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Autore: Moira__03    27/01/2014    3 recensioni
Stava spolverando tutto quel marcio, quasi volesse dissolvere ogni suo schifoso peccato.
Era pura e sincera passione. Non c’era male… non c’era odio né violenza.
Era amore.
Solo amore che si stava consumando sotto le fiamme di quei sentimenti inaspettati, forse nemmeno compatibili. [...]
E lei sorrideva, mentre gli occhi del saiyan la scrutavano intensamente, senza staccarli mai dai suoi.

Bulma sgranò gli occhi, mentre dall’altro lato Yamcha le strinse la mano con dovuta forza tanto da farle capire che stava esplodendo dall’emozione.
Le ci volle un minuto intero prima che lei riprendesse a respirare.
Temeva che se lo avesse fatto, le lacrime sarebbero comparse a decretare quell’amara ed ingiustificata tristezza.
Eppure, solo due mesi fa entrambi avevano desiderato di averne uno. Cercò di riesumare quei momenti con l’intento di saturarsi della stessa emozione che l’aveva pervasa quando aveva accettato un figlio da lui, in quella notte in cui avevano bruciato la passione… per l’ultima volta.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Vegeta, Yamcha | Coppie: Bulma/Vegeta, Bulma/Yamcha
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo
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Capitolo 3 - Epilogo 



L’aveva guardato con fare esitante, non riuscendo a decifrare quel atteggiamento grave che si assume prima di ricevere cattive notizie.
Era entrata nel suo studio senza staccargli gli occhi di dosso e senza rilassare i suoi lineamenti.
«Prego, si accomodi qui» le aveva indicato il dottore, facendo cenno verso la sedia di fronte la scrivania.
Bulma continuava a non aprir bocca. Non sapeva che dire e prima di preoccuparsi seriamente, decise di ascoltare le parole del ginecologo senza trarre lei stessa assurde ed esasperate conclusioni.
«Dunque signora, io vorrei farle qualche domanda» cominciò, riprendendo le schede mediche relative a Bulma «Suo marito è qui?!».
«Non è mio marito… e non è qui» parlò fredda lei.
«Bene» disse come se fosse quella la risposta che voleva avere, in modo da non avere motivi che avrebbero condizionato la donna a mentire.
«Signora ho avuto un po’ di dubbi relativi alla visita di ieri. Ci sono fattori riscontrati nell’ecografia che non corrispondono esattamente ai calcoli e alle date previste da lei indicate».
Bulma lo guardò con fare rassegnato, confermandogli ciò che aveva appena detto, ma senza rilassare i lineamenti che ancora mostravano un volto curioso.
«A cosa si riferisce esattamente?» parlò lei.
«Beh, lei ha detto che l’ultimo rapporto con il vostro compagno lo ha avuto più di due mesi fa, se non erro…»
«Sì» asserì lei immediatamente, incitandolo a proseguire.
«E l’ultimo ciclo mestruale avrebbe dovuto averlo poco più di una settimana fa, ma non mi ha detto se il mese scorso lo ha per caso avuto…».
Lei ci pensò su un istante, cercando di ricordare se nei giorni passati su Namecc aveva avuto a che fare anche con le sue cose.
«In effetti… ho avuto qualche perdita. Ma non saprei esattamente se definirlo un vero ciclo mestruale. E’ durato tre giorni ma era quasi esiguo» dichiarò lei.
«Ha passato un periodo stressante, signora?» domandò lui, con fare formale portando due dita sul mento.
«Beh sì… sono una scienziata. Sono stata fuori casa per un bel po’ di tempo in un posto non molto sicuro e confortevole e perlopiù da sola» disse lei, senza effettivamente digli che aveva passato quel tempo su un pianeta alieno per non turbarlo. Un suo pensiero andò poi verso Gohan e Crilin, che le fecero increspare la fronte dal ricordo di quelle giornatacce a cui l’avevano costretta.
«Può dirmi qual è il problema, dottore?» inquisì quasi stizzita.
Lui si alzò e tirò fuori da un contenitore plastificato le lastre della sua precedente ecografia, ponendole perfettamente dritte su una lavagna luminosa.
«Per quanto lei mi ha detto, vostro figlio dovrebbe avere all’incirca otto settimane. In otto settimane è già possibile valutare la differenziazione del sesso ed è visibile il cordone ombelicale, e sarebbe persino possibile già registrare l’attività celebrale. Inoltre mi ha detto che è stato concepito anche più di due mesi fa, il che significa che se il feto ha nove settimane di vita dovrebbe già presentare una forma della scatola cranica più sviluppata e sarebbero persino distinguibili in esso gli occhi» fece un attimo di pausa, cercando di riprendere senza usare toni di voce che l’avrebbero sconvolta «Ma niente di tutto questo. Sembra che il feto si sia generato non più di quattro settimane fa, per le caratteristiche che presenta».
Bulma sbiancò, fissando con occhi spalancati le lastre che riflettevano quel piccolo essere indistinto dentro di lei.
Ingoiò un grumo di saliva pesante più del piombo, continuando a rimanere in silenzio.
«Quattro settimane?» chiese conferma Bulma. Nel peggiore dei casi avrebbe dovuto avere non più di due settimane.
«O poco più» aggiunse il medico.
Bulma continuò a perforare con lo sguardo quelle lastre sulla lavagna, cercando di disegnare i contorni indistinti di un essere umano.
«Devo sapere qualcosa signora?» chiese lui, palesando la sua diffidenza relative all’ultimo rapporto avuto.
Bulma restò per un altro istante a squadrare le immagini, prima di riportare il volto sul dottore.
«Credo che non servirà saperlo, perché anche se le confermassi che ho avuto l’ultimo rapporto due settimane fa, non si troverebbe comunque con i calcoli» dichiarò, fregandosene di ciò che avrebbe potuto pensare.
Il ginecologo sussulto e strabuzzò gli occhi più volte, ritornando a guardare le immagini.
«Strano… io posso confermare che il feto non ha meno di quattro settimane di vita. Questo è certo. Sicura che non le venga nient’altro in mente?».
«Certo che ne sono sicura» tuonò lei, stizzita non poco da quella situazione così in bilico.
«D’accordo, allora se non le dispiace dovrò rivisitarla» disse sistemando tutte le attrezzature vicino un macchinario infernale.
Bulma si accomodò sulla sedia per la visita, senza aggiungere nient’altro.
Quando il medico cominciò l’ecografia lei prese a muovere gli occhi dal monitor alle lastre e dalle lastre di nuovo al monitor in modo da confrontare le due immagini, prima di notare che il medico si era fermato di colpo guardando sullo schermo di quel computer come se vedesse quelle figure per la prima volta.
Si raschiò un po’ la gola prima di ricomporre i lineamenti del viso.
«Può alzare gentilmente la maglia?» le disse con poca convinzione, quasi spaventato.
Bulma lo fissò incerta, più spaventata dalla sua reazione che dal problema che poteva esserci. Alzò poi la maglia rimanendo a fissare il suo ventre, non più immacolato, con in volto lo stesso sbigottimento del medico.
«Oddio, ma che è successo?» quasi urlò lei, sull’orlo del panico vedendo la sua pancia piena di ematomi violacei.
«E’ quello che mi sto chiedendo anche io» sussurrò lui, parlando più con se stesso che non con la donna.
Poi ritornò sulle immagini, ingoiando rumorosamente un grumo di saliva.
«E’ impossibile…» dichiarò spalancando le palpebre e rivolgendo poi come un fulmine lo sguardo sulle lastre ancora appese.
«Cosa?» disse lei, incitandolo a continuare.
Lui la guardò fisso negli occhi, come volesse accertarsi che di fronte a lei avesse una donna normale.
«Signora, il feto è cresciuto ancora».
Il gelò piombò nella stanza con la stessa velocità con cui quelle parole deflagrarono il cuore di Bulma.
Lei lo fissava e a stento tratteneva i muscoli che avevano preso a tremare.
«C’è qualcosa che non mi torna. La grandezza del feto sembra essere rimasta la stessa, ma c’ò qualcos’altro che sta crescendo a vista d’occhio» si aggiustò gli occhiali, come per guardare meglio quelle immagini.
Bulma sembrava essere in stato di shock, tanto da aver smesso persino di ascoltarlo.
La preoccupazione riguardo a qualche probabile parte malformata di suo figlio era pari a quella che prevedeva una fecondazione che non tornava secondo i calcoli dei suoi precedenti rapporti.
«E’ molto forte…» sillabò poi il medico, perdendo quella sicurezza che uno specializzato dovrebbe avere, ritornando a testare il ventre della donna con delicate mani.
Bulma riuscì a sentire solo quello.
Suo figlio era forte, tanto forte.
«Credo che bisognerà fare degli accertamenti sul suo compagno, signora. Non so, analisi o quant’altro. Sta succedendo qualcosa che non ho mai visto in trent’anni della mia carriera medica».
«Non c’è bisogno di controllare» disse lei quasi sottovoce con toni rochi, prima di render meno secca la gola ingoiando un enorme quantitativo di saliva.
«Posso fare solo una telefonata? Credo di poter dare maggiori risposte» disse atona.
«Certo, faccia pure» si risistemò lui, spegnendo i macchinari e portando le nuove lastre accanto a quelle del giorno precedente per poterle vedere con una visuale migliore.
Bulma sfoderò tremante il cellulare, digitando il numero dell’unica persona che avrebbe potuto fornirle qualche vaga certezza.
«Pronto? Chichi sei tu?».
«Ciao Bulma! Da quanto tempo, che mi dici?» cinguettò lei dall’altra parte della cornetta.
«Chichi per favore, ho bisogno di un’informazione» boccheggiò «Devi dirmi quanto tempo è durata la gravidanza di Gohan».
Se avesse potuto vedere il volto di Chichi l’avrebbe trovato più che turbato e investigativo.
«Non è stata una gravidanza normale, ovviamente. Credevo persino che il feto non fosse compatibile con il mio corpo. Ed è durata cinque mesi».
Bulma sbarrò gli occhi, saettandoli verso quelli del ginecologo.
«Puoi dirmi altro? Cosa ti hanno detto i medici?».
«Beh, loro non sono riusciti a capire granché perché non riuscivano a riconoscere le cellule del feto. Ma dicevano solo che cresceva in fretta e che mi stava danneggiando da dentro. Gli ematomi erano evidenti anche sulla superficie esterna della pancia. In più la prima cosa a formarsi è stata la coda che cresceva in maniera sconsiderata. E questo lo hanno capito circa dopo il terzo mese».
La donna rimase ad ascoltare, dimenticandosi persino di respirare tanto era forte e clamorosa era diventata la certezza dell’appartenenza di quel bambino.
«Ma perché? E’ successo qualcosa? Sei incinta Bulma?» disse spedita, preoccupata dal mutismo ostentato ed insolito dell’amica.
«Ti dirò tutto più tardi, sono dal ginecologo. Ti ringrazio tanto Chichi, a presto» chiuse la chiamata dopo che lei ebbe risposto altrettanto cordialmente sia pur evidentemente preoccupata.
«Novità?» inquisì l’altro.
Quanto avrebbe potuto destare la notizia che aspettava un figlio da un alieno?
Era già successo all’unica amica che aveva, per cui il problema non verteva sull’improbabilità che il suo corpo avrebbe sopportato un mezzosangue dentro di lei, ma la vera catastrofe era riferire l’accaduto al medico senza che lui potesse prenderla per pazza.
«Beh sì, una mia amica ha avuto lo stesso tipo di gravidanza che ora sto passando io» disse con più calma, cercando di metter da parte per il momento il problema che quel figlio appartenesse a Vegeta.
«E a cosa è dovuto?».
«Il padre di questo bambino non è un… terrestre» disse aggrottando un po’ la fronte sperando che la notizia non suscitasse troppo scalpore. Persino a lei sembrava strano proferirlo ad alta voce.
Il ginecologo la guardò esterrefatta senza sapere se prenderla sul serio. Avrebbe strappato immediatamente la sua laurea se non fosse incuriosito dall’evento al pari di quanto ne era invece sconcertato.
«Si faccia dare il numero del ginecologo della vostra amica. Voglio parlarci di persona».
Non seppe dire niente di più sensato.
Nessuno dei due apri più bocca se non per salutarsi cordialmente e darsi le direttive per i prossimi appuntamenti.
Non appena mise piede fuori dallo studio e dalla clinica, Bulma fissò il cielo con immensa spontaneità, chiudendo gli occhi ed inspirando fragorosamente.
Un lieve sorriso le curvò le labbra.
Non seppe descrivere quel senso di estrema gioia che la pervase facendole perdere la sensibilità della pelle, pensando a quella maternità. Non credeva nemmeno che esistessero delle parole tanto schiette da poter fare minimamente immaginare le emozioni che si provavano.
Accarezzò il grembo con in volto i lineamenti di una neomamma in procinto di parlare al pancione.
Suo figlio era di chi sarebbe dovuto essere.
Un alieno.
Un saiyan.
E con lo stesso dolce sorriso si diresse verso la macchina, senza alcuna fretta di tornare a casa,.
Guardava scorrere i palazzi forse con troppa lentezza, ma senza osservarli davvero. Sarebbe stata alla guida per svariate ore, da sola, per gustarsi al meglio quella notizia, ogni sfaccettatura di quella felicità che le aveva fatto riprendere a battere il cuore con ritmi nuovi mentre la sua mente già divagava verso i più probabili lineamenti che avrebbero caratterizzato suo figlio, rendendolo più bello di un Dio.
Non riusciva a togliersi di dosso quei lineamenti amorevoli, che avrebbero fatto distinguere a chiunque che fossero quelli di una donna in dolce attesa.
Non li tese nemmeno quando, arrivata a casa, notò la figura di Yamcha davanti all’ingresso della dimora.
«Bulma? Che fine hai fatto tesoro? Ti ho lasciato mille chiamate, mi hai fatto preoccupare».
Lei gli andò incontro senza smettere di sorridere e quando era a mezzo metro da lui, già pronto ad accoglierla tra le braccia, lei lo evitò, passandogli avanti.
«Ciao Yamcha. Com’è andata la partita?» provocò lei, con toni troppo tranquilli per non far capire che fosse invero acida.
Lui cercò di digerire l’essere stato scansato, prima di voltarsi per rispondere.
«Bene, abbiamo vinto» disse non molto entusiasta.
Bulma si voltò verso di lui, dopo aver inserito la chiave nella serratura.
«Davvero? Questa volta è sicuro oppure si rivelerà poi un altro fallimento?» parlò con un ghigno stampato in faccia, generalizzando le sue parole con troppa vaghezza.
Lui ebbe un sussulto indecifrabile, non capendo le parole così determinate della donna.
«In che senso? Non capisco quello che stai dicendo Bulma. Una volta che è finita una partita, se l’hai vinta, la vittoria rimane» parlò come se si stesse rivolgendo ad una non molto sana di mente.
«Non mi sto riferendo al baseball, Yamcha» sorrise mostrandogli i denti, abbagliandolo per un istante.
Lui strabuzzò gli occhi, con la stessa espressione in faccia di chi si sente preso in giro.
«E a cosa allora?».
Lei roteò gli occhi verso l’alto, cancellando immediatamente il sorriso dal volto, quasi volesse dargli dello stupido per una cosa che era invece così ovvia.
Si girò poi, aprendo la porta di casa dandogli le spalle.
Lui l’afferrò da un braccio.
«Bulma ma che diavolo stai dicendo!?».
Lei si voltò di colpo, inchiodando gli occhi nei suoi.
«Sono passata da casa tua prima di andare dal ginecologo. E credo di essere arrivata in anticipo perché evidentemente eri occupato».
Yamcha impallidì di colpo, sentendo fluire tutto il sangue all’altezza del petto facendogli impazzire i battiti.
Lei gli diede due piccoli colpetti sulla guancia, elargendogli un sorriso per niente rassicurante.
«Spero che tu abbia fatto centro stavolta, perché con me, caro mio, hai fallito miseramente» pungolò con fare acido ed insopportabile, prima di sbattergli la porta in faccia.
Entrò in casa con incedere ancora teatrale su quei tacchi a spillo, a testa alta, pregna di una soddisfazione senza eguali.
Occhio per occhio, diceva un detto.
E il suo destino glie lo stava suggerendo da parecchio, peccato non avergli dato ascolto prima. Si sarebbe risparmiata tanto di quel veleno in corpo e gustato più il sapore della vendetta.
Una dolce vendetta.
Salì le scale senza battere ciglio ritrovandosi di fronte proprio colui che stava cercando.
Vegeta la squadrò, percorrendo il suo corpo divenuto più sinuoso dall’altezza artificiale di quelle decolté, aggrottando il solito cipiglio.
«Stavo cercando proprio te» gli disse, portando le mani affusolate sui fianchi con movenze sinuose, notando con piacere che Vegeta aveva addosso solo i pantaloni.
«Che vuoi» parlò scontroso, senza toglierle gli occhi di dosso.
Lei sciolse la sua posa autoritaria, camminando verso di lui con incedere lento.
Si arrestò solo quando arrivò a due centimetri dal suo corpo, fissandolo bene in volto stavolta, avendolo eguagliato in altezza.
Lui non si mosse nemmeno di un millimetro. Nemmeno quando lei aveva poggiato con delicatezza le mani sul suo torace nudo lui distolse lo sguardo famelico dai suoi occhi.
Se la stava divorando senza dire nulla e senza muovere un solo muscolo.
Corrucciò il viso, divenendo inquisitorio quando lei si fiondò sulle sue labbra e gli avvolse il collo con quelle esili braccia.
Poi l’assecondò, muovendo solo allora le mani per porle sui fianchi morbidi di lei sui quali già faceva pressione.
Senza pensarci nemmeno un istante, Vegeta la sbatté al muro, bloccandole ogni via di fuga che lei non avrebbe mai attuato.
Per sua grande sorpresa, fu proprio il saiyan a parlare per primo.
«Hai deciso di fregartene del tutto del moccioso?» ringhiò con un ghigno stampato in volto.
Lei elargì un sorriso mostrandogli tutti i denti perfettamente allineati.
«Certo che no. Ma credo di avere l’assoluta certezza che non si farà danneggiare così facilmente».
Vegeta la guardò di sottecchi. «Non lo credo affatto visto che ha il tuo stesso sangue…».
Per la prima volta ebbe l’impressione di vedere lo sguardo del saiyan farsi più ampio, sia pur impercettibilmente.
Si guardarono intensamente per svariati secondi, respirando lentamente quasi non volessero interrompere quel silenzio assoluto.
Erano seri in volto, tutti e due.
In Bulma vi era quel barlume di preoccupazione che lui non lo accettasse, in Vegeta c’era quello strano sintomo che già altre volte aveva sentito nascergli all’altezza del petto quando era in presenza di quella donna.
Lei lentamente mosse le braccia per prima, con una calma estenuante quasi avesse paura di destarlo. Si alzò la maglia quel che bastava per mostrare la pancia piatta.
«E’ molto forte… proprio come te» soffiò lei, inghiottendo un grumo di saliva troppo rumorosamente.
Lui le guardò il ventre sporco di chiazze viola, tanto evidenti in quella pelle d’avorio.
Non riuscì a trattenere un sorriso sbieco.
Non poteva che appartenere alla sua razza, e già così piccolo lui si accontentava di spargere dei lividi, anziché del sangue.
«Non sei più tu il principe adesso, saiyan» proferì lei, guadagnandosi l’attenzione dei suoi occhi.
Ed entrambi, nello stesso istante ghignarono, lei per gioia, lui per orgoglio.
E con la stessa passione, con emozioni riferite a ragioni differenti, si fusero, bruciando con maggiore ardore quell’eccitazione spontanea, nuova, diversa, perché i loro corpi diversi solo per la diversa razza di sangue, si unirono ognuno con un diverso scopo, ma le loro menti vertevano verso lo stesso e unico pensiero.
Loro figlio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Avrebbe patito tutto quello altre cento volte, nonostante le sembrava di aver toccato con mano l’inferno.
Dopotutto, era inevitabile se pensava al perché.
Era figlio di Vegeta, poteva essere altrimenti?
Il dolore le aveva dilaniato l’animo, facendola strillare quasi fino a perdere la voce, oltre che la coscienza.
Era solo una debole terrestre, lei, Vegeta glie lo ripeteva sempre.
Ed ora stava combattendo ad armi non del tutto pari, con quel piccolo essere che aveva cercato di uscire dal suo corpo quasi autonomamente, arrecandole un male atroce, insopportabile.
Era forte… troppo forte.
Lei no.
Ma la colpa non era di quel bambino, ma della sua aliena razza.
Perché erano così che nascevano i saiyan. Violenti, spietati.
Il sangue terrestre era servito solo a tingergli i capelli di un colore diverso dal nero.
Secondo ogni probabilistico calcolo, un mezzosangue sarebbe dovuto essere più debole e infimo di uno di pura razza. Ma non era stato così.
A dispetto di ogni previsione, quel bambino aveva una forza superiore a qualsiasi altro neonato saiyan.
C’erano più medici del dovuto in quella sala parto, e a nulla era servita la morfina impiantata nelle sue vene troppo tardi per alleviarle il dolore.
Non era un normale neonato, lui. Sembrava già così sviluppato.
Lo stupore generale esplose nell’intera camera con un boato indistinto quando, alzando il bambino ormai fuori dal pancione, si palesò quella lunga e pelosa coda, pronta a rivelare le sue aliene appartenenze.
Dopo aver boccheggiato per svariati minuti, e perforato il soffitto con occhi quasi fuori dalle orbite, Bulma riprese pian piano tra le mani le redini della sfocata coscienza che aveva sentito mancarle per qualche attimo.
Il sudore freddo le aveva velato la fronte, e il respiro troppo affaticato le aveva rinsecchito la gola.
Riuscì ad inalare quella poca aria che le era bastato per soffiare un paio di parole, dicendo ai medici di portarle suo figlio.
Cercò di ricomporsi, ma aveva le costole che le dolevano, alcune si erano rotte.
Ma riuscì, con uno sforzo immane, a distendere le braccia per avvolgere quel bimbo sporco di sangue.
Un sorriso le si delineò in volto quando lo guardò per la prima volta.
Le sue iridi erano azzurre, proprio come i suoi. Ogni colore che riportava, era puramente terrestre, a parte quella carnagione lievemente ambrata.
Ma c’era qualcosa che la riempì di un’emozione strana, quasi conosciuta, quando lo fissò dritto negli occhi.
Quel taglio netto e corrucciato, così spigoloso, che sembrava guardarla con quella risaputa aria adirata, era ben evidente e pronto a ricordarle di chi fosse figlio.
Gli accarezzò delicatamente i lineamenti, quasi volesse accertarsi che fosse autentico, prima di sillabare flebilmente due dolci parole.
«Benvenuto, Trunks»


***


NdA: Salve a todos! E finisce così questa piccola storiella. Avevo in mente di allungarla, inserire altre scene e altri dettagli. Ma stavo invece pensando (sotto l'utilissimo consiglio della mia adorata Proiezioni_Ottiche) di scrivere tali approfondimenti in un'altra storia collegata a questa. Avrei intenzione di esporre i pensieri di Yamcha  e trattare meglio le vincende successive a quelle che ho scritto qui (riferendomi all'arco temporale che va da quando Bulma sbologna Yamcha, fin quando partorisce). Gradirei sapere cosa ne pensate, se vi piacerebbe leggere qualcosa del genere riferito sempre a questa storia. Un grazie enorme a tutti per la collaborazione e grazie a chi segue e recensisce! A presto!
   
 
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