Si sentiva
esausto.
Poggiò la penna con la quale stava compilando i documenti
relativi alla sua
ultima fatica forense, chiuse gli occhi e vi passò sopra una
mano, fino a
stringere la parte superiore del naso fra pollice e indice, nel vano
tentativo
di lenire il mal di testa che lo tormentava da qualche giorno. Aveva
appena
concluso un caso che lo aveva messo a dura prova.
Mai prima
d’ora era stato così felice di perdere
nell’aula di un tribunale. Gli era stata
assegnata la difesa del maggiore O’Connor, un lurido bastardo
che aveva
violentato una ragazzina di 13 anni e l’aveva picchiata
riducendola in fin di
vita. I medici non avevano ancora sciolto la prognosi, ma anche se
fosse
riuscita a sopravvivere, Harm si chiedeva se mai sarebbe stata in grado
di
dimenticare quell’esperienza infernale.
Mai prima
d’ora aveva provato un impulso tanto forte di uccidere
qualcuno con le sue
stesse mani. O’Connor gli dava il voltastomaco. Aveva svolto
il suo dovere di
avvocato per rispetto al regolamento che prevedeva il diritto per
chiunque di
essere difeso, ma desiderava ardentemente vedere quell’essere
disgustoso pagare
fino in fondo per la colpa commessa, senza alcuno sconto.
Sarà perché la
vittima gli ricordava tanto Mattie, con quella cascata di riccioli
ribelli e il
corpo minuto, ma quando la giuria aveva condannato il suo cliente alla
corte
marziale si era sentito davvero sollevato.
Aveva
bisogno di una pausa. Se Mac fosse stata al JAG sarebbe andato da lei
per
invitarla a prendere un caffè insieme, ma tre giorni prima
si era affacciata
alla porta del suo ufficio e gli aveva comunicato che sarebbe andata
per un po’
a trovare Chloe, partendo quello stesso pomeriggio.
“Per
pensare” gli aveva detto.
“Per
rimettere insieme la mia vita” aveva aggiunto con quello
sguardo triste che la
accompagnava da tempo.
Gli ultimi
mesi erano stati come un viaggio sulle montagne russe per lei, con
tanto di doppio
giro della morte. Il Paraguay, l’incontro con Sadik, la
storia con Clay e la
mole di bugie che le aveva regalato, l’endometriosi e la
scoperta della sua
quasi totale incapacità di concepire, una condanna lapidaria
che aveva ricevuto
giusto poche ore prima della festa di addio dell’Ammiraglio
Chegwidden, un uomo
che per lei – e per lo stesso Harm – era stato
molto più di un semplice
superiore. Aveva rappresentato una figura paterna, severa ma giusta
(almeno
nella maggior parte dei casi… diciamo che con Rabb ci era
andato giù pesante,
ma ormai era acqua passata), che li aveva fatti crescere
professionalmente e
come persone. E il suo sostituto era nientemeno che un generale dei
marines che
aveva già incrociato la strada di Mac ai tempi di Okinawa e
in una situazione
alquanto delicata. Dietro la corazza del marine, addestrato alla guerra
e a
sopravvivere nelle situazioni più difficili, si nascondeva
Sarah, una bambina
fragile e insicura, bisognosa, anzi, affamata di affetto. Sofferente di
una
fame atavica di attenzioni, risalente alla sua infanzia e adolescenza
travagliate, che la spingeva continuamente fra le braccia del primo
uomo che le
dimostrasse interesse. Questo suo approccio naturalmente le aveva fatto
inanellare una serie di relazioni disastrose: dal primo marito a John
Farrow,
da Dalton Lowne a Mic Brumby fino a Webb, che rappresentava la
ciliegina sulla
torta. Quest’ultimo, infatti, le aveva fatto piangere la sua
morte – quando in
realtà era vivo e vegeto – e l’aveva
usata come esca, mettendola letteralmente nelle mani di un pericoloso
serial
killer.
Rabb aveva
provato in tutti i modi a stare vicino a Mac, dicendole apertamente di
voler
far parte della sua vita e offrendosi ancora una volta di onorare il
patto
stipulato anni prima di avere un figlio insieme, in qualsiasi modo. Si
era
anche prodigato a cercare informazioni a proposito
dell’endometriosi, ma Mac lo
aveva respinto, per l’ennesima volta.
Quando era venuta a salutarlo tre giorni prima, Harm le
aveva
timidamente chiesto se per caso fosse stato troppo invadente, troppo
protettivo,
poco rispettoso nei suoi confronti, ma lei lo aveva guardato negli
occhi e gli
aveva risposto, quasi sottovoce: “Harm, non sto scappando da
te. Ho solo
bisogno di un po’ di tempo per riprendere in mano la mia
vita.”
“Sei
sicura
che il viaggio non sarà troppo faticoso per te?”
era più forte di lui, si
preoccupava per lei in continuazione.
“No,
ne ho
parlato anche con la mia dottoressa e mi ha confermato che non ci sono
problemi. Il volo non dura molto e il viaggio in auto ancora meno,
quindi stai
sereno.”
“Mi
chiami
appena arrivi?” le aveva chiesto di getto, pentendosi subito
dopo per essere
entrato di nuovo in modalità protettiva.
“Sissignore.”
Gli aveva risposto lei, con un sorriso, senza mai togliere gli occhi
dai suoi.
Poi aveva sollevato una mano, con l’intenzione di
accarezzargli il volto, ma si
era ricordata improvvisamente che erano in ufficio, così il
gesto era rimasto a
mezzaria. Aveva chiuso la mano e se l’era portata alla bocca,
abbassando lo
sguardo e rimanendo a fissare con grande attenzione le proprie scarpe,
per
l’ennesimo episodio imbarazzante del loro strano rapporto.
Alla fine si erano
salutati e da quel momento era sparita. Lui era stato trattenuto in
ufficio per
il maledetto caso O’Connor, così che la sera,
rientrando al loft a un’ora
improponibile, aveva trovato un messaggio di Mac nella sua segreteria
telefonica in cui lo informava di essere arrivata sana e salva a
destinazione e
gli lasciava il numero della casa dei nonni di Chloe, visto che in
quella zona
il cellulare non prendeva bene.
In quei
giorni era stato tentato più di una volta di chiamarla per
sentire come se la
stesse passando, ma si era sempre trattenuto dal farlo.
Gli aveva
chiesto tempo e spazio e lui si stava sforzando di rispettare la sua
volontà.
Anche se gli
mancava terribilmente.
Anche se era
preoccupato per lei.
Anche se
avrebbe voluto averla vicina per prendersi cura di lei.
Si
alzò
dalla sedia e si avviò verso la cucina, con
l’intenzione di farsi un caffè per ritrovare
la concentrazione e terminare le scartoffie che affollavano la sua
scrivania. Non
vedeva l’ora di chiudere quel caso per potersi riposare nel
fine settimana.
Certo, se Mac fosse stata in città le avrebbe proposto di
mangiare qualcosa
insieme e di vedere un film. In mancanza di meglio, ne avrebbe
approfittato per
recuperare le ore di sonno perse e magari fare volare la sua Sarah.
“L’aereo o
il marine?” si chiese mentalmente. Poi scosse la testa, quasi
a volersi
rimproverare per quel pensiero audace. Rinfrancato dalla caffeina
appena
entrata in circolo, Rabb concluse velocemente le pratiche e si
avviò verso
casa. Aveva chiesto a Creswell di potersi allontanare
dall’ufficio al termine
della mattinata, visto che nei giorni precedenti si era trattenuto ben
oltre l’orario
di lavoro, e il suo superiore gli aveva concesso il pomeriggio libero.
Giunto a Union
Station, la mancanza di Mac si fece sentire ancora di più.
Il pensiero di lei e
di quello sguardo, che gli aveva rivolto quando si erano salutati pochi
giorni
prima, gli intossicavano il cervello. Si cambiò velocemente,
indossando un paio
di jeans e una camicia, preparò una borsa con un cambio e si
mise alla guida
della sua Corvette fiammante.
Aveva
bisogno di sapere come stava Mac.
Aveva
bisogno di Sarah.
Nota
dell’autrice
Torno a scrivere
dopo un periodo un
po’ impegnativo, nel quale sono stata lontana da EFP, e lo
faccio con una
storia su JAG. La mia prima storia in questa sezione di cui sono
autrice… che
emozione!
Questo racconto
è dedicato al mio
angelo custode che, nel suddetto periodo, mi è stata vicina
nonostante la
distanza (lo so che pare un ossimoro, ma lei capirà),
sostenendomi e
sopportandomi con affetto e dosi infinite di pazienza. Un vero dono del
cielo!
Grazie a lei in
primis e grazie a chi
di voi mi ha dedicato il proprio tempo ed è arrivato fino
qui.
Al prossimo
capitolo!
Deb