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Autore: TangerGin    06/02/2014    1 recensioni
I suoi occhi sono del colore dell'asfalto mentre piove e chissà quante volte cadranno le sue ginocchia su quell'asfalto.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo  4
Deserto

 
 
Dovevo capirlo da quella sera, che forse non andavi. Non andavi bene per me.
 
Mi stringo ancora un po’ contro la tappezzeria del sedile di questa Peugeot, ma c’è il tuo fumo che non vuole proprio lasciarmi scampo.
Oltre al tuo fumo, c’è il piede su quell’acceleratore: non voglio credere di avere paura, ma se mi soffermo sulle curve delle ombre del tuo profilo, vedo quelle sopracciglia che mi piacciono tanto aggrottate in un’espressione che non riesco a decifrare, allora sì, un po’ di paura inizio ad averne.
Per fortuna c’è la musica, mi dico, e continuo a canticchiare perché almeno riesco a tenermi stretta in una condizione di realtà che, in questo momento, sembra che mi sfugga tra le dita – così come il tuo fumo che si confonde con le mie note.
Vorrei chiederti se stai bene, ma temo sempre di chiedere troppo, di insistere troppo, di essere sempre troppo, per te. Temo che il mio troppo poi ti stufi, e allora mi lascerai sul ciglio della strada, come i cani abbandonati durante le ferie estive.
Poi ti volti, e quella mano che tieni insistentemente sul cambio decidi di poggiarla sul mio ginocchio piegato, e li sento i tuoi polpastrelli caldi e vedo gli angoli della tua bocca sorridermi allora capisco che posso provare a cedere un po’, adesso.
“Dove andiamo?” sussurro, e spero che il mio tono sia risultato allegro, e che quella vena di preoccupazione non sia scappata a sporcare la frase.
Tu continui a sorridermi, e rispondi solo “Via” e io riesco a vedere solo il deserto, quindi no, devo insistere.
“Silas, via dove? C’è solo deserto, qua. Non voglio fare la guastafeste, ma-“
“Non preoccuparti, fidati” mi interrompi, e vorrei dirti che no, ancora non posso fidarmi, anche se i tuoi baci e le tue parole stanno lentamente convincendomi del contrario. Non dico nulla, ma tu la percepisci la mia ansia – tu sei sempre stato in grado di leggerla, quella mia ansia costante – e dopo l’ennesima carezza sul ginocchio, quella mano la fai scivolare verso la base del collo, e poi mi sfiori piano, piano, col pollice.
Sento ancora quel pollice contro il tendine, che scende poi a tranquillizzare la clavicola, e per fortuna la strada è dritta e puoi concederti di guidare solo con una mano. Te la sei sempre cavata con i tuoi gesti educati nei momenti giusti.
 
Si iniziano a vedere poi delle luci, e allora il mio cuore inizia a riassestarsi su un battito più normale. E “Dove siamo?” ti chiedo, innocente, e tu non lo sai, fai spallucce e rispondi “Dormiamo qua stasera? Ti va?”.
Anche se non mi andasse non ti direi mai di no, con te mi andava sempre tutto e, probabilmente, mi andrebbe bene sempre tutto, ancora oggi.
Ti sorrido con gli occhi e tu capisci che quello è un sì, allora rallenti tra le strade vuote di quella piccola città altrettanto vuota. Sembra l’inizio di un film horror, penso, e te lo dico anche, mentre tu inizi a ridere con quella risata squillante che è solo esclusivamente tua – quella risata la sento ancora, ogni tanto: la ricordo assieme alle tue esse e assieme a tutto quell’altrove che dettava i nostri incontri.
Quando accosti, al lato di quel motel così tipicamente americano da sembrare una cartolina patinata, ti sporgi un po’ per osservarlo meglio e sorridi. Sono stati i tuoi sorrisi ad avermi portata da te, alla fine dei conti. Se non ci fossero stati loro, non ci sarebbero state le tue bugie, le mie illusioni, la tua follia, la nostra fuga, e non ci sarei stata io, sulla porta di casa tua, che vado via.
“Mi piace qua – dici, mentre io un po’ tremo e un po’ alzo gli occhi al cielo – non ci sono posti simili, in Galles” concludi, e “Grazie a dio” rispondo io, perché a me quei motel non piacciono, mi mettono a disagio. Ma dopotutto, pure le feste, pure i long island e pure le sigarette mi mettevano a disagio, prima di te, allora mi stringo ancora un po’ contro quel sedile, come a cercare sicurezza, e mi dico che con te, sì, con te va tutto bene.
 
Scendi e “Aspettami qua” borbotti, e io ti aspetto, mentre mi mangio le unghie. Avevo anche smesso, prima di te.
Poi torni, mi apri la portiera e “Prego, mia regina” dici, tra le risatine, e io alzo ancora una volta gli occhi al cielo. Ma, oramai l’hai capito, anche le tue risatine infantili mi piacevano. Mi piacciono ancora.
Camera 21, piano terra.
La moquette è di un grigio chiaro, e vorrei avere il tempo per chiedermi se quel grigio è il colore naturale oppure è dato dal tempo e dallo sporco, però ci sono le tue mani che corrono più veloci dei miei pensieri lungo le pieghe dei miei vestiti, e poi quei vestiti finiscono su quella moquette assieme ai tuoi, e alla fine ci siamo solo io e te.
Le lenzuola sono verde chiaro, e stonano completamente col colore dei tuoi occhi che si aprono e si chiudono ad un ritmo lento, mentre il tuo torace è ancora accaldato e vorrei che potesse essere il mio cuscino da qui al per sempre. Dio, il per sempre fa paura, lo so, ma so anche di averlo pensato, in quel momento, mentre i tuoi occhi stavano facendo quella danza lenta contro il sonno. Mi sono addormentata tra i brividi e le tue ossa sottili che mi stringevano e ho iniziato a credere davvero che potesse andare bene, così, sempre.
 
Sono già le due del pomeriggio quando mi svegli seguendo con l’indice il profilo del mio naso, puntellato contro la tua clavicola tiepida. “Cosa vuoi fare oggi?” mi chiedi, con la voce bassa che ancora dorme un po’, e vorrei risponderti che mi basta stare con te, ma ancora non ho proprio il coraggio di fartelo sapere.
Alla fine ci ritroviamo di nuovo in macchina, ma è giorno e non c’è quell’ansia pesante che mi provoca sempre il buio, e indossi gli occhiali da sole che tieni sempre nel cruscotto. Sei carino, con gli occhiali da sole.
Ad un certo punto allora inizi a parlarmi. Mi racconti di Mila, e non me ne avevi mai parlato così apertamente, prima. Mi racconti di quanto eri innamorato di lei, delle aspettative di una vita che avresti voluto davvero tanto vivere con lei, del suo tradimento, del suo non ti amo più; e mi dici anche che adesso lei, dopo nemmeno sei mesi, si è sposata, e aspetta un bambino ed ha solo venticinque anni; e mentre mi racconti tutto questo hai la mascella serrata, e non mi guardi mai negli occhi. Forse avrei dovuto capirlo che era tutto un preambolo, era il tuo modo per mettere le mani avanti ma io, stupida, mi sono cullata nell’illusione che quello fossi tu che iniziavi semplicemente a mostrarmi chi eri stato, non quello che avresti ancora voluto essere. Credevo fosse il tuo modo per dimostrarmi che io, invece, andavo bene. Invece quello eri tu che stavi iniziando a dirmi tutto il contrario.
Quando ci fermiamo di nuovo è ormai sera, c’è solo un minimarket e nessun segno di vita nei paraggi, e magari è il momento di iniziare a pensare a dove dormire, ma io sono ancora piena delle tue parole e delle mie sciocche convinzioni. Non ci penso nemmeno a preoccuparmi, perché ormai sto pensando a quel per sempre della sera prima, sto pensando a te che mi spalanchi in due il tuo cuore, sto pensando che tutto questo è perfetto, oh sì, talmente perfetto che quasi mi si spezza il fiato e piango un po’, mentre ti vedo fare benzina e io compro la cena (due pacchetti di patatine, uno di caramelle da dividere, e due birre).
 
Poi ci sono io che decido che è arrivato il mio turno, e ti racconto di Nick. Della mia amicizia con lui, che poi abbiamo fatto diventare amore, e quell’amore mi aveva totalmente saturata fino ad arrivare al punto di scoppiare, e così ho fatto, quando poi lui ha preferito Allison a me. Ti racconto di quando sono scoppiata, e di come mi sono rotta tutta e di quanta fatica ci ho messo a ricucire ogni pezzo, e te lo racconto con leggerezza perché ormai ho solo i paraocchi davanti, e quei tuoi sorrisi mi sembrano dolci, ma adesso che li ricordo bene so che erano solo nervosi. Te lo racconto mentre siamo distesi sulla carrozzeria blu e fredda della tua macchina, e c’è il sole che inizia a tingere tutto di arancione, rosa, giallo e ocra: abbiamo parcheggiato in mezzo a dei cespugli, e non si sente nulla se non qualche rombo di macchine lontane. E non ho paura, perché sono piena, ricolma di illusioni.
Poi smettiamo di parlare, entrambi. E non so a cosa stessi pensando tu, in quel momento (o forse posso solo immaginarmelo, adesso, col senno di poi) mentre stiamo incastrati dentro la tua auto, ma so a cosa stavo pensando io, mentre le mie mani cercavano appiglio tra le tue scapole: allora è proprio vero che i vetri si appannano quando ci si ama troppo, pensavo fosse solo una trovata cinematografica.
Ci sono alla fine io che sorrido contro la tua pelle, e poi inizio a fissarti: lo so che non ti piace, ma lo faccio lo stesso. Forse inconsciamente l’ho fatto perché sapevo che quel momento sarebbe durato poco, che era solo il classico inizio della fine, e non volevo crederci, ma sotto sotto i miei nervi lo sapevano già.
E “Che c’è, dai” mi bisbigli tra i capelli, e ti ci nascondi anche, ma io mi allontano, perché voglio davvero assorbirle, quelle geometrie perfettamente imperfette del tuo viso.
“Ora ti spaccherei la faccia – ti dico, e tu sgrani gli occhi, e poi giri la testa, come fanno i bambini quando non capiscono qualcosa – sì vorrei spaccarti la faccia, ma tipo vorrei proprio infrangerla in infiniti pezzettini e poi conservarla in un fazzoletto.”
E tu strizzi quell’asfalto tra le tue palpebre, adesso dorate dalla luce ormai bassa del sole, e poi quando le riapri mi sembra che luccichino un po’ di più. “E poi, poi cosa faresti di quei pezzettini di me?” sussurri, e tutta quella realtà alla quale tentavo di restare ancorata a forza l’ho lasciata sul sedile nero della tua macchina blu.
“Poi, se mi manchi, posso sempre aprire il fagotto e riassemblarti, piano piano, con l’attesa che cresce, ma la sicurezza che, prima o poi, almeno, rivedrò i tuoi denti, le tue labbra, i tuoi zigomi, il tuo naso, i tuoi occhi, le tue sopracciglia, i tuoi capelli, le tue orecchie. E poi mi sa che ti darei un bacino.” E mentre ti recito lenta i miei pensieri, tocco con le labbra ogni parte di te che avrei davvero voluto conservare sottovuoto.
Perché almeno adesso non mi mancheresti così tanto.
 
Era domenica sera, e alla fine mi sono addormentata con la testa leggera dentro il palmo delle tue mani, e ci ho creduto davvero, in quel dormiveglia, che quella potesse diventare la mia posizione preferita per dormire.

 


 

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Eeeeh boh, sì altro capitolo dal punto di vista di Vera. Poi ci sarà il prossimo dal pov di Silas e poi l'epilogo, così finalmente vi libererete di questa storia ahahahahah
Alla fine cercherò di spiegarvi bene anche il senso, dai. Un po' di spoiler li ho già disseminati in giro, però :)
Bon, torno a dormire SONO UNA VECCHIA, adiosss
xx Gin~
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  ………… Periods suck

 

 
   
 
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