Sulle prime, non vidi solo un ritmico movimento. Poi,
un masso. Anzi, no. Una gonna. Una gonna nera. Una gonna nera aperta sull’erba
umida. Un busto crebbe sulla gonna. Delle spalle. Una testa.
E tutt’intorno si aprì un fiume. Il fiume. soltanto
respirandone l’odore l’avevo riconosciuto. Il fiume, la mia tomba. I pesci, i
miei arcangeli. L’erba, i miei dolci fiori.
Le colline circondavano brulle e silenziose la scena.
La donna stava lavando i panni. Immergeva immensi lenzuoli grigiastri, li
sbatteva sulla pietra, li strizzava e li lasciava fluire nelle correnti
acquatiche. Sparsi, tra i lenzuoli, neonati dall’aspetto corrucciato. Una
bambina di due o tre anni, con un lungo vestitino a pizzi bianco, vegliava la
scena seduta su una pila di lenzuola. Altri neonati, nudi, emergevano qua e là.
La donna pareva non curarsene minimamente. Continuava a lavare imperterrita.
-Cosa sta facendo?- domandai stupidamente.
Quella si girò, rivelando il suo volto. Aveva una
bocca piccola e serrata, un naso insignificante e capelli trattenuti da una
retina. Non aveva occhi.
-Lavo.- la voce era atona, indifferente.
Se avesse avuto pupille, il suo sguardo sarebbe stato
vacuo e neutrale. Il gelo mi avvolse sempre di più.
Lei si girò, e continuò a sbattere i panni.
Ad un certo punto, appena fluita l’ultima coperta
nella corrente, afferrò un bambino. Lo tirò su e lo immerse nell’acqua, percuotendolo
sulle rocce.
-Ferma! Ferma, oh dio cosa sta facendo?- corsi verso
di lei, scioccata e incredula, nel tentativo di salvare il neonato. Lei si girò
nuovamente, e con un gesto brusco dell’altra mano mi spedì riversa a terra.
Riprese a lavare il bambino, sempre inerte e
silenzioso, che emetteva a intervalli piccoli colpi di tosse. Infine, lo gettò
nel fiume, come aveva fatto per le lenzuola.
-Li ucciderai! Morirà! I tuoi bambini moriranno
affogati!- gridai.
Stavolta non si diede nemmeno il disturbo di voltarsi.
Intonò, con voce monotona:
-Farò come ho sempre fatto. Sono nel giusto. Avrò la
mia ricompensa.-
Non parlai nuovamente né tentai di salvare gli altri
bambini che immerse esattamente come il primo. Uno dopo l’altro, vennero
portati via dalla corrente. A compito svolto, la donna si alzò e mi rivolse un
cenno.
-Adesso ho finito. Vado a ricevere la mia ricompensa.
Ho agito nel giusto. –
Detto ciò, cadde nel fiume, e la sua gonna restò a
galleggiare come un enorme fungo nero e malefico, per poi sprofondare senza
seguire il tragitto preso dai neonati.
In principio, non seppi cosa pensare. La macabra e
bizzarra scena mi aveva lasciata sbigottita. Non osai neppure rialzarmi, per
qualche tempo. Restai lì, lasciando che la corrente umida mi scompigliasse i
capelli. Fissavo il fiume, inutilmente. Cominciai quasi a scorgere la mia
figura gettarsi e ricordarmi del mio volto, quando un’idea si fece strada in
me.
Arrivata alla riva, sporsi la testa sull’acqua
corrente, sperando di scorgere anche solo un barlume del mio volto. Ma, nulla,
se non un tremolio di un’oscura figura. Una lunga ciocca di capelli mi cadde
sugli occhi. Era… era ispida. Di una consistenza spessa ma tagliente. Quasi, un
tralcio di vite. Forse, era davvero un tralcio. O erba. O edera. O un
rampicante. I miei capelli avevano assunto una consistenza arborea.
In quel quadro surreale e curioso, di nuovo tornavo
ad essere semplicemente una figura di sfondo, un misero e abbandonato pedone.
Mano a mano che mi incamminavo sopra il ponte, il mio
corpo si fondeva con il paesaggio. Diventai un alito di vento, un gorgoglio sommesso,
erba e cielo. Perfettamente inserita come un tassello di un mosaico.
La strada di terra portava ad un grande spiazzo,
piuttosto vasto, snodandosi in bivi uguali in modo inquietante. Sospirai,
incapace di prendere una valida scelta, e aleggiai lì intorno borbottando fra
me e me.
Poche cose mi erano ancora chiare sugli eventi.
Ricordavo un numero determinato di cose. Ricordavo
volti di altre persone, senza necessariamente collocarli al posto giusto.
Ricordavo eventi della mia infanzia, la nonna, il salto nel buio con le due
persone più importanti della mia vita.
Ero morta. Questo lo sapevo di certo, lo sapevo fin
dal momento in cui mi sono alzata nella stanza con l’altare. ero morta, senza
riserve, ero morta, la mia vita era stata spezzata nell’istante in cui la luce
è scomparsa, la luce normale, il lume
della vita e della ragione.
C’erano altre persone, come me, o forse no, forse
erano come la lavandaia, folli figure della mia mente, creta del mio pensiero.
Tutto ciò… era il paradiso….l’inferno… il purgatorio…
o qualcosa che semplicemente andava al di là di tutto questo? Qualcosa che
forse dipendeva solamente da me...
Ed io? Io potevo essere considerata tale, in quanto
priva di un’identità, bambina ed albero, umana e natura? Potevo forse ricostruire
il mio passato essere? E se anche fosse accaduto, sarei stata libera di cadere
fra le braccia dei miei angeli o di scivolare nelle pacifiche oscurità?
Eternità, mia dolce. Eternità, fanciullina mia.
Quella voce ruppe il silenzio.