Fanfic su artisti musicali > 30 Seconds to Mars
Segui la storia  |       
Autore: Franfiction6277    25/06/2014    6 recensioni
Fanfiction Alternate Universe con protagonisti i 30 Seconds to Mars in un ospedale psichiatrico e una bizzarra paziente che cambia nome ogni giorno.
“C’è qualcosa di inquietante in quella ragazza, è come se fosse il guscio vuoto di una persona”.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Shannon Leto, Tomo Miličević
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

                              Just a shell of what I dreamed



Penso che fossero appena passate le sei del mattino, quando lo vidi per la prima volta. Sì, ne ero certa. Ne ero certa perché avevano appena iniziato a portare le medicine, e Molly l’Invasata, come la chiamavo io, stava già pregustando la sua doppia razione di medicine spappola-cervello, come aveva richiesto un paio di giorni prima, ma non sapeva che le sue non erano vere e proprie medicine: erano qualcosa di molto simile alle Tic-Tac; impressionante come il nostro cervello si senta rassicurato e così anche il resto del nostro corpo.
Quando avevo chiesto del placebo al mio psichiatra personale, lui mi aveva semplicemente risposto che Molly era in uno stato terminale e che non aveva senso imbottirla di sedativi… ma quella non era la mia domanda.
Non ero particolarmente interessata a Molly a o qualsiasi altro paziente del Mental Health Hospital di Los Angeles, ma amavo osservarli tutti: ne conoscevo nomi, routine e comportamenti.
Il tipo misterioso, era impossibile non notarlo: indossava una canottiera nera aperta ai lati, che lasciava intravedere parecchi tatuaggi che non riuscivo minimamente a decifrare. Di certo non era una di quelle persone banali che si tatuano solo il simbolo dell’infinito, stelline o cuoricini: i suoi tatuaggi erano complessi, intricati, specialmente quello che aveva sul bicipite sinistro.
Come prima cosa, vedendolo entrare dalla porta aperta solo dall’esterno, notai che era senza dubbio un maschio alfa, con una di quelle aure virili che ti investono con prepotenza, quasi a farti comprendere immediatamente quale ruolo avesse nel mondo.
Non si girò nemmeno a guardare i vari pazienti seduti ai tavolini da colazione, sembrava avere una certa urgenza mentre si dirigeva a passi veloci verso il corridoio che portava agli uffici dei vari medici che seguivano i pazienti passo dopo passo nell’avanzamento della loro malattia.
Il Mental Health Hospital non si curava di guarire i propri pazienti, ma di capire piuttosto in che modo funzionasse il cervello umano e trovare un modo per prevenire gli esaurimenti nervosi, piuttosto che curarli; insomma, in breve eravamo delle cavie da laboratorio.
In quel momento, ragionando sulla mia condizione mentale, non riuscii a trovare una spiegazione logica sul motivo per cui mi trovassi in quella sottospecie di manicomio; ricordavo che semplicemente, a un certo punto, i miei genitori dissero che avrei dovuto farmi curare. Per cosa, vi chiederete? Beh, la mia diagnosi risultava una visione completamente diversa del mondo, e talvolta questo poteva recare danni a me stessa e agli altri.
Mi alzai dal mio posto, sistemai la mia lunga treccia in modo che cadesse su una spalla e seguii furtivamente il tipo misterioso e incredibilmente sexy (sì, in genere non mi andava di fare commenti superficiali) senza farmi notare. Alle 6 del mattino il corridoio era deserto, i dottori arrivavano sempre alle 8… tranne uno. Improvvisamente capii che l’uomo misterioso era venuto per il mio psichiatra personale.
Come avevo predetto, l’uomo si fermò proprio di fronte allo studio che immaginavo e bussò una volta sola, quasi non fosse entusiasta all’idea di trovarsi lì.
Guardò un attimo verso la mia direzione, ma io ero nascosta tra il corridoio che portava alle stanze dei pazienti e quello degli uffici dei dottori.
“Avanti” sentii dire da una voce familiare, terribilmente familiare.
L’uomo entrò e chiuse la porta dietro di sé, tagliandomi fuori.
Mi avvicinai a grandi passi verso la porta, intenzionata a origliare.
Non ero una persona che si faceva gli affari altrui, ma stavolta sentivo che c’era qualcosa di speciale, qualcosa che mi doveva portare a seguire la vicenda da vicino.
E poi non volevo che al mio psichiatra succedesse qualcosa, in fondo ero affezionata a quella strana creatura… strana anche secondo il mio concetto di “strano”.
“Sai di non avere altre possibilità, Shannon” disse il mio psichiatra. Ah, l’uomo misterioso si chiamava Shannon.
“Senti, non ce la faccio a passare dai demolition derby a questo. Per me è troppo” rispose Shannon, con una voce roca, decisamente da fumatore.
La mia bocca si inaridì improvvisamente, e inghiottii a vuoto, mentre delle sensazioni sconosciute si agitavano dentro di me. Avevo forse bisogno di qualche medicina extra? O di una seduta extra con lo psichiatra che non aveva la minima idea del mio origliare? Cosa diavolo mi stava succedendo?
“Lo so, ma cos’altro puoi fare? Non abbiamo abbastanza soldi, lo stipendio mi basta a malapena per mantenerci entrambi” disse il mio psichiatra.
“Non dovresti essere qui” esclamò qualcuno al mio fianco, con voce dura.
Trasalii, portandomi una mano alla bocca per non urlare per lo spavento.
“Tomo, dannazione a te” sbottai, pestando un piede per terra come una bambina a cui avevano tolto il suo giocattolo preferito.
“Stai zitto” continuai, indicando la porta chiusa.
“Come ti chiami oggi?” sbuffò il giovane infermiere del Mental Health Hospital e forse l’unico amico che avevo lì dentro.
“Christine” risposi distrattamente, cercando di ascoltare la conversazione che stava avvenendo oltre la porta chiusa.
“Christine” ripeté Tomo, sovrappensiero, come se stesse cercando di capire perché quel giorno avessi scelto quel nome. Non lo sapevo nemmeno io, francamente.
“Lo sai che se accetto, tratterò di merda tutti i pazienti, vero?” sentii dire a Shannon.
Sgranai gli occhi, pensando che qualcuno di maleducato avrebbe potuto smuovere l’apparente monotonia di quel manicomio. Molto interessante, non ero assolutamente spaventata all’idea che qualcuno mi trattasse male.
“Tu hai mai il desiderio di trattare di merda i pazienti?” chiesi a Tomo, guardandolo intensamente. Lui arrossì, schiarendosi la voce.
“No, direi di no” rispose, ma non aggiunse altro.
“D’accordo, accetto, ma sappi che la cosa non mi piace per niente” disse Shannon, e sentii il mio psichiatra sospirare con rassegnazione.
Appena sentimmo dei passi avvicinarsi alla porta, io e Tomo sobbalzammo; lo presi per il braccio e lo trascinai nell’angolo nascosto più vicino.
Shannon aprì la porta di scatto e camminò a grandi passi vicino a noi.
Si girò di scatto, forse sentendo il respiro di uno di noi, e mi guardò con espressione vuota che ad un tratto si accese di un flebile interesse, forse vedendo il mio sguardo da ebete. Tutto a un tratto realizzai che, nella foga della corsa, io e Tomo eravamo avvinghiati come se stessimo avendo qualche tresca.
Shannon guardò brevemente Tomo e sentii le mie guance arrossarsi, cosa che non mi era mai successa in tutta la mia miserabile vita.
Aveva gli occhi verdi, o dorati, o castani… stavo andando fuori di testa.
Ci sorrise come se avesse capito qualcosa che a noi sfuggiva e si diresse a grandi passi verso lo spogliatoio degli infermieri.
“Tomo, mi stai schiacciando una tetta col tuo braccio” sibilai, e lui si staccò di scatto da me, come se avessi preso improvvisamente fuoco.
“Ci vediamo dopo… Christine” disse lui, camminando verso lo spogliatoio degli infermieri e scuotendo la testa in continuazione, come se avesse qualche tic nervoso.
“Stavi ascoltando, non è così?” disse il mio psichiatra, appoggiandosi con nonchalance al muro vicino a me.
“Sì” risposi con la stessa disinvoltura, incrociando le braccia al petto in un gesto di sfida.
Lui sospirò e mi fece segno di entrare nel suo ufficio, senza dubbio per farmi un bel lavaggio del cervello mattutino; non vedevo l’ora.
Mi sedetti sulla solita chaise longue, con la schiena rivolta verso la scrivania del buon dottore, mentre lo sentivo prendere il registratore e sedersi.
“Dottor Jared Leto, psichiatra del Mental Health Hospital di Los Angeles, California. Sessione numero 6277 della paziente…”
Smisi di ascoltare in quel momento, il mio nome di battesimo non aveva importanza.
“Come ti chiami, oggi?” chiese il dottor Leto.
“Christine” risposi come avevo fatto prima con Tomo.
“Perché Christine?” chiese con tutta calma il mio psichiatra. La sua voce era così
bella, tanto per scherzare gli dicevo sempre che, se gli andava, poteva cantarmi una ninna nanna ogni notte; non mi sarebbe dispiaciuto affatto.
“Christine?” chiese il dottore, impaziente.
Improvvisamente mi ricordai perché quel giorno mi chiamassi Christine.
“C’è una canzone dei KISS, si intitola Christine Sixteen” risposi.
“Sai che non ti è permesso ascoltare musica qui dentro, vero?” chiese il dottor Leto, sarcastico.
“Lo so, ma Tomo è così fissato con la musica che mi infila le sue cuffiette a forza, ormai” ribattei, facendo spallucce.
“Chi è Tomo?” chiese sorpreso il mio psichiatra.
“Un infermiere” risposi pensando a quel bizzarro ragazzo dai capelli lunghi e neri, che era l’unico a calmarmi, dentro quella gabbia di matti.
“E che rapporti hai con Tomo?” continuò con insistenza Jared… un po’ troppa insistenza.
Mi alzai dalla chaise longue e mi girai a guardarlo in faccia: i suoi lunghissimi capelli ondulati e la barba incolta lo facevano sembrare un Gesù Cristo raffinato, in netto contrasto con il camice bianco immacolato che portava tutti i giorni.
Lui sostenne il mio sguardo, gli occhi azzurri che brillavano come fuoco immerso nel ghiaccio.
Lui non abbassava mai lo sguardo. MAI. Eri sempre tu ad avere la sensazione di essere studiata nel profondo e inevitabilmente abbassavi lo sguardo. Capivo perché fosse diventato uno psichiatra: vedeva cose che agli altri sfuggivano, ma non capii mai cosa ci facesse in quel buco di manicomio dimenticato da Dio.
Mi sedetti comodamente su una delle due poltrone di pelle nera di fronte alla scrivania e accavallai le gambe, senza distogliere lo sguardo dal suo.
Sapevo perché mi avevano affidata alle sue cure: lui sapeva tenermi testa come nessun altro avessi mai conosciuto prima.
“Sai che è vietato guardare in faccia il tuo dottore nel bel mezzo di una seduta” sospirò, ormai sconfitto dalla mia insistenza.
“Dottor Leto, lei sa meglio di me che le regole imposte da questo mondo non fanno per me” risposi, con un gesto sbrigativo del braccio.
“Lo so, ecco perché sei qui dentro: aver dato fuoco alla casa della tua professoressa di inglese perché non ti aveva messo il massimo dei voti in pagella è una spiegazione più che sufficiente sulla tua riluttanza a seguire le regole imposte dalla società” ribatté con un sorrisetto, come se non fosse per niente impressionato.
“L’ho fatto davvero?” chiesi, fingendomi sorpresa. L’avevo decisamente fatto.
Alzò gli occhi al cielo, aggrottando poi la fronte e scrivendo distrattamente sul suo diario.
Mi avvicinai alla scrivania, sporgendomi per leggere cosa avesse scritto.
Improvvisamente alzò lo sguardo, e notai che in quel momento eravamo vicini come non lo eravamo mai stati.
I suoi occhi erano quasi grigi, dipendeva dal modo in cui la luce lo catturava.
“Jared, dimenticavo che…” sentimmo dire da qualcuno, e ci girammo allo stesso tempo verso la porta.
Shannon ci guardava rigido, senza dubbio a disagio nella sua nuova divisa blu da infermiere.
Lo scollo a V della maglia lasciava intravedere le clavicole, il modo in cui i tatuaggi erano parzialmente nascosti mi attirava inevitabilmente, spingendomi a chiedere cosa ci fosse sotto.
“Oh, Shannon. Lei è Christine” si affrettò a dire Jared, presentandoci.
Io mi scostai bruscamente dal buon dottore, come risvegliata da una trance.
“Christine, a quanto pare ti piace stare a stretto contatto con gli uomini” disse ironicamente Shannon con un sorrisetto, riferendosi al malinteso con Tomo.
Per la prima volta nella mia vita non fui capace di replicare in maniera altrettanto ironica, perché era in quel modo che prendevo la mia vita… come un gioco.
“E a quanto pare a te non piacerà lavorare qui” surrurrai un momento dopo, non sapendo cos’altro dire.
Jared mi fulminò, sicuramente aveva paura che il fratello prendesse i bagagli e abbandonasse quel miserabile lavoro ancora prima di cominciare.
“Dottor Leto, abbiamo finito?” chiesi con nonchalance, avvicinandomi alla porta e di conseguenza a Shannon.
Aveva un profumo buonissimo, molto forte e virile, come un riflesso della sua personalità.
“Sì” rispose Jared, e allora avanzai a grandi passi verso l’uscita.
Nel momento in cui passai di fianco a Shannon, mi guardò intensamente negli occhi.
Mi costrinse a mettere un muro invalicabile tra me e lui, non permettevo a nessuno di leggermi dentro.
Chiusi la porta dietro di me, fermandomi per un secondo.
“C’è qualcosa di inquietante in quella ragazza, è come se fosse il guscio vuoto di una persona” sentii dire a Shannon.
Feci una risatina amara, avviandomi verso il corridoio.



Note dell'autrice:
Salve a tutti! Sono tornata con una nuova fanfiction, spero che stavolta l'esperimento vada a buon fine.
Grazie a coloro che recensiscono e anche a coloro che leggono e basta!
Al prossimo capitolo!
- Fran
   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > 30 Seconds to Mars / Vai alla pagina dell'autore: Franfiction6277