Quello
fu il giorno più lungo della mia vita.
Incaricai
gli schiavi di preparare una portantina e un baule con i miei oggetti.
Cose
inutili che non avrei mai usato, per salvare un’apparenza che
non esisteva.
Mia
madre era sepolta nelle sue stanze e piangeva. Cercavo di consolarla,
ma lungi
dal rassicurarmi, quella scena mi deprimeva ancora di più,
così rinunciai e mi
rifugiai nel giardino, nel mio padiglione personale, assieme a un libro.
Era
il mio preferito: un libro di fiabe di quando ero piccola. Ero
cresciuta
sognando di essere una delle eroine che lo popolavano. Il volume era un
tipo
raro, con una copertina splendidamente rilegata e preziose miniature al
suo
interno.
Se
solo avessi potuto addormentare il re con una fiaba e non farlo
svegliare che
la notte seguente… Sorrisi tristemente. La realtà
era molto diversa dalle
favole, e io stavo per impararlo a mie spese.
La
sera seguente non piansi, quando salutai la mia famiglia. Abbracciai
mia madre,
mio padre, mio fratello e sua moglie, le mie schiave personali; ma non
versai
una lacrima. Volevo mostrarmi coraggiosa e serena di fronte al mio
destino, ma
dentro di me ero terrorizzata.
Nella
portantina scostai le tende quando avvistammo il palazzo reale, per
vederlo
meglio. Era splendido e maestoso, come ogni volta che ci passavo
davanti. Buffo
come le cose fossero cambiate: allora avrei dato chissà cosa
pur di dare
un’occhiata al suo interno. Ora avrei preferito mille volte
non mettervi mai
piede in tutta la mia vita.
Di
ciò che successe in seguito non ricordo granché.
Arrivata, fui truccata e
profumata dalle schiave assegnatemi, che mi vestirono con un sontuoso
abito e
mi velarono con stoffe pregiatissime. Quasi non mi guardai allo
specchio.
Dopodiché
mi portarono in una grande sala, sfarzosamente addobbata come tutto il
resto.
Com’era possibile che il re vivesse in un tale lusso, quando
per le strade la
gente moriva di fame e miseria?
Le
porte dorate in fondo alla sala si spalancarono e il re fece il suo
ingresso.
Non alzai gli occhi per guardare il mio carnefice. Ci inginocchiammo su
un
tappeto davanti all’imam, che cominciò a leggere
un brano del Corano. Non
ascoltai nemmeno una parola. Mi sentivo troppo vuota perfino per
pregare.
Infine,
l’imam posò le mani sulle nostre teste e
proclamò: «In questo giorno Dio unisce
queste due anime in una sola. Che ciò rimanga tale
finché morte non vi separi».
Finché
morte non vi separi. Ero talmente vicina a una crisi
isterica che quasi mi
lasciai sfuggire una risatina. Riuscii a mordermi la lingua e a
rimanere zitta.
Naturalmente l’imam era a conoscenza del fatto che il re
sarebbe rimasto vedovo
il giorno dopo: chissà quante volte aveva ripetuto quelle
stesse parole nella
stessa sala. Perfino lo sposo era lo stesso. L’unica cosa che
cambiava era la
sposa. Io.
La
cerimonia era finita e il re se ne andò. Non ci eravamo
detti una parola. Non
ci eravamo scambiati uno sguardo. A parte l’imam e gli
schiavi, la sala era
deserta. Questo non fece che acuire la mia aridità interiore.
Mi
fu concesso di andarmene dove mi pareva, a patto che restassi
all’interno del
palazzo. Scelsi di rifugiarmi sulla terrazza più alta, da
dove potevo vedere la
luce soffusa del tramonto bagnare d’oro la città e
far scintillare di bagliori
aurei la cupola della moschea.
Non
avrei mai più visto uno spettacolo simile. Mi restava una
notte; dopodiché
sarei stata cancellata. E la stessa cosa si sarebbe ripetuta a
centinaia di
ragazze dopo di me.
Ormai
ero praticamente riuscita ad accettare ciò che mi sarebbe
accaduto. Ero in pace
con me stessa; di quel poco che avevo vissuto, non rimpiangevo nulla.
Ma
come potevo permettere che altre giovani ragazze facessero la mia
stessa fine?
Dovevo cercare d’impedirlo. Dovevo parlare con il re, farlo
desistere da quella
follia malvagia e insensata.
Ma
le parole di Maryam continuavano a farsi strada nel mio cervello. Questi
anni di omicidi lo hanno trasformato, rendendo il suo cuore crudele e
insensibile alla pietà. Non è molto incline ad
accettare consigli…
Mi
sarei inventata qualcosa, allora. Ma in un modo o nell’altro
questa disumana
tradizione doveva cessare.
Appena
la sera era scesa, le schiave mi erano venute a cercare e mi avevano
preparato
per la notte. Poi mi avevano lasciata sola, dicendomi che probabilmente
il re
sarebbe tornato nelle sue stanze solo molto tardi, essendo abituato ad
intrattenersi con amici e ballerine tutta la sera. Così
attendevo, tormentando
l’orlo della vestaglia di seta, che il re Shariyar rientrasse
nei suoi – nostri
– appartamenti.
Ma
non potevo evitare che orribili pensieri mi attraversassero fulminei la
testa.
E se fosse ubriaco? E se fosse violento? E se…
No,
mi rimproverai con fermezza. Non cederò allo
sconforto. Continuerò a essere
ottimista.
Mentre
continuavo a incoraggiarmi mentalmente, sentii la porta cigolare. Mi
irrigidii
automaticamente e tutta la preparazione precedente andò in
fumo.
Il
re Shariyar fece ingresso nella stanza, accompagnato dal suo
immancabile
seguito: chi gli portava un bicchiere di cristallo pieno di succo di
tamarindo,
chi gli faceva aria con piume di struzzo, che gli apriva le porte e
toglieva di
mezzo qualsiasi ostacolo sul suo regale percorso. Non potei fare a meno
di
guardarli a metà tra il divertito e il compassionevole.
Probabilmente
lui dovette cogliere il mio sguardo, perché
ordinò: «Andate».
Immediatamente
loro si dileguarono, chiudendo silenziosamente le porte.
Mi
lanciò una brevissima occhiata, che però
bastò a farmi sentire attraversata da
parte a parte. Non abbassai lo sguardo, anzi ricambiai fissandolo
apertamente.
Visto che mi rimaneva una notte di vita, i falsi pudori erano
perfettamente
inutili. Lui distolse lo sguardo e sembrò non degnarmi
più della sua
attenzione.
Di
nuovo mi stupì la sua giovane età. Era alto e
forte, con un bel viso fiero; la
mascella squadrata era ombreggiata da una corta barba, e i lunghi
capelli neri,
che cercava continuamente di scacciare agitando la testa, gli
ricadevano
immancabilmente sugli occhi e sulle spalle. I suoi occhi erano strani.
Neri e
scintillanti, sarebbero potuti facilmente sembrare minacciosi, ma
l’unica cosa
che mi aveva fatto scorrere un brivido giù per la schiena,
quando li avevo
fissati, era il fuoco che ardeva in essi. Non era affatto quello che mi
sarei
aspettata. Nel giardino di casa mia non l’avevo guardato
granché, e comunque mi
aveva dato un’impressione totalmente diversa, con le sue
vesti sontuose e il
seguito sorprendente dietro. Qui sembrava semplicemente… un
uomo. Certo, il
portamento regale si faceva vedere in ogni suo gesto, ma non era
più così
sconcertante. E mai, mai avrei detto che dietro quel viso si
nascondessero le
efferatezze di cui mi aveva narrato Maryam.
Poi
lui parlò all’improvviso, tanto da farmi
sobbalzare. «Non ami la compagnia
delle schiave?». Non mi stava guardando. Si stava cambiando;
mi stupii che lo
facesse da solo.
«Penso
che abbiano di meglio da fare che assistermi quando non faccio niente.
Non
risulta utile né a me né a loro».
Cercai di mantenere un tono di voce basso ed
educato.
«Perciò
trovi superflua la quantità di schiavi che si occupano di
me». Non era una
domanda, perciò preferii non rispondere, anche se in cuor
mio ero d’accordo con
lui.
Finalmente
indossò la vestaglia – molto più ricca
e lussuosa della mia – e si accomodò sul
letto, non troppo vicino a me, guardandomi.
«Sharazad,
la figlia del mio gran visir Hussein ibn Rashid» disse,
sorprendendomi. Non mi
ero aspettata che sapesse chi fossi. Ormai doveva aver perso il conto
di tutte
le giovani mogli che aveva avuto.
«Al
ricevimento nella tua casa non ho potuto osservarti bene. Ma vedo che
sei
ancora più bella di come ricordavo». Mentre
parlava s’incupì. Probabilmente
pensava alla perfidia che secondo lui nascondevo.
Feci
uno sforzo per celare l’irritazione e risposi: «Il
mio signore mi onora. Non
pretendo di essere migliore di qualunque ragazza del vostro
regno».
«Sciocchezze».
Liquidò la mia frase con una mano. «So bene quanto
voi donne siate vanitose e
avide di lodi. Oggi ti sei trovata bene nel mio palazzo? Ti hanno fatto
mancare
nulla?».
«Al
contrario, mio signore, vi ringrazio» risposi, dissimulando
il risentimento.
«Penso anzi che ci siano talmente tante ricchezze in questo
palazzo che sarebbe
difficile che manchi qualcosa, anche se tutta la popolazione del regno
vi
abitasse».
«Parli
come se non fossi cresciuta in un palazzo anche tu» disse,
sarcastico.
«È
vero che la mia famiglia è ricca, ma non abbiamo mai vissuto
in eccessi di
lusso. Mio padre ha pochi schiavi e molto del suo denaro lo
distribuisce ai
poveri». Mi pentii di aver tirato fuori quel discorso.
Sembrava che stessi
facendo una ramanzina al re. E poi parlare di mio padre mi faceva male.
Lui
però sembrava interessato. «Ma non pensi che
essendo il re questo lusso mi
spetti di diritto?».
Alzai
le spalle. «Non saprei» risposi. «Voi
siete un sovrano nobile e giusto e
sicuramente le vostre ricchezze sono la ricompensa di Dio ai vostri
meriti».
Le
lusinghe fecero effetto, perché sorrise compiaciuto.
Io
però non avevo finito. «Ma credo che
finché ogni lanterna in ciascuna casa non
si trasformerà nella lampada di Aladino, sia meglio non
sprecare le proprie
ricchezze ma usarle per migliorare la vita dei propri
sudditi».
Il
re Shariyar aggrottò la fronte. «La lampada di
Aladino? E cosa sarebbe?».
«Non
conoscete la storia di Aladino e della lampada incantata?»
chiesi, sinceramente
stupita.
«No»
rispose. «È una storia interessante?».
«Certamente»
dissi sorridendo. «È una storia magica e
meravigliosa».
«Allora
raccontamela» propose, e si mise comodo. E fu allora che mi
venne in mente
un’idea, che forse era folle, ma proprio per la sua follia
poteva funzionare.
«Come
desidera il mio signore». E cominciai a raccontare.
Un
toc-toc leggero alla porta ci fece sobbalzare e
l’atmosfera di magia che
regnava si ruppe. Io tacqui a metà di una frase, sentendo
brividi gelidi
corrermi giù per la schiena.
Il
re sbuffò, irritato. «Avanti»
gridò.
La
porta si dischiuse lentamente e un servo fece capolino.
«Vostra Maestà»
balbettò «il… Razoul è
pronto». Chiamalo pure con il suo nome: il boia,
pensai sprezzante. Lui mi lanciò nervosamente
un’occhiata, quasi avesse intuito
i miei pensieri, poi si rivolse di nuovo al re. «Cosa devo
dirgli?».
Quasi
tremavo, mentre aspettavo la risposta del re Shariyar. Sarebbe bastata
la
curiosità a farmi graziare per quel giorno?
Lui
sembrava indeciso. Guardò prima il servo e poi me.
«Non…
Puoi finire la tua storia?» mi chiese, con voce stranamente
gentile.
«Mi
dispiace, mio signore» risposi dolcemente. «Manca
ancora molto alla fine e
sicuramente voi avete molti impegni questa mattina. Inoltre non credete
che sia
la notte il momento migliore per narrare di spiriti e magia?».
Mi
fissò per un attimo, soppesando le mie parole. Poi, quasi a
malincuore, si
rivolse al servo, che attendeva nervosamente sulla porta.
«Digli
di rimandare a domattina».
Tuttavia,
non lo fece.
Una
sera, come al solito, si accomodò accanto a me sul letto
mentre finivo di
raccontare la storia di quella notte. Ormai aveva abbandonato le
formalità e il
contatto fra di noi avveniva sempre più spesso.
Così il modo in cui si stese
vicino a me e mi circondò la vita con il braccio era
assolutamente normale. Per
lui.
Perché
naturalmente il mio cuore testardo e capriccioso aveva compiuto
l’unica cosa
che gli avevo proibito di fare, costringendomi a soffrire sempre di
più, notte
dopo notte.
Mi
ero innamorata del mio carnefice.
Come
non farlo, dopo aver visto la sua espressione affascinata, senza
traccia di
ferocia, quegli occhi non più minacciosi ma sinceri e
curiosi, che correvano
assorti sul mio viso? Come non desiderare che il braccio forte ma
gentile mi
avvolgesse nel suo abbraccio ogni notte?
E
così soffrivo, scorgendo sul suo viso l’interesse
solo per le mie storie, e mai
per me. Era un pensiero stupido: lui era il re, poteva avere tutte le
donne che
voleva e sicuramente ne aveva già un numero illimitato a
disposizione. Perché
avrebbe dovuto voler stare con me?
Quella
notte incassai in silenzio i brividi che il contatto con lui mi dava e,
finito
il racconto, mi accinsi a iniziare un’altra storia.
Ma
prima che potessi emettere un solo suono lui mi posò un dito
sulle labbra.
«Sharazad»
sussurrò. «Aspetta».
Mi
irrigidii e lo guardai interrogativa.
«Devo
dirti una cosa» rispose al mio sguardo muto.
«Grazie per le tue bellissime
storie. Hai reso tutte queste notti le più speciali che
abbia mai vissuto. Ora
però non ne ho più bisogno».
Lo
sapevo. Sapevo che quel momento sarebbe arrivato, prima o poi. Non
potevo
continuare a incantarlo per sempre…
«Vedi»
proseguì, «dopo tutto questo tempo ho finalmente
capito una cosa».
E
infatti mi stupivo che non mi avesse interrotta prima. Sentivo
già la lama
fredda del boia a contatto con la mia gola. Abbassai gli occhi per non
fargli
vedere le lacrime che brillavano fra le ciglia.
Uccisa
dall’uomo che amavo. Poteva esserci destino più
crudele?
Sentivo
la sua voce lontanissima. Però il tono non era quello
giusto: invece di essere
adirato, sembrava stranamente gentile. Che volesse addolcire i miei
ultimi
istanti di vita?
«Sharazad,
tu mi hai cambiato. Prima di incontrarti ero crudele ed egoista, e
pensavo che
tutte le donne che incontravo meritassero di essere punite per la mia
sofferenza. Ho compiuto tre anni di delitti e questo non ha fatto che
accrescere l’odio nel mio cuore. Ma tu, attraverso la tua
innocenza, la tua
dolcezza, mi hai fatto comprendere il mio errore. Capirò se
sarai disgustata
dalle atrocità che ho commesso e se vuoi ti
lascerò tornare alla casa di tuo
padre».
Alzai
lo sguardo incredula. Avevo sentito male? Stavo sognando? Ma il suo
viso era
così vicino, gli occhi così pieni di calore. Non
mi guardava come se mi stesse
prendendo in giro. Mi guardava… come se mi amasse.
«Sharazad»
soggiunse «vuoi restare ed essere la mia unica
regina?».
Unica
regina?
Come
al solito indovinò ciò che mi passava per la
testa.
«Se
ci sei tu accanto a me» mormorò «non ho
bisogno di nessun’altra».
Non
sapevo cosa dire. Sperai che il mio sguardo bastasse e semplicemente
annuii.
Lui
dovette capire, perché avvicinò raggiante il suo
viso al mio e i nostri cuori
si fusero, mentre fuori il sole sorgeva su un nuovo giorno.
Sono passati anni da quella notte in cui cominciai a raccontare tutte le favole che amavo di più al mio re. Ciò che è successo si è propagato oltre le mura del palazzo come quando si getta un sasso in un lago. Ma prima o poi qualsiasi onda si calma: così è avvenuto alle dicerie e ai pettegolezzi. Dicono che abbia tenuto in scacco il re per mille e una notte… naturalmente non è così. Però ho perso il conto di quelle notti sussurrate a lume di candela. Oggi, della storia delle mie narrazioni al re, è rimasta solo la leggenda sfumata, la pallida ombra della realtà. Ma la verità è come quel sasso in fondo al lago: che si veda o no, c’è sempre. E solo io la possiedo.