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Autore: ELE106    24/01/2014    5 recensioni
[Altri attori/telefilm]
[Cast Spartacus - Coppia Dan Feuerriegel / Pana Hema Taylor] Ebbene, prosegue la serie a episodi tra i nostri Dan e Pana, fra chiacchierate telefoniche, malintesi, bei ricordi che affiorano e qualche problema all'orizzonte. I ragazzi sono molto giovani e vivono lontani, la relazione prosegue su strade inaspettate e sempre più serie. Paure ed incertezze, compromessi e promesse accompagnano la loro storia, mentre i due cercano di dare un nome a quello che provano uno per l'altro, a volte scontrandosi, a volte amandosi. [POV Pana complessato – Episodio III-] Buona lettura ;)
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pana complessato'
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Intro: Bene, eccoci qui. Mi sento più leggera e sollevata, come sempre dopo aver chiuso e (spero) dato un senso a quello che ho messo in moto. Per riassumere, Dan e Pana hanno finalmente dato corpo e forma al loro rapporto; quello che è iniziato col sesso, è finito per essere l’amore della loro vita. Tra litigi, incomprensioni, idee strampalate (come il matrimonio) e tanto altro, hanno forse trovato una dimensione tutta loro per coltivare e far crescere il loro legame. Buona lettura ;)
 
 

Dannato Australiano

Capitolo 4. Un senso di te
 
 
Le festività natalizie sono strane.
 
È questo che penso, mentre con dita leggere scosto qualche ricciolo chiaro dalla fronte del mio bambino.
Dorme tranquillo, faccia in su e testolina comodamente appoggiata all’ampio torace di Daniel.
Si sono addormentati assieme, credo, poco fa, mentre guardavano la tv e io parlavo al telefono con sua madre.
 
Li osservo a lungo, seduto malamente sui bordi del divano per non disturbarli mentre sono tanto... belli.
 
Dan ha il braccio intorno al piccolo, lo avvolge quasi completamente, la mano stringe un poco il suo braccino paffuto.
 
Penso che quest’anno ho trascorso il Natale da solo… beh, nella casa di mia nonna con i miei fratelli e le loro famiglie, sentendomi per tutto il tempo stonato, fuori posto.
Dov’era la mia di famiglia? Dov’erano le persone che amavo?
Non sono poi molte, onestamente.
Mio figlio Ahi Kā e... Daniel.
 
Ho trascorso il Natale senza di loro, come mille altre volte, eppure stavolta mi è sembrato atroce.
Stavolta ne avevo davvero bisogno.
 
 
“Quando porti qui il bambino, Danielle?”
 
Gliel’ho chiesto la sera della vigilia, subito dopo aver appreso che nemmeno Dan avrebbe fatto un salto ‘da me’ per le feste.
 
Un groppo assurdo in gola, una nostalgia soffocante e dolorosa, come solo il Natale può infliggerti.

Le feste sono proprio strane.

Non ti mancava niente, o forse non ti accorgevi che ti mancasse niente, poi qualcuno dice ‘Natale’ ed esplode qualcosa di triste e insieme dolce-amaro dentro di te.
Tutto quello che non hai vicino sembra esserti d’improvviso essenziale. Sei vuoto, incompleto, ne hai bisogno come di respirare.
 
“Sei sicuro di volertene occupare da solo, Pana?”
 
Non era seccata, nemmeno spazientita o gelosa, era preoccupata. Il tono di voce pacato, quasi delicato, comprensivo e lei non lo è mai.
 
“Sembro davvero tanto disperato?”
Le ho risposto, le mani nei capelli e un sorriso tirato e stanco che lei tanto non poteva vedere.
 
“Sembri solo...”
 
“Ho voglia di stare un po’ con lui. Lo sai che le feste mi mettono malinconia.”
 
“E l’australiano?”
 
“Non ha potuto raggiungermi.” Faceva uno strano effetto sentirlo nominare da lei. Si rifiuta ancora di chiamarlo per nome, di accettare che lui ormai sia una parte importante della mia, della nostra vita. “Ci vedremo appena possibile e io vorrei...” ho deglutito più e più volte, non trovando il coraggio di formulare quella richiesta, anzi, quel semplice e naturale desiderio. “... vorrei fargli conoscere Ahi Kā.”
 
Lei non mi ha risposto subito, ha sospirato. Mi sembrava quasi di vederla quella smorfia che fa sempre quando la deludo o quando sospetta che stia per farlo.
 
“Mi sembra naturale che tu voglia presentarglielo, solo...” e ho avuto paura, per un secondo, di quello che mi avrebbe detto; paura che fosse una di quelle verità fastidiose, che lei sola conosce di me e che mi uccidono ogni volta “... solo cerca di non fare cazzate, Pana. Se lui deve far parte della nostra famiglia, se deve rientrare tra le persone vicine a nostro figlio, cerca di ricordarne l’importanza quando ti prenderanno quei tuoi momenti da ‘voglio stare solo, non rompete i coglioni, sparite tutti’.”

Ho sorriso senza quasi volerlo, perché quello ero proprio io in tutto e per tutto.

“Mi sono spiegata, Pana?”

“Sissignora!”

Si è messa a ridere anche lei, erano mesi e mesi che non rideva con me.
 
Forse, nel casino che ho combinato con me stesso, con lei, con me e lei insieme, col bambino, la mia carriera, la mia vita in generale, sono anche riuscito a mettere in piedi qualcosa di decente.
 
“Ti invio i dettagli del nostro volo e l’ora di arrivo prevista, poi ci aggiorneremo meglio.”

“Grazie, Danielle!”

Un sospiro di sollievo e le feste sono passate.
 
 
 
Il mio bambino è arrivato a casa di mia nonna, da me, il giorno dopo capodanno. Una massa disordinata di boccoli biondicci, pelle scura come la mia e due occhi enormi, con dentro tutto quello che serve per sentirsi amato.
 
“Papà!”

L’abbraccio più lungo della storia.
Il mio vero Natale è venuto in quell’istante.
 
 
Il mio regalo, invece, la mattina seguente, nei panni di un sorridente e bellissimo australiano che bussa alla nostra porta e varca la soglia con quattro borsoni pieni di pacchi tra le braccia. E l’intenzione di fermarsi da noi per un bel po’ di tempo.
 
 
Siamo ospiti in casa Taylor da oltre una settimana e Dan è diventato il preferito di Ahi Kā, esattamente due ore dopo il suo arrivo. Dovrei sentirmi geloso, ma non ci riesco.
Non si scollano mai uno dall’altro, passano le giornate prendendomi in giro e complottando scherzetti scemi alle mie spalle.
 
E chissenefrega se io e Daniel non siamo mai soli, se non facciamo l’amore da secoli (esagero un po’, mi piace ancora fare il melodrammatico), se mi bacia di nascosto per paura, dice, di ‘traumatizzare’ il mio cucciolo; chissenefrega se appena mi sfiora, contro pareti e porte chiuse, mi fa tremare e andare a fuoco con quelle mani, quelle dita magiche, per poi abbandonarmi e correre via al primo ‘Daaaaaaaan!’ strillato con vocetta angelica da mio figlio, dall’altra parte della casa.
 
Chissenefrega, se il senso di tutto questo è che ora posso stare qui a guardarli dormire assieme.
 
Perché un senso c’era alla fine delle urla, dei drammi e dei pianti, un senso c’è e riposa qui accanto a mio figlio e io posso sentirlo, come fosse un segreto sussurrato a tradimento; se non sei attento e non ascolti, te lo perdi e chissà se ti capiterà mai di sentirtelo sussurrare ancora.
 
Ti amo, Dan.
 
 Amarlo è un privilegio del quale non avrò più paura. Forse me lo sono meritato. Mi sono guadagnato questo squarcio di sole nel grigio e turbolento cielo che dall’alto osservava una vita passata a scappare da tutto quello che diventava troppo importante.
Me lo sono guadagnato per essere strisciato fuori da un egocentrismo malsano, fatto di scarsa autostima, zero empatia verso chiunque e molto autolesionismo; e parlo di egocentrismo perché alla fine, anche se non ti ami per niente, sei sempre tu il centro dell’universo.

Poi è arrivato mio figlio.
Poi Daniel.
Poi io non contavo più niente e tutto ciò che volevo era che stessero con me, che fossero felici di stare con me.

Ho fatto un sacco di cazzate durante la strada percorsa per capirlo, lo riconosco, ma alla fine ogni sforzo ha avuto un senso e mi ha portato nel posto giusto.
 
Non mi interessa più del matrimonio. È stata la paura di perderci l’un l’altro a spingerci a desiderarlo. E ora quella paura è addormentata (proprio come questi due orsi qui), sopita al calduccio, al centro dei nostri cuori ingarbugliati.
Tutti quelli che contano davvero sanno che stiamo insieme e il resto del mondo si fotta! Al resto del mondo non importa nulla di noi. Non faremo annunci o stupide dichiarazioni, smetteremo semplicemente di nasconderci.
 
Dan mugugna qualcosa nel sonno, le labbra socchiuse e qualcosa di tenero che mi prende alla bocca dello stomaco, come un bisogno immediato di toccarlo, di sentirmi i suoi occhi addosso.
Adesso, subito.
 
Svegliati…
 
Forse l’ho detto ad alta voce e lui mi ha sentito, perché una strisciolina di verde gli si intravede tra le palpebre, ora semichiuse.

“Ehi”
Mormora, accorgendosi di avere ancora il bambino un po’ addosso e bloccando ogni movimento per non svegliarlo.

“Ehi!” Gli rispondo io e, senza nemmeno accorgermene, la mia mano gli è arrivata alla guancia e lo accarezza dolcemente; lui la prende nella sua e la sfiora con le labbra calde.

“Tutto a posto con Danielle?”

“Si, viene a riprenderlo domani.”
 
Piano, si alza dal divano, accomodando sui cuscini il bambino che continua a dormire tranquillamente.
Dan torna a guardarmi ed è come se sapessimo tutti e due che è il momento per noi.
 
“Sai cosa mi ha detto, prima di addormentarsi?”

Mi sussurra accostandosi a me; le sue mani mi scivolano sui fianchi, lui mi tira contro di se e mi stringe, affonda il naso nella pelle sensibile del mio collo.

“Cosa?” rispondo, quasi senza voce.
 
Oh Dio, Dan, quant’è che non mi tocchi? Troppo, troppo.
 
“Ha chiesto se può chiamarmi papà-orso... ne sai qualcosa?”

Ridacchia prima di rialzare la testa e tornare a guardami negli occhi.
Non c’è bisogno che gli risponda, vero? Lo sa che solo io lo chiamo ‘orso’, capisce la portata di quelle due semplici parole.
 
Quando una persona ti entra dentro, apre una voragine da qualche parte, vicino al tuo cuore, e scava, scava finché raggiunge il nucleo. E ti ci senti annegare dentro a quel vuoto, ogni volta che sei lontano da quel qualcuno. Solo lui può riempirlo.
 
Certe volte scavano troppo a fondo e ti distruggono.
Possono iniziare col sesso (possono distruggerti dentro anche solo con quello), possono iniziare con l’amicizia, con la fiducia e il rispetto, possono iniziare in mille modi, ma finisconosempre con le parole.
E se pronunciano quelle giuste, quelle persone hanno scavato abbastanza.
 
Le parole giuste le ha pronunciate mio figlio.
 
Papà-Orso.
 
Daniel può smettere di scavare, perché è arrivato, è dentro di me, è l’unico e solo essere umano in grado di colmare il mio vuoto.
 
Si avvicina alle mie labbra con le sue, con quel sorriso sincero, felice, aperto, dove puoi leggere tutto, dove c’è lui scritto ben chiaro in ogni piccola linea d’espressione, che si forma intorno ai suoi occhi quando ride.
 
Ci baciamo lenti, ci baciamo come fosse la prima volta e in un certo senso lo è.
Perché se abbiamo giocato fino a un attimo prima, adesso siamo scoperti, siamo uno di fronte all’altro, nudi, vulnerabili, siamo coscienti che il gioco è finito ed è ora che si inizia a fare sul serio.
Non ci si può tirare indietro. E non voglio tirarmi indietro.
 
Gli darò tutto, tutto quello che possiedo e posso donargli; corpo, voce, anima, mente e cuore.
  
Facciamo l’amore svelti, ancora mezzi vestiti, seduti un po’ scomodi sul mio letto; porte chiuse, luce accesa, voci basse e trattenute.
Mani ansiose, fameliche, disperate, che scostano magliette e sbottonano pantaloni; pelle calda contro pelle più calda, frizione, brividi e tanto bisogno di soddisfarsi reciprocamente.
 
Stare sopra di solito non mi piace. Sotto è comodo, lascio che sia Dan a guidarmi a governarmi, mentre io mi abbandono, mi perdo nel sentirlo godere di me e prendersi tutto quello che vuole. Stare sotto ha sempre significato stabilire dei confini, dei ruoli, in cui io prendo e lui da.
 
Questa notte invece sto sopra a cavalcioni su di lui. Controllo io il ritmo, le spinte, le pause, ogni movimento e gemito avviene per mia volontà e coi suoi occhi puntati addosso.
Ed è tutto così diverso e intenso, da farmi quasi piangere per quanto è bello e enorme e spaventoso il modo in cui un solo uomo, quest’uomo, riesce a farmi sentire amato.
 
 
 
È mattina presto quando Danielle viene a riprendere Ahi Kā; saluta mia nonna con un abbraccio affettuoso, Dan con una diffidente stretta di mano e me con il suo cipiglio da mamma protettiva, quale un po’ è stata.
 
E quando sento ‘papà-orso’ pronunciato direttamente dalla voce di mio figlio, il vento mi sussurra di nuovo all’orecchio.
 
Amali sempre.
 
Un attimo appena e il vento cala, lasciandomi l’eco di quel segreto nel cuore e lacrime trattenute, quando il mio piccolo abbraccia Dan e gli da un bacio sulla guancia; lacrime che esplodono quando salta in braccio a me e mi stringe un dito tra le sue manine.
 
Amali sempre.
 
E lo farò, so che lo farò.
 
 
 
 
 
 
“Oh Dio, ora si scopa tutti i giorni, vero Pana?”
 
Ecco. Finita la poesia.
 
La sua mano sul mio culo, due secondi dopo che ho pianto come una ragazzina perché non potrò vedere mio figlio per un po’, sarebbe anche sufficiente a far scattare una ginocchiata nei gioielli di Dan, non fosse che sono ancora mezzo stordito dal sonno e dalle lacrime.
 
“Sei veramente un idiota!”

“Eddai, era per farti un po’ ridere! Non mi piace vederti piangere...”
 
E i baci che mi semina sul collo funzionano sempre, ma non credo glielo dirò, non subito.
 
“Entriamo? Tua nonna dice di aver preparato una colazione speciale tutta per me. Mi ama!”
 
Ammicca, si... bravo! Riderai ancora per poco.
 
Già, perché mi sono scordato di avvertirlo che sta per scendere a calci in culo dal piedistallo in cui l’aveva piazzato la vecchia; poco male, lo scoprirà tra un attimo, quando da dentro casa risuonerà la sua ira selvaggia, appena si accorgerà dell’orrida poltiglia appiccicaticcia che troneggia al centro del suo divano ‘buono’.
Perché quello che mia nonna ignorava, fino a poco fa, era che il suo adorato orso australiano fosse più casinista del piccolo guerriero mezzo-maori (suo nipote), e che ieri sera, le due bestie ingorde si fossero divertite a scartare ogni genere di caramella, cioccolatino e/o merendina, prima di sprofondare in coma diabetico e addormentarcisi sopra.
 
 
“DANIEL GREGORY FEUERRIEGEL!!”
 
Eccola. La furia maori-nonna scatenata.
 
“Oh porco cazzo…”

Lui mi guarda supplicando la salvezza.
Che io non gli darò, ovviamente.
 
“Gregory… temo proprio tu sia nei guai!”
 
 
 
 
 
Fine.

 
   
 
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