“Mamma! Mamma!”
Goccioline di sangue scendevano
lentamente lungo il
suo braccio lasciando una scia calda e liquida, per poi schiantarsi
contro il
parquet in legno lucido, creando un suono appena udibile ma
frastornante al
tempo spesso.
“Mam-Papà!”
Il fiato mi si bloccò in
gola senza riuscire ad
arrivare ai miei polmoni. Tremavo, tremavo come una foglia tremava
d’autunno a
causa del vento, poco prima di cadere e lasciar per sempre il posto
dove era
nata e cresciuta.
I suoi occhi spalancati erano scuri come il
petrolio e mi guardavano
come non avevano mai fatto, erano pieni di pazzia.
Avevo paura di muovermi.
Il tintinnio delle goccioline
risuonava ancora nelle
mie orecchie mentre il mio sguardo si era posato su un coltello.
Un coltello sporco di sangue e
peccato.
Un coltello che teneva stretto
nella mano mi..
Urlai
come facevo ormai ogni
notte. Tastai con le mani le mie guancie e le scoprii bagnate di un
liquido salato
che, in parte, aveva toccato anche le mie labbra. Tirai su col naso per
poi
accendere la piccola abatjour che l’hotel aveva messo a
disposizione.
Notai
che i miei due cuscini
erano finiti in terra e le coperte che mi avevano protetto dal freddo
fino a
quel momento erano appallottolate e raggomitolate sul bordo del letto.
Mi
alzai e poggiai una mano
sulla fronte cercando di bloccare il martellare forte e continuo
presente nella
mia testa. Il freddo mi trafiggeva la pianta dei piedi mentre camminavo
avanti
e indietro per la stanza che ormai era diventata asfissiante.
Erano
tredici lunghi anni che
faceva lo stesso incubo ogni notte.
Adesso
mi farò una camomilla e poi
tornerò a letto
Pensai
mentre le lacrime avevano
finito di scendere a cascata sulle mie guance. Respirai, per poi
accorgermi di
non essere a casa mia ma in una stupida camera d’albergo con
solo una dannata
stanza e un dannato bagno. I miei piani di farmi una camomilla
saltarono.
In
quel momento maledii
tutto. Maledii il mio lavoro per tutto lo stress e per tutti i viaggi
che mi
costringeva a fare, maledii la mia insulsa vita, maledii lo stupido
bisogno di
dormire e di non riuscire a sopravvivere senza.
In
un atto di rabbia e follia
diedi un calcio alla valigia poggiata accuratamente contro il muro,
cadde
provocando un tonfo che mi fece innervosire ancora di più.
Mi
avvicinai al mini frigo
accanto alla porta del bagno e l’aprii prendendo
l’unica bottiglina di acqua
frizzante presente all’interno. Tornai a sedermi sul letto,
leggermente più
calma e iniziai a berla a sorsi.
Sospirai
e dopo essermi
assicurata della mia lucidità nuovamente raggiunta, poggiai
la schiena contro
al materasso. Gli occhi presi a fissare un punto indefinibile nel vuoto
e la
mente che viaggiava, in prima classe nell’aereo dei ricordi.
Mi
girai su un fianco
poggiando la tempia accaldata e dolorante sulla coperta, i demoni non
mi
facevano paura di giorno. Ma la notte, quando venivano a bussare alla
mia porta
non ci vedevo più dal terrore ma il mio istinto masochistico
gli apriva la
porta dandogli libero accesso alla mia mente, portandola fuori dai
limiti e
facendomi perdere la sanità mentale.
“Mamma”
sussurrai a me stessa
mentre gli occhi iniziavano a pizzicarmi brucianti di nuovo.
“Mamma” ripetei
affondando la testa nel materasso che avevo tanto desiderato provare
quel
pomeriggio ma che in quel momento stavo disprezzando come non mai.
La
mattina mi svegliai
acciaccata e con ancora il mal di testa.
Mi
strofinai gli occhi e mi
alzai lentamente dal letto, solo per non peggiorare il dolore alla
schiena. Aprii
le tende facendo così filtrare la luce del sole nella mia
suite.
Erano
solo le nove del
mattino e New York era già in completo movimento. Le
macchine sfrecciavano
veloci sulla strada quasi da non vederle, le persone indaffarate
camminavano
senza neanche accorgersi di quel che accadeva in torno a loro e i
studenti che marinavano
la scuola girovagano nelle vie con cautela per la paura di essere
riconosciuti
da qualche loro familiare.
Sbadigliai
prendendo il
cellulare da sopra al comodino. Un samsung galaxy express due, il mio
bellissimo e amatissimo telefono regalatomi dall’azienda.
Sbloccai
lo schermo per
leggere la scritta “Un nuovo messaggio da Marotti.”
Sbuffai
pesantemente. Di
prima mattina, nel mio giorno libero, già doveva
infastidirmi con i suoi
messaggi?
Buongiorno
Zuccherino, alle 11 passa al
Vicius, dobbiamo organizzarci della tua sistemazione. Kiss.
Roteai
gli occhi per la sua
falsa dolcezza da diabete e poggiai di nuovo il cellulare sul comodino.
Iniziai
ad incamminarmi verso il bagno mentre la mia mente si ritrovava di
nuovo a
vagare tra i ricordi tatuati nel mio cervello.
Marotti.
Un uomo in apparenza
ricco e generoso, che dava speranze ai giovani donandogli posti di
lavoro
sicuri e importanti. Un uomo che accoglieva in casa chi usciva da una
tragedia
e veniva etichettato come sfortunato.
L’uomo perfetto.
Ma
nessuno sa chi è davvero
lui, o quasi nessuno.
“Questa è
Violetta, trattatela bene è una matricola..
ha solo quattordici anni”
Tutte mi squadravano da capo a
piede, come se fossi io
la strana con qualcosa di sbagliato addosso. Erano loro ad essere
vestite e
truccate come delle prostitute.
Abbassai lo sguardo intimorita un
attimo da tutti
quegli occhi puntati su di me. Cosa volevano? Io ero qui solo per una
visita
con il signor Marotti.
“Non si preoccupi
Marotti” una ragazza alta dalla
pelle scura si avvicinò all’uomo che mi aveva
accolta in casa sei anni prima.
Camminava in modo elegante e la sua voce seducente avrebbe potuto
persuadere
tutti. “Ci prenderemo noi cura di lei” gli
scoccò un bacio sulla guancia
accarezzandogli una spalla con le dita lunghe che si ritrovava, coperte
totalmente da anelli argentati.
Diciamo
che la mia vita non
era tra le più comuni e facili.
Uscii
dall’albergo lavata e
vestita. Quel giorno avevo pensato di vestire più
elegantemente. Dovevamo pur
sempre parlare della mia
sistemazione e non di una cosa
qualunque, chissà chi mi avrebbe presentato questa volta,
quale casa mi sarebbe
spettata e in che via, soprattutto.
Il
tailleur blu che mi
fasciava a pennello le forme si intonava con l’eyeliner
colorato che avevo
passato finemente sui miei due occhi. La mia solita, adorata borsa di
Luis
Vuitton oscillava ad ogni passo fatto dal mio vertiginoso tacco.
Cosa dovevo fare precisamente?
Mi avevano chiuso in quella stanza
e se ne erano
andate lasciandomi sole con quest’uomo. Aveva
all’incirca il doppio dei miei
anni ed era il mio triplo. Mi incuteva paura e i miei piedi erano
piantati nel
terreno.
“Fallo
divertire”
Mi aveva detto Ambar, la donna che
aveva fatto poco
prima gli occhi dolci al signor Marotti. Come avrei fatto a farlo
divertire?
“Sei pronta ragazzina?
Guarda che hai sprecato già un
quarto d’ora dei quaranta minuti” la sua voce era
stizzita e si stava
abbassando il jeans che fece cadere all’altezza delle sue
caviglie
“Avanti
spogliati!” continuò
Scossi
la testa cercando di
levarmi le immagini della mia distrutta adolescenza davanti agli occhi.
Mentre
la mia mente vagava in cerca di un argomento più
interessante e meno doloroso
da elaborare, mi ritrovai già davanti al Vicius.
Tanto
meglio
Ridacchiai
entrando
nell’edificio dalle porte raffinate ed eleganti in vetro. Era
impressionante
come il mio corpo si muoveva meccanicamente e automaticamente mentre i
miei
pensieri erano da tutt’altra parte. Credevo di averlo
imparato negli anni, la
routine dei miei giorni era quasi sempre la stessa, cambiavano solo, di
tanto
in tanto, i luoghi in cui mi trovavo.
“Buongiorno
signorina
Castillo”
Un
ragazzo che non avevo mai
visto prima d’allora, vestito in divisa nera mi guardava
sorridendo. Come
sapeva il mio nome? Aveva i tratti del viso dolci e il nasino
all’insù. Mi
faceva quasi ridere quanta dolcezza esprimevano i suoi occhi,
nonostante il
posto dove si trovasse.
“Buongiorno”
risposi per poi
avanzare verso l’ufficio di Marotti.
Entrai
senza bussare e lo
trovai seduto su una poltrona in pelle, di fronte ad un uomo abbastanza
anziano, con i capelli lunghi e grigi fino alle spalle.
“Violetta
mia cara, vieni qui
che ti presento Fernando”
Sospirai
e mi avvicinai a
loro. Sarebbe stata
un’altra mattinata
molto lunga.
Ero
seduta sulla panchina di
un parco di NY. Faceva più freddo del giorno prima o,
almeno, l’aria sembrava
più rude del solito. Le gambe accavallate l’una
sull’altra e la mia adorata
borsa prendeva posto proprio al mio fianco. Il braccio attorno al
manico di
essa per evitare sgradevoli furti da parte di qualche ragazzino che
voleva
avere le attenzioni su di lui facendo il bullo con una ventunenne.
Mi
rigirai attorno al dito le
chiavi della mia nuova e splendente Mercedes. Avevo la patente da un
anno, era
ora che quel riccone di
merda me ne
concedesse una.
Il
venticello freddo sbatteva
contro la mia faccia facendo appassire il colorante rosso sulle mie
labbra. Un
Yves saint laurent della modica cifra di quaranta dollari e ottantatre
centesimi. Girai il polso notando che erano già le 7 e 45 e
che il mio stomaco
iniziava a brontolare dalla fame. Era arrivato il momento di tornare a
casa.
Si,
perché finalmente avevo
ricevuto le chiavi della mia nuova casa. Era nel centro della Grande
Mela e
distava pochi isolati dalla metrò, non che mi servisse
più, adesso potevo
raggiungere il Vicius con la mia macchina.
Sorrisi
tra me e me una volta
seduta sui sediolini in pelle che odoravano ancora di nuovo, pensando
che, in
quel giorno, qualcosa era
andato bene.
Girai
la chiave nella
serratura.Ero arrivata all’indirizzo che mi aveva dato Fernando, il
proprietario del palazzo
dove ero in quel momento, mi aveva detto che la mia casa era la numero
162 del
settimo piano. Ovviamente con scarpe di quella altezza non avrei mai
salito
sette piani di scale, così andai nell’ascensore.
Quello
che mi ritrovai
davanti pareva più un attico affittato dai famosi attori di
Hollywood, che un
appartamento per una persona.
La
mia bocca si
spalancò guardando l’immenso
ambiente circostante a me.
Un
grande salone si estendeva
alla mia vista. Un divano in pelle a isola bianco era posizionato su un
tappeto
color cioccolato. Il camino era già acceso rendendo la casa
calda e
accogliente. Il fuoco giocherellava avanti e indietro facendo
scoppiettare il
legno sotto di esso.
Come
finale una grande
vetrata prendeva tutta la parete infondo dandomi un ottima vista di
almeno metà
New York.
Il
tavolino in vetro
posizionato di fronte al
divano teneva
in piedi un piccolo vaso pieno di violette fresche e profumate con nel
mezzo un
bigliettino rosa.
Mi
avvicinai e lo portai all’altezza
del naso. Profumava di lavanda. Era il suo marchio. Lo aprii
delicatamente
per non stracciare la carta quasi velata e lessi a bassa voce il suo
contenuto.
Ti
piace la tua casetta?
L’ho
consigliata io a Marotti. Solo per
te. Xx
Look at me
Un
altro piccolo capitolo lo
so ma è un miracolo che sia riuscita ad anticipare
l’aggiornamento ad oggi.
Per
la mia felicità oggi è
venuto un tecnico a controllare il pc di casa mia e per
mercoledì la
connessione wifii dovrebbe essere a posto. In questo capitolo non
succede nulla
di che, si viene solo a sapere un pizzico della vita della nostra cara
protagonista.
Ringrazio
TUTTI quelli che
hanno recensito la mia storia e messa nelle seguite o preferite. Tutti
quelli
che l’hanno letta e un grazie a tutti quelli che
l’hanno anche odiata.
Se
vedrò ancora tutto questo
interesse per la storia (che mi rende felicissima. Non mi aspettavo
più di una
recensione) cercherò di continuare ancora presto.
Per
quando il computer sarà
pronto credo di stabilire dei giorni a settimana (2 o 3) dove
aggiornerò ad un
determinato orario.
Un
grazie a tutti ancora e un
bacio.
Cielo
<3
[Account
di Ask se avete
qualche domanda da farmi: http://ask.fm/CieloNotturno ]