è di mezzo l’idea di non rivedere più qualcuno, le emozioni si sfogano così vigorosamente da sembrare tanto forti.
Yamcha le aveva sussurrato parole dolci, e in quella stessa notte le aveva chiesto, sotto una razionalità bruciata dalla passione, di volere con lei un figlio.
Lei aveva annuito disinvoltamente con la testa, sotto i gemiti che lui le provocava, e lui aveva fatto esplodere in lei l’apice della passione, venendole dentro con l’intento di ingravidarla.
Il giorno prima di partire per l’imminente battaglia con i saiyan, i due si erano guardati intensamente, ed entrambi senza che lo sapessero, avevano ripensato a quella sera e a quel figlio che entrambi avevano desiderato.
Quella guerra poi le aveva portato via lui, con una crudeltà che non le sembrava sopportabile per un qualsiasi umano dotato di sensibilità.
Era trascorso meno di un mese da quando era tornata da Namecc. Poco più di due mesi da quando era successo l’ultima volta con Yamcha. E tutto era cambiato con una rapidità allucinante.
Il suo insensato interesse per Vegeta aveva totalmente eliminato ogni traccia di sentimento nei confronti di Yamcha. Non lo credeva possibile nemmeno lei.
Cercava di sforzarsi di ritrovare quelle cose che l’avevano fatta innamorare di lui, quasi perforando il muro con gli occhi tanto era l’intensità dello sforzo.
Ma non vi ritrovò nient’altro che il ragazzo adolescente conosciuto più di dieci anni fa, e oltre al sincero affetto dovuto all’abitudine della sua presenza, non vide nient’altro.
Vegeta era riuscito a sminuirlo con così tanta facilità da rendere a Bulma visibili e incontrastabili quei difetti che in Yamcha aveva sempre cercato di sopprimere.
Aveva invece visto in quel saiyan quella maturità che da tempo aveva desiderato di riscontrare in Yamcha, quell’essere rude e freddo da farle riscoprire l’arcaica tempra dei veri uomini.
E tutto ciò era bastato a degradare Yamcha, perché Vegeta era si era rivelato l’unico vero uomo in grado di tenerle testa o addirittura di sovrastarla.
Si rese conto di rimuginare da svariati minuti, quando la cenere cadde dalla sigaretta senza che lei la picchiettasse con due dita.
Diede l’ultimo tiro, arrivando a fumarsi quasi il filtro, prima di accartocciarla nel posacenere.
Ebbe un sussulto esageratamente visibile quando, alzatasi per ripulire la cenere, suonò il campanello della porta d’ingresso.
Aspettò qualche istante prima di ricomporsi.
Che premura stupida da parte sua risistemarsi i vestiti prima di aprirgli, come se ci fosse qualcosa da aggiustare. Non era stato quello il momento in cui se li era lasciati togliere da un altro, di cosa poteva accorgersi Yamcha?
Eliminò con veemenza le immagini dalla sua testa, elargì il sorriso più convincente che riuscisse a sfoderare ed aprì la porta.
«Ciao Yamcha» disse lei, forse con troppa formalità. Ma lui, preso com’era dall’immensa gioia di cui era pervaso, non ci badò.
Varcò la soglia avvicinandosi affettuosamente a lei, costringendola ad un forte abbraccio e baciandola con naturalezza.
Lei lo assecondò, sperando che in quell’istante non passasse Vegeta.
Davvero credeva che si sarebbe ingelosito!?
Quasi di fretta si liberò di quell’abbraccio con più naturalezza possibile.
«Allora… andiamo?» pronunciò lei, mostrando la stessa paura che si ha prima di fare qualcosa di cui non si è molto certi.
«Andiamo» asserì lui, con una luce sicura in volto pronta a rasserenarla. Fu la prima volta che Bulma ebbe l’impressione di avere di fronte un uomo.
Ma forse il destino aveva davvero scelto per lei un’altra via, a cui volutamente si stava sottraendo, oppure aveva deciso di giocare da infame, perché in quello stesso istante, il fato volle che al di la della porta ci fosse Vegeta, tornato dai suoi quotidiani allenamenti.
E l’impressione che Yamcha potesse rivelarsi un uomo, svanì di colpo.
Bulma arrossì all’istante, incatenata com’era a quegli occhi neri che la scrutavano sempre con un cipiglio nervoso, adesso un po’ più del solito.
Quasi si ritrovò a nascondere con il corpo la mano che Yamcha le teneva stretta.
Un solo istante era bastato a farle crollare di dosso quelle piccole certezze che aveva su Yamcha. Un istante che sembrava non finire perché non riusciva a togliere gli occhi da quelle due fessure nere che la guardavano sempre con avidità.
Sembravano calamite, create apposta per trattenere su di lui il suo sguardo.
Sperava che il rossore delle sue guance non fosse a Yamcha così evidente, perché proprio quando sentì di avere il fuoco sotto la pelle, il saiyan sfoderò il suo solito ghigno, più stizzito del solito.
Poi, per sua fortuna, la superò.
«Ancora non capisco come tu faccia a vivere sotto lo stesso tetto con quel saiyan senza aver paura che da un giorno all’altro ti faccia esplodere la casa» dichiarò Yamcha, con toni sprezzanti che davano tanto l’aria di serbare gelosia.
Lei sussultò, cercando di sviare da quel discorso. Anche se lui non si fosse accorto del suo improvviso rossore, non significava di certo che non avrebbe scorto il suo imbarazzo o peggio interesse se avessero ancora parlato di lui.
«Stai tranquillo, non succederà niente».
Non seppe trovare niente di meglio da dire. Già dirgli quello, le fece dubitare di aver lasciato trasparire qualcosa che invero era già successa.
«Se lo dici tu…».
Lei abbozzò un sorriso poco entusiasta, mettendosi in macchina accanto a lui.
Era irata a morte con la sorte. Erano talmente esigue le probabilità di incontrare Vegeta, invisibile e silenzioso com’era, che quasi pensò che davvero lassù c’era qualcuno che si stava divertendo a farla impazzire.
C’erano altri milioni di momenti in cui avrebbe potuto incontrarlo, nemmeno a cena o a pranzo lo vedeva più e lui si era fatto vivo proprio adesso. Proprio ora che era con Yamcha e proprio in quel momento in cui sarebbe dovuta essere più serena possibile per ciò che si stava apprestando a fare.
Il ciclo non le veniva da poco più di una settimana. Avrebbe voluto attribuire quel ritardo allo stress perenne a cui era sottoposta, ma un controllo era inevitabile.
Vedeva Yamcha sprizzare gioia da ogni singolo poro, mentre lei si stava silenziosamente abbandonando ad una triste agonia.
Desiderava un figlio con tutta se stessa. Dopotutto a trent’anni una donna ha il dovere di desiderarne uno.
Ma non da Yamcha.
Lo guardava, tremendamente spaventata, mentre cercava di farsi trasmettere da lui anche un minimo di felicità che vi leggeva negli occhi.
«Stai tranquilla Bulma» proferì lui, accarezzandole la guancia.
Lei annuì, elargendo un falso sorriso e simultaneamente Yamcha mise in moto.
Andare dal ginecologo non le era mai pesato così tanto.
Il test di gravidanza continuava a dare segni negativi, ma sarebbe potuto essere solo un problema di ormoni, sia pur lei continuava a dire che il test non si sbagliava.
Infatti era stato proprio lui a proporle quella visita, come se lei non ci avesse pensato.
Non voleva la certezza. Ecco cos’era a destarla tanto.
Durante il tragitto i due non fiatarono e Yamcha attribuì quel silenzio all’ansia da cui lei era invasa dall’idea di poter diventare realmente madre.
Bulma guardava perennemente dal finestrino, appoggiando la testa come in segno di arresa.
Due mesi non bastavano a farle gonfiare la pancia così tanto da rendere visibile la gravidanza e la speranza di non essere incinta era la stessa che prova una ragazzina di sedici anni che ha avuto il suo primo rapporto.
Pensò poi a cosa sarebbe successo se davvero aspettava un bambino.
Avrebbe dovuto sposare Yamcha pur non amandolo più o il coraggio che non le era mai mancato l’avrebbe aiutata a dirgli come stavano le cose?
Immaginava loro due in una nuova casa, da soli, con un figlio.
Non sarebbe stato così doloroso, se solo in quelle visioni astratte all’immagine di Yamcha era stata sostituita quella di Vegeta.
Inevitabilmente altre immagini le si delinearono in mente. Di nuovo quella notte…
Persino l’aria che respirava in quella macchina, ora aveva il profumo di Vegeta.
Chiuse gli occhi di colpo e in quello stesso momento la macchina si fermò.
Non sapeva quanto difficile sarebbe stato troncare la storia con Yamcha, ma una sofferenza atroce la pervase quando pensò invece di allontanarsi da Vegeta.
Un figlio da Yamcha l’avrebbe tenuta saldata a lui per tutta la vita, anche se lei avesse vissuto dall’altra parte del globo, ed era un legame che non voleva, specie con lui.
Non si rese conto di quanto fosse vicina ad una crisi di pianto finché lo sportello a cui era appoggiata non si aprì, facendola ritornare nella sua dolorosa realtà. Gli occhi le bruciavano da morire.
Yamcha gentilmente le pose una mano e l’aiutò vanamente a scendere dall’auto, proprio come ci si comporta con una donna in maternità.
«Non è detto che io sia incinta Yamcha… non è necessaria tutta questa premura» disse lei, parlando con il sorriso per non dargli a vedere quanto fosse invece irritata.
«Ci sono buone probabilità invece che tu lo sia».
Bulma lo fissò per un altro istante e poi prese a camminare verso la clinica.
La certezza con cui lui aveva pronunciato quelle parole erano state tali da distruggere le sue speranze di non esserlo.
In quella sala d’attesa poi ogni sua preoccupazione si moltiplicò.
Guardava in volto tutte le signore, notando quella felicità genuina e sincera mentre con le mani accarezzavano il pancione già evidente.
Si meravigliò quando diversi sguardi ricaddero sulla bella presenza di Yamcha senza che lei provasse un minimo di irritazione.
Doveva essere davvero bello, pensò, muscoloso e tonico com’era.
Chissà come avrebbero guardato invece Vegeta…
Strinse con forza il pugno libero dalla mano di Yamcha, mandando al diavolo il saiyan mentalmente e con tutta se stessa.
Perse più di qualche battito quando la porta d’ingresso allo studio ginecologico si aprì svariate volte, mostrando una giovane segretaria che meccanicamente proferiva il cognome delle donne lì presenti.
Dopo svariati minuti sentì pronunciare il suo, e giurò di aver sentito un dolore allo sterno tanto tremendo da pensare che fosse stato il suo cuore a spingere violentemente contro di esso con l’intento di sfondarlo.
«Dai tesoro, andiamo» rassicurò Yamcha, tirandola cautamente da un braccio per farla alzare.
Entrò nello studio con la stessa sicurezza che si ha entrando in una camera delle torture.
Fissò in volto l’uomo che l’avrebbe visitata, guardandolo quasi con lineamenti minacciosi mentre lui le si pose con un sorriso.
«Si accomodi su quella sedia, signora Brief».
Bulma non aprì bocca, nemmeno per correggere il medico sul fatto che non fosse ancora una signora, dacché non ancora sposata.
Si mise comoda aspettando qualche minuto che il ginecologo impiegò per compilare dei documenti e firmare delle carte.
Dal primo momento in cui il dottore cominciò l’ecografia, lei piantò lo sguardo sullo schermo del monitor senza più staccare gli occhi.
Mentre lui cercava di focalizzare al meglio le immagini per trarre delle conclusioni, Bulma cercava di scorgere qualcosa vagamente simile ad un piccolo neonato, senza però ottenere risultati.
La mano di Yamcha non aveva smesso un secondo di stringere la sua, infierendo su di lei, quasi volesse continuare a darle delle certezze che non voleva.
«Quando avrebbe dovuto avere le ultime mestruazioni?» parlò il medico.
«Poco più di una settimana fa» rispose lei, meravigliandosi di quanto secca ritrovò la sua gola.
Lui contorse un po’ le labbra e increspò la fronte.
«Quando ha avuto l’ultimo rapporto, signora?».
In quello stesso istante, Bulma sentì esploderle qualcosa nel petto, facendole fluire tutto il sangue che aveva in corpo sulle guance.
Fortuna che non era attaccata ai macchinari che controllano i battiti cardiaci.
Di certo non avrebbe potuto dirgli la verità.
Dal suo ritorno da Namecc, Bulma si era categoricamente rifiutata di andare a letto con Yamcha. Lui era stato il primo a ritornare dal regno dell’aldilà, prima di Tensing e Rif, ma l’intervallo di tempo trascorso dal momento in cui aveva invitato Vegeta a soggiornare a casa sua, e quello in cui Yamcha resuscitò, era bastato a Bulma per notare quanto invero fosse attratta dal saiyan, tanto da finirci a letto dopo due settimane.
Le scuse per non farsi toccare da Yamcha erano ricadute su quelle stesse questioni che lei in continuazione aveva negato. Gli diceva costantemente di non sentirsi bene, che le girava la testa e sentiva salirle la nausea.
E lui se l’era bevuta con semplicità, prima che Bulma notasse di avere seriamente quei sintomi. Ma non ci badò molto, almeno finché una mattina non passò un’intera ora chiusa in bagno abbracciata al water.
«Poco più di due mesi fa» rispose, dopo aver rimuginato un po’ di tempo, sperando di non sbagliare lasciandosi sfuggire proprio ciò che non voleva dire.
Si raschiò poi rumorosamente la gola e insieme alla speranza di esser parsa convincente, vi fu anche quella che il ginecologo non si accorgesse, da chissà quale strana teoria, che non andasse a letto con un uomo da sole due settimane.
Solo per accertarsi che il medico la stesse credendo, distolse gli occhi dal monitor per puntargli contro il suo volto.
Notò in lui un’espressione stranita.
Dopo un'altra manciata di secondi in cui il ginecologo aguzzò per bene la vista su ciò che aveva visto sul monitor, come nel cercare delle certezze, liberò Bulma da quegli oggetti infernali dicendole gentilmente che poteva risistemarsi.
«Allora dottore?» quella volta fu Yamcha a spezzare il silenzio, impaziente di avere da lui una risposta.
Lui gli sorrise di rimando.
«Ebbene… vostra moglie è incinta».
Bulma sgranò gli occhi, mentre dall’altro lato Yamcha le strinse la mano con dovuta forza tanto da farle capire che stava esplodendo dall’emozione.
Le ci volle un minuto intero prima che lei riprendesse a respirare. Temeva che se lo avesse fatto, le lacrime sarebbero comparse a decretare quell’amara ed ingiustificata tristezza.
Eppure, solo due mesi fa entrambi avevano desiderato di averne uno. Cercò di riesumare quei momenti con l’intento di saturarsi della stessa emozione che l’aveva pervasa quando aveva accettato un figlio da lui, in quella notte in cui avevano bruciato la passione… per l’ultima volta.
Ma la speranza fallita di sentir le stesse sensazioni provate quel giorno, non fece altro che alimentarle il tormento.
«Ne è sicuro?» disse atona lei, quasi sottovoce, sperando di non sembrare turbata.
«Sul fatto che lei è incinta non ho alcun dubbio. Mi servono ulteriori analisi per sancirne il tempo» disse meccanicamente mentre compilava altre carte «Stabiliremo un ulteriore appuntamento».
Poi si alzò, andandole in contro quasi volesse con lei congratularsi, per salutarla e farle i suoi migliori auguri.
Usciti dalla clinica Yamcha l’abbracciò forte, cercando poi le sue labbra con poca decenza.
Lei chiuse gli occhi e ricambiò quel bacio, senza alcuna voglia di farlo, ma usava altrettanta foga in modo da prendere del tempo utile per ricacciar indietro le lacrime.
«Ti riaccompagno a casa. Stasera ho la partita quindi credo di non farcela ad uscire. Lo faremo domani, così andiamo a festeggiare… io e te».
Lei sorrise, stavolta più serena.
Il pensiero che avrebbe rivisto Yamcha il giorno dopo e non la sera stessa le alleviò un po’ la tensione.
Avrebbe potuto pensare un po’ a se stessa quella sera, e magari pensare ad una soluzione.
Di certo non avrebbe abortito. Quello era totalmente escluso.
Troncare con Yamcha avrebbe di certo apportato dei problemi al bambino.
Tutti dilemmi che avrebbe risolto quello stesso giorno, usando anche l’intera notte se fosse stato necessario, a costo di bruciarsi il cervello per trovare la soluzione più ottimale per tutti quanti.
«Tranquillo, ci vediamo domani» disse con una calma sincera.
Di nuovo, per tutto il tragitto, nessuno dei due fiatò una sola parola. Bulma ritrovò man mano la dovuta tranquillità, direzionando la sua mente a concentrarsi per non far calare i lucciconi, anziché pensare alla sua disperata e ormai certa maternità.
Non vedeva l’ora di scendere da quell’auto. Le sembrava così ristretto lo spazio, quasi da poterci soffocare.
Non poteva permettersi di parir triste davanti a Yamcha. E la sua autorità nel sembrare contenta, non stava facendo altro che serrarle il cuore in una morsa d’acciaio, che lo stritolava lentamente fino a farle assaporare ogni sfaccettatura di quel dolore muto e straziante.
Arrivata alla Capsule Corporation scese quasi di corsa dalla macchina, stampando un bacio frettoloso sulle labbra sorridenti di Yamcha prima di catapultarsi all’ingresso.
Entrò in casa veloce, quasi furiosa, rimanendo poi appoggiata con la schiena dietro la porta per svariati minuti.
Di solito quando era irata o giù di morale, lei lavorava. Ma in quella situazione non poteva nemmeno permettersi di sbraitare senza avere un crollo fisico.
In casa non c’era nessuno. Si era anche dimenticata a quale conferenza i suoi genitori stessero partecipando. La sua mente spaziava da così tanto tempo, da farle dimenticare quelle cose che il suo cervello riteneva superflue.
Ciò che le premeva, in quel momento, era rimanere sola, per cui non si sforzò molto per ricordare dove sua madre e suo padre fossero andati quanto invece di rimembrare quando sarebbero tornati.
Se non ricordava male, avrebbe avuto casa libera per un’intera settimana. E questo bastò al allietarla di quel poco che serviva per non farle venire una vera crisi isterica.
Scaraventò rudemente la borsetta sul mobile adiacente all’ingresso, senza premurarsi di aver colpito un vaso che subito si schiantò per terra distruggendosi.
Salì al piano superiore con lentezza estenuante, mantenendosi saldamente alla ringhiera quasi fosse moribonda.
Entrò in camera sua, gettando con noncuranza il cappotto sulla scrivania, dirigendosi poi di fronte l’enorme specchio che ricopriva il suo armadio.
Si meravigliò di quanto paonazza fosse in volto, ma non si soffermò lì per molto perché subito i suoi occhi scesero verso l’addome ancora piatto.
Alzò delicatamente la maglia, con quella prudenza che si ha quando si teme di danneggiare qualcosa, e si pose di fianco, per guardarne il profilo.
Osò poi accarezzarsi piano, come se volesse sentire sotto le mani la presenza di una vita.
Solo due settimane prima quel ventre era stato baciato e leccato con una furia immensa da Vegeta.
Proprio lì, lui, si era soffermato più del dovuto, inalando la dolce essenza della sua pelle, per poi passare ad accarezzarle i fianchi sui quali ancora vi erano i segni delle sue dita che avevano pressato più del dovuto.
Aveva poi spinto contro di lei il suo bacino, dapprima lentamente, con una forza troppo trattenuta da farlo sentire persino spossato, poi sempre più forte, entrandole dentro nello stesso modo spietato con cui lui faceva la guerra.
Le aveva fatto raggiungere l’orgasmo più volte, quella sera, in modo quasi feroce. E non si era per niente premurata di tutelarsi fisicamente, perché sapeva per certo che se fosse andata a letto con quel saiyan, non ne sarebbe uscita illesa.
E ora invece si accarezzava con così tanta calma quello stesso grembo che aveva subito la pesantezza delle mani di Vegeta.
Si sentiva una vera stupida.
Abbozzò un sorriso all’immagine riflessa di quello specchio prima di chiudere gli occhi e liberando finalmente le lacrime che fluirono sulla sua guancia veloci e violente, quasi irate per essere state a lungo trattenute.
Le gambe le cedettero e si ritrovò in ginocchio, chinata verso il basso e con le braccia attorno al ventre come se volesse respingere un forte mal di pancia. Invero abbracciava il suo bambino, a cui sentiva di volere già un bene dell’anima nonostante non fosse dell’uomo che lei ora amava.
E scoppiò poi in lacrime, singhiozzando come una bambina, riempiendo quella camera di grida disperate, stringendo maggiormente il suo grembo quasi volesse chiedere scusa a quel figlio che portava dentro di sé inconsciamente già da tempo, voleva rassicurarlo che lei non era triste perché lui sarebbe un giorno venuto al mondo, ma lo era perché il destino le aveva giocato un brutto scherzo, facendole perdere la testa per l’unico essere per cui non avrebbe dovuto perderla.
Dopotutto Vegeta, nemmeno era umano…
Le lacrime scendevano sulle sue guance con la stessa velocità di un fiume in piena, decretando visibilmente quanto lei fosse frustrata e seriamente disperata.
Pensava che in quel modo si sarebbe liberata parzialmente di quell’angoscia, ma lo strazio che percepì sulla donna riversa a terra che quello specchio le stava mostrando, le alimentò maggiormente l’agonia.
Si guardava negli occhi, mentre piangeva.
Mai si era sentita così debole e inerme, ora provava persino pena per se stessa.
Chiuse poi gli occhi, e le urla che cercava di soffocare con rochi versi le avevano reso ogni suono ovattato, tanto da non accorgersi che dietro di lei, la porta era lentamente stata aperta.


***


Nda: Salve a tutti! Sforno una questa breve storia dopo un'ispirazione avuta di notte. Credo e spero di non superare i tre capitoli (era partita come one-shot, ma nella stesura mi sono resa conto di voler delineare meglio qualche dettaglio). Spero di non aver fatto grandi errori grammaticali e che la lettura non sia stata pesante o poco scorrevole. Per qualsiasi consiglio, critica costruttiva e quant'altro, io sono qui. Un bacione a tutti.
Ps: Vorrei sottolineare un particolare ringraziamento che va a Proiezioni_ Ottiche sempre pronta a supportare ogni mio sclero quotidiano sui miei patetici complessi da scrittrice e sulle mie perenni paranoie.
Alla prossima ^_^ non tarderà ad arrivare il capitolo seguente.
 
   
 
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