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Autore: Tears990    24/07/2014    0 recensioni
Urabrask è una dea che vive fra gli uomini per assaporare le piccole sfumature che una vita da umano può offrirle. Vive la sua vita quotidiana in pace finchè un altro essere minaccia i suoi domini con la sua brama di sangue. Scoppia così una sanguinosa battaglia fra dei immortali che vedrà vincitore solo il più forte.
Genere: Azione, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le Cronache di Gilgamesh'
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Capitolo IV

Tradimento
 
Il tradimento è uno dei peccati più gravi, una delle più oltraggiose onte di cui una persona possa macchiarsi, il sentimento che più duramente grava sull’animo umano.
Per chi viene tradito è un sentimento semplice, ci si sente privati di qualcosa su cui si faceva affidamento, ci si sente privati dell’orgoglio e gettati fra le folte schiere di tutti coloro che furono trattati alla stessa maniera, ma per il traditore è certamente molto più complesso: ci si chiede se sia giusto farlo, se si possa indulgere in quell’atto, quali siano le conseguenze, ma il corpo si muove, come animato di volontà propria, libero da giudizi e angosce.
La carne è solita seguire solo ciò che le è necessario, ma l’anima è più profonda, più corruttibile, più forte e una volta che il desiderio di altra carne infetta l’animo umano esso non ha scampo.
Così quell’anima turbata da mille pensieri e tormenti prese parte al massacro di carne che stava avvenendo su quel letto.
I loro corpi erano avvinghiati l’uno all’altro come l’edera che si innesta a forza su un muro, le loro mani erano artigli che bramavano le membra di Gilgamesh e lui era impotente di fronte ad un nemico di simile portata.
E mentre Afrodite, Atena ed Artemide abusavano della loro preda, anch’essa faceva lo stesso con loro, protendendo le sue fauci sui loro seni e le sue grinfie sulle loro forme.
Le prendeva con la foga di chi ha atteso troppo tempo per concedersi un simile piacere e loro ricambiavano dandosi in pasto al loro cacciatore, sfamando ogni suo desiderio ed ogni sua perversione, persino la più assurda.
Sebbene il suo corpo e la sua mente non potessero farne a meno, la sua anima si torturava nel suo petto, sentiva le sue budella ritorcersi su se stesse e il suo cuore piangere le lacrime più amare: stava tradendo la sua donna con tre puttane… la sua donna, si, non ne ricordava più nemmeno il nome.
Dopo seicento anni trascorsi a dare la caccia agli scagnozzi degli dei era giunto il momento di puntare in alto e tornare sul Monte Olimpo. Ma ormai era vago il ricordo di ciò che lo aveva spinto a tradire il suo popolo, non rammentava più la donna che aveva amato se non come un’ombra senza volto e il suo nome era ormai perduto nei secoli.
Così quelle arpie armate dei loro seni sodi lo avevano sconfitto, erano riuscite a corrompere colui che aveva decimato gli dei, avevano soddisfatto la sua fame insaziabile. Ad un tratto entrò nella stanza un uomo alto e vigoroso, possente e con capelli neri corvini simili a nuvole tempestose.
Gilgamesh non lo riconobbe, era intontito, come sotto l’effetto di qualche droga, e si lasciò cadere sulla schiena, con la testa appesa fuori dal letto mentre sentiva una lingua percorrerlo nel basso ventre.
- Tu devi essere Gilgamesh – disse l’uomo con un tono troppo allegro per trovarsi di fronte al suo acerrimo nemico – Io sono Zeus, se non lo avessi capito. –
“Z-zeus?” pensò Gilgamesh, mentre iniziava a rendersi conto di non ricordare come fosse arrivato su quel letto, ma il suo dubbio fu subito scacciato da qualcuno che gli faceva un succhiotto sul petto.
- Ti vedo perplesso amico mio, sei forse insoddisfatto dalle mie figlie? –
“Amico? Io non sono… t- tu…” pensò, ma sentiva come se la sua rabbia, il suo odio nei loro confronti ed i ricordi di ciò che lo spingeva a combattere venissero succhiati via, proprio come stava accadendo poco più in basso in quel momento, sebbene quella fosse una sensazione decisamente più piacevole.
Sul volto di Gilgamesh si disegnò una smorfia di piacere e Zeus sorrise dicendo – Beh, a quanto pare era solo una mia impressione. – Zeus girava nella stanza, camminando piano e osservandolo con attenzione, ma lui non poteva ricambiare quegli sguardi attenti con una mente tanto offuscata. Sentì il suo osservatore dire qualche altra parola, ma non capì nulla a parte che dovevano vedersi per parlare.
Zeus così uscì dalla stanza con la stessa calma con la quale era entrato, chiudendo le porte dietro di se e fu buio.
Quando Gilgamesh si risvegliò sentiva la sua testa scoppiare, come se avesse bevuto tutto il vino di Dioniso, barcollava un po’, ma in pochi minuti si fece presente a se stesso e si diresse celere verso la sala del trono ove risiedeva il potente Zeus.
Quando fu lì si guardò attorno e comprese che lo sfarzo che aveva visto finora era ben poca cosa in confronto a ciò che aveva di fronte a se. Le pareti erano fatte d’oro, tempestate di diamanti incastonati in ogni singola giunzione dei vari mattoni, i vetri delle ampie finestre erano fatte anch’esse di diamanti e non c’era un singolo oggetto fatto di un metallo o pietra non prezioso. Prima di incedere verso il trono dove sedeva Zeus la sua attenzione fu attratta da un’immagine riflessa in un grosso braciere d’oro: vide se stesso urlante, che graffiava la superfice con le unghie, come se tentasse di liberarsi da qualcosa o uscire da una sorta di prigionia.
- Ancora ubriaco? – tuonò il re degli dei, distogliendolo dalla sua visione. Si voltò a guardarlo qualche secondo e prima di rispondere diede un’altra occhiata al braciere, ma non vide nulla oltre il suo semplice riflesso.
Si strofinò gli occhi e si voltò nuovamente verso il suo interlocutore – Nulla… nulla, mio signore, mi era parso di vedere qualcosa… ma devo essere ancora offuscato dal vino. –
- Avanti, vieni Gilgamesh, oggi è un grande giorno per te, prenderai il posto di Ares come dio della guerra. –
- È un grande… onore, mio signore, ma permettetemi di chiedervi… come sono arrivato qui? –
Zeus sgranò gli occhi per un attimo ed una grossa goccia di sudore scese lentamente lungo la sua fronte, colma di terrore e angoscia al punto che per lui fu uno strazio anche solo sentirla scendere lungo il viso, poi si alzò e si avvicinò a Gilgamesh con passo celere.
- Aaah, dannato tu e tutta la tua stirpe – rispose con un sorriso stirato sul volto – devi essere ancora sotto shock per la battaglia, non la rammenti forse? – Gilgamesh sentì la sua testa girare leggermente mentre cercava di ricordare, si sentiva come se fosse sotto l’effetto di qualcosa, sentiva di aver perso qualcosa di se, ma non riusciva a capire di cosa si trattasse dal momento che i suoi arti erano saldamente attaccati al suo corpo. Passò una mano sulla testa e si riprese lentamente poi rispose con fare incerto - Lo scontro c-con Ares, si certo lo rammento… noi abbiamo… combattuto e io l’ho sconfitto… assieme ad Apollo e le sue… schiere… di schiavi… e voi li avete… imprigionati? Mio signore… -
- Esatto, mio prode figlio, hai combattuto la tua lunga battaglia per difendere l’Olimpo dalle assurde macchinazioni dei tuoi fratelli. – rispose Zeus sorridendo.
- Si, si certo, Padre… - Rispose e sentì qualcosa graffiarlo in fondo allo stomaco, come se una bestia furente tentasse di uscire alla luce del sole scavando al suo interno, poi ad un tratto quella sensazione cessò e disse – S-scusatemi, padre, sto poco… bene, non dovrei parlarvi in questo stato, io… - Zeus lo interruppe, cingendogli le spalle con le mani e guardandolo negli occhi.
- Figlio, di tutte le cose dell’Olimpo, oggi, sei tu la più importante, non hai salvato solo me, ma anche i tuoi fratelli e sorelle, per non parlare degli uomini. Certo, non sei riuscito a salvare Atlantide dalle grinfie di Ares, ma gli uomini sono forti e sapranno riprendersi con il nostro favore. Tu non hai colpe. –
Sul volto di Gilgamesh scese una lacrima pensando alla città di Atlantide, sebbene non l’avesse mai visitata per quanto ricordasse, gli pareva di conoscere tutti i suoi abitanti, di sentirsi in colpa nei loro confronti.
Zeus gli asciugò la guancia con un dito, come farebbe un padre col proprio figlio ed estrasse da un fodero una spada fatta completamente d’oro e gliela porse. Gilgamesh la prese in silenzio e la guardò; riportava incise sulla base della lama queste parole:


“A Gilgamesh, protettore degli Dei e degli uomini, delle battaglie e dei soldati, Dio di tutti i conflitti.”
 
Quelle parole brillavano di luce, come un fuoco arde in un braciere, emanando un alone dorato molto evidente.
- Dovrai darle un nome, in onore della tua battaglia. – Disse Zeus, stirando un altro sorriso forzato. – Ora va, figliolo, va a prendere il posto che ti spetta nel tuo tempio, lo hai meritato. –
Gilgamesh si avviò verso l’uscita e andò via senza proferir parola e quando fu lontano Zeus tornò a sedere al suo posto, riempì di vino un calice d’oro e ne bevve un sorso stringendo i denti. Le sue fauci sembravano insanguinate, come quelle di un leone che sbrana la propria preda, poi a denti stretti aggiunse – Si… te lo sei meritato, porco deicida… questo sarà il tuo inferno… -
Gilgamesh continuava a sentirsi sempre più strano anche mentre tornava nel suo tempio, maneggiando la spada appena ricevuta. Era decisamente una bellissima lama, appuntita ed affilata da un lato, con elsa e guardia ornate di rubini rossi di sangue, di certo adatti al gladio del dio della guerra.
La lama era veramente lucida, tanto da potersi specchiare su di essa, e guardandosi Gilgamesh vide il suo sguardo spento, privo di motivazione e di vitalità. Si fermò impalato sul sentiero a scrutarsi nella spada per almeno un paio di minuti, contemplò se stesso così come si fa con un oggetto prezioso, qualcosa a cui non si rinuncerebbe per nulla al mondo, ma non riusciva ancora a capire cosa avesse. D’un tratto un bagliore sulla lama mostrò nuovamente ciò che vide sul braciere poco prima, ma stavolta l’urlo era percettibile.
Sentì come un pugno allo stomaco, vide una lama che lo passava da parte a parte del suo ventre ma non uscì una goccia di sangue, poi udì un boato.
 
“…CRONO! TROVA CRONO…”
 
Il dolore allo stomaco si fece più fitto come se lo stessero sbudellando vivo, sentì le sue viscere ardenti come braci dentro di lui e cadde a terra, in ginocchio, graffiandosi l’addome con le dita per tirare fuori il demone che aveva in corpo.
Gilgamesh urlò di dolore e il sangue che scaturiva dalle ferite disegnò strani ghirigori sulla sua pelle, poi all’improvviso un forte senso di vuoto, come se nulla fosse accaduto. La bestia era domata, ma per quanto ancora?
Non fece in tempo a chiederselo due volte che stava già correndo via verso il suo tempio. Lungo il tragitto, però, non fece altro che pensare al nome che quella bestia urlava, Crono.
Lo aveva già sentito, era un nome antico, appartenuto ad uno dei titani, ma cosa aveva a che fare con ciò che gli stava accadendo, come poteva un essere così antico e relegato da millenni nelle profondità del Tartaro essere la causa del suo male?
Gilgamesh si fermò di colpo e guardò alla sua destra. Da lì si scorgeva appena il vecchio sentiero che conduceva alle caverne sotto il Monte Tartaro, una strada dimenticata e sconnessa, celata a chiunque tranne che a Zeus.
“Non ho altra scelta…”
Pensò fra se e se il dio, contemplando prima il sentiero e poi la sua spada. Se avesse deciso di trovare Crono avrebbe provocato l’ira di suo padre, ma qualcosa gli diceva che poteva fare a meno del suo favore in quel momento. Così gettò a terra l’arma ricevuta dal padre degli dei e decise di affrontare il proprio destino, ma in quello stesso momento, quando la punta della lama toccò terra, sentì una nuova fitta allo stomaco.
Il suo cuore pulsava, ruggendo come un leone affamato da troppi giorni che reclama la sua carne, la sua mente si annebbiava e le sue braccia si fecero pesanti.
I suoi muscoli erano irrigiditi, rocce di granito, indolenti contro ogni suo ordine e ben presto anche le sue palpebre iniziarono a cedere, ostruendo la sua vista.
Una grande mano nera si chiuse sul suo viso, poi fu buio.

La prima cosa che sentì fu il dolore, le sue gambe bruciavano come se fossero state trascinate da un carro lungo un campo di battaglia, poi vennero i suoni.
Un incessante suono metallico, ruote che girano senza sosta e assieme a quello un odore acre, come di sangue raffermo e putrefazione.
Non sentì corrente ne aria fresca al tatto, ma appena riuscì ad aprire gli occhi vide che si trovava in una caverna.
Provò a tirare a se le braccia ma erano incatenate ad una parete di roccia dietro di lui e le sue gambe erano irrimediabilmente dilaniate, come squarciate da una bestia, ma le mosche e i vermi stavano già compiendo il loro lavoro. Urlò forte quando le vide, imprecò ed iniziò a piangere, pensando a ciò che aveva perduto.
- Ti sei svegliato, finalmente… -
Un ghigno strano, familiare attirò la sua attenzione su una sagoma sfocata. Le lacrime gli impedivano di vedere, così arrivò il suo misterioso interlocutore ad asciugare i suoi occhi con le dita.
- Ciao, burattino… - Disse quell’uomo dinanzi a lui e quando riaprì gli occhi lo vide. La sua pelle ambrata, i capelli bianchi e lunghi come una cascata di raggi di luna, gli occhi rossi che proiettavano fiumi di sangue in tumulto ed il suo ghigno malefico, folle… era impossibile. - T-tu… tu sei… -
- Si? Si! Ovvio, IO SONO GILGAMESH… e tu… tu sei solo un corpo vuoto nel quale è stata riversata quella poca coscienza che era rimasta in me. - Disse Gilgamesh, ruggendo contro il se stesso incatenato al muro. Si avvicinò di più a lui, sfiorandogli la guancia con la sua, arrivando al suo orecchio. Lo leccò con la lingua mentre l’altro guaiva come un cane bastonato, cercando di allontanarsi da quel mostro che aveva davanti.
Come poteva essere lui? Era certo di essere Gilgamesh, figlio di Zeus e distruttore di Ares, lui il paladino dei conflitti, il guerriero supremo.
Ad un tratto poi l’altro smise di leccargli l’orecchio e lo morse con forza, strappandolo via al suo proprietario.
Vide quell’essere tenere in bocca il suo stesso orecchio, masticarlo ed inghiottirlo come se nulla fosse.
- Tu-t-tu non puoi essere m-me… io sono… -
L’altro diede un colpo terrificante alla parete alle sue spalle con entrambe le mani e fu subito chino su di lui, ruggendogli contro tutto il suo malanimo.
- TU? TU COSA? MISERO PEZZO DI STERCO! SEI SOLO LA SOZZURA DELL’OLIMPO, IL SUO RIFIUTO, IO SONO GILGAMESH E LO DIMOSTRA IL FATTO CHE IO SIA LIBERO MENTRE TU SEI IN CATENE. -
Gli diede un forte schiaffo, dislocandogli visibilmente la mandibola, poi si udì una terza voce, quella di un vecchio dal tono saggio e pacato che disse – Gilgamesh... suvvia, finisci quell’ammasso di carne e vieni qui, ho atteso a lungo il tu arrivo, non farmi aspettare oltre, te ne prego. -
Il Gilgamesh incatenato alla parete si voltò e lo vide chiaramente, un vecchio che girava una immensa ruota d’oro zecchino; era secco, scheletrico e dalla sua schiena spuntavano due grandi ali nere altrettanto rinsecchite e spennacchiate.
Il suo aguzzino si voltò ed annuì al vecchio poi si rivolse ancora a lui, con il viso deformato nuovamente in un ghigno malefico, pregno di oscurità e follia
- Sentito il vecchio? È ora di morire… -
Il povero prigioniero ebbe solo il tempo di versare una lacrima, una sola che gli rigò il viso come un piccolo torrente colmo di dolore ed angoscia, dalla sua bocca non uscì un fiato, ma celava un grido che non sarebbe mai stato udito da anima viva.
Gilgamesh fu rapido, ma certamente non indolore; puntò una mano sul petto della sua preda e con l’altra gli strinse con forza il collo, cingendolo completamente con le dita ed in seguito strappò via tutta la testa del povero malcapitato dal suo busto, ghignando ancora pervaso dall’euforia.
Venne bagnato da lunghi schizzi di sangue vermiglio che macchiarono i suoi candidi capelli da cima a fondo, ma non gli importava di essere sporco di quel nettare, anzi ne godeva immensamente.
- Sei molto cruento – disse il vecchio assistendo a quello scempio – non è sempre un bene amare il sangue altrui con tanta veemenza. –
- Crono… non venire a dirmi cosa devo desiderare, non ne hai alcun diritto, tu non sei diverso da quella feccia che vive sull’olimpo. –
Diverse risate pervasero la caverna con fragore e Gilgamesh si voltò a guardare gli altri prigionieri di quel posto; i Titani.
- Voi siete i Titani, chi abbiamo qui? … Urano, Gaia… Oceano… tu non dovresti sguazzare in fondo al mare al posto di quel trombone di Poseidone? – Disse lui sarcastico, ma da essi non scaturì neppure una parola in risposta alle sue provocazioni.
- Tu devi parlare con me, dio sanguinario. - Disse infine Crono, attirando la sua attenzione.
- Crono… mi hai fatto venire qui mentre ero intrappolato nelle viscere di questo… bleah… - disse facendo un’espressione schifata, gettando via quella testa identica alla sua dalla quale gocciolava ancora sangue – Ho dovuto scavare al suo interno e trascinarlo qui con la forza per poterti vedere… sono stato drogato da Zeus e da quelle tre puttane delle sue figlie e rinchiuso dentro me stesso… spero ne sia valsa la pena. –
Crono abbozzò un sorriso, senza mai fermare il moto della sua ruota e rispose – Ogni secondo è ben speso, che tu ci creda o no, io lo so bene dato che gestisco il flusso del tempo e dello spazio. –
Gilgamesh fece una smorfia con la bocca tirando indietro gli occhi stufo di sentire discorsi di quel tipo, ma non interruppe il suo interlocutore.
- Ti ho fatto venire qui, nel cuore del Tartaro per darti il mio aiuto. –
Gilgamesh parve sorpreso nel sentire quelle parole, il padre di Zeus, suo nemico mortale che decide di aiutarlo, un bel sogno, ma irrealizzabile.
- E come vorresti aiutarmi? Lanciandogli contro la tua rotella? – rispose sarcastico il dio, ridendo di quella strana proposta, ma Crono era un titano antico e potente, irascibile a volte, ma ben distante dalla suscettibilità umana, la sua stessa prigionia lo aveva reso pacato e pacifico, capace di grande pazienza.
- No, mio avventato amico, io ti offro informazioni e potere. Ti donerò le risposte che stai cercando su te stesso, su cosa sei e ti darò i mezzi per distruggere gli arroganti dei che mi hanno incatenato. – rispose il titano con grande calma.
Gilgamesh rimase stupito a quella proposta e si avvicinò a lui, scrutandolo a fondo per capire se nelle sue suadenti proposte si nascondesse qualche strana macchinazione, ma nei suoi occhi neri non vide altro che odio e pazienza.
Si sedette su un masso vicino e disse – Dunque, Crono, illuminami con il tuo sapere se lo desideri. –
Non se lo fece ripetere due volte, il titano prese la parola.
- Lo abbiamo visto, dio irruento, quel cielo rosso intriso di follia, sangue, ira e dolore. Abbiamo visto il potere immenso della tua anima, la forza sovrumana generata dal tuo rancore, la potenza che sovrasta gli dei incauti. Ma per abbattere Zeus quel potere non è abbastanza, sebbene lui ti tema. –
-Zeus mi teme? ... Ne sono… lusingato, ma hai ragione, il mio potere non è sufficiente ad ucciderlo… - disse Gilgamesh roteando una mano per scrocchiare il polso.
- Ne sei consapevole… questo è un buon segno. –
- Se non fossi stato capace di valutare le mie possibilità in battaglia non credo che avrei sconfitto Ares. – Ribatté Gilgamesh sottolineando l’ovvietà delle parole del vecchio.
- Però tu non sai perché il tuo aspetto è cambiato dopo aver divorato quel dio… i tuoi capelli bianchi, quegli occhi, il tuo potere… non sono un caso, io ero esattamente come te un tempo. –
Gilgamesh non poteva crederci, Crono era come lui? O meglio lui stesso era diventato come Crono, il più potente titano della storia? Tuttavia non dubitò un secondo di quelle parole, aveva sentito che Crono fosse un folle sanguinario, ma mai aveva udito di tradimenti o menzogne da lui ordite, tutti i suoi atti malvagi li compiva alla luce del sole al contrario dei suoi figli.
- Divorando Ares non sei diventato soltanto un dio, ma qualcosa di più potente, un essere capace di assorbire il potere di coloro che diventano il suo pasto, un’entità tutt’uno con la morte ed il dolore. –
Gilgamesh prese a ghignare, finalmente capiva il perché della sua fame, della sua irrequietezza, di tutto il suo potere.
- In questi ultimi seicento anni, ho divorato centinaia di dei minori e molti dei figli e fratelli di Zeus.
Ares, Apollo, Demetra, Eros ed Ermes sono solo alcuni di loro. Ad ogni morso che davo sentivo crescere qualcosa in me, per ogni lembo di carne che strappavo ne volevo uno in più, ma… ho sempre pensato che fosse legato alla mia follia, alla mia insania e al mio dolore. –
Intanto la ruota continuava imperterrita il suo moto durante quella conversazione, imperturbabile come il suo padrone.
- Finalmente ne sei consapevole, Flagello degli dei. Questo è il nome con il quale ti battezzo, Gilgamesh. Che ogni essere che osa proclamarsi dio tema la tua fame. –
Disse chinando leggermente il capo senza interrompere il suo fondamentale lavoro. Anche gli altri titani, incatenati negli antri della caverna chinarono il capo di fronte a lui, ma Gilgamesh accettò quei saluti con umiltà, inchinandosi a propria volta.
- Pensavo che voi titani foste crudeli e spietati come i vostri figli, ma mi sbagliavo, vi porgo le mie più umili scuse, miei signori. –
Crono abbozzò un sorriso vedendolo inchinarsi a loro e rispose – Ricorda Gilgamesh che la storia è sempre scritta dai vincitori, ma la verità resta ai perdenti.
Ora, però, è giunto il momento che tu acquisisca una forza che riunirà la nostra sete di vendetta, tu diverrai il portatore della nostra verità e deporrai gli dei superbi, facendoli marcire nel fondo del tuo stomaco. Tu sarai l’unico Dio che veglierà sulle sorti dell’uomo. –
- E come dovrei fare? Tu stesso hai detto che non sono abbastanza forte per battere Zeus. – disse Gilgamesh scrutando il vecchio sul cui volto si disegnò un sorriso, profondo e sincero.
- Tu, dio cannibale, dovrai mangiare noi titani e prenderai il controllo del nostro immenso potere. Io ti donerò la facoltà di comandare il tempo e lo spazio, cosicché la tua esistenza divenga un dato di fatto, inalterabile da qualsiasi fonte. Sarai colui che è sempre esistito e che sempre esisterà in ogni momento e luogo del creato, ma anche all’infuori di esso. Lo spazio ed il tempo saranno come creta nelle tue mani, potrai plasmare il corso degli eventi a tuo piacimento e la morte non toccherà mai la tua essenza, sarai colui che sopravvivrà al tempo stesso quando finirà il suo corso. Ma questo è solo ciò che otterrai da me. – disse il titano indicando i suoi innumerevoli fratelli.
- Ti nutrirai di mia madre Gaia, di mio padre Urano e dei miei fratelli fra cui Oceano, Febe, Teti, Rea, Iperione e tutti gli altri. Estingui i titani, Flagello degli dei, ravviva la tua fiamma con le nostre carni. -
Crono alzò gli occhi al soffitto della caverna, offrendo al dio il proprio collo, ma sorrise amaramente perché perfino in punto di morte la sua ruota continuava a girare.
Gilgamesh non disse nulla, ma li ringraziò inchinandosi a loro, ghignando follemente conscio dell’immenso potere che stava per ottenere.
In un attimo si avventò su Crono che non emise urla, divorandolo un boccone alla volta, leccando e succhiando ogni singola goccia del suo sangue, consumandone anche le ossa, ma persino in quel frangente il vecchio titano non smise di far girare la sua ruota, almeno finché di lui non rimase nulla.
Gli altri titani furono altrettanto silenziosi mentre venivano divorati vivi da Gilgamesh, il quale, un morso dopo l’altro, sentiva il suo potere diventare sempre più immenso, dentro di se l’infinito si elevava all’ennesima potenza.
Quando finì il suo pasto si sentì vuoto come se non avesse mangiato alcunché e la sua fame era ancora più grande di prima. Non ci furono saette, ne terremoti, nessun avvenimento eclatante, ma sentiva di calpestare se stesso ad ogni passo, provava cosa fosse essere vento, luce, oscurità, acqua e fuoco, vedeva dagli occhi degli uccelli e sentiva dalle orecchie degli uomini ed in ogni istante tutta la conoscenza del mondo affluiva dentro di lui.
Ora Gilgamesh era il creato, era onnipotente.
Scomparve da quella prigione e in un istante riapparve di fronte al tempio di Zeus.
La sua bocca era ancora sporca del sangue dei suoi antipasti e i capelli intrisi di quello del burattino del padre degli dei.
Spalancò le pesanti porte del tempio con un gesto delle dita e fu davanti al suo nemico e le sue tre figlie.
- Oh, eccovi qui… le tre meretrici e il padrone del bordello, bene… avevo giusto un certo… languorino. – disse ghignando follemente, mentre i suoi occhi, pozzi di sangue in tumulto, si scontravano con quelli di Zeus.
- Gilgamesh! – tuonò il padre degli dei – Come osi rivolgerti così a me e alle tue sorelle? Non ti permet… - Le parole gli si gelarono in gola quando vide il Deicida brandire la sua stessa testa nella mano sinistra per poi lanciarla brutalmente ai suoi piedi.
- Ma cosa? C-cosa significa questo? –
- Quella? È la mia testa, si… beh per la precisione è la testa del me stesso che avevi drogato e sedotto con quelle tre puttane. Pensavi veramente di potermi imprigionare? Ciò che hai corrotto in quel corpo era solo l’ultimo barlume della mia coscienza, io, questa follia vivente che hai davanti, sono vivo e vegeto e più potente che mai, ora che ho svuotato il Tartaro dei suoi abitanti… -
Zeus deglutì vistosamente e le tre dee si strinsero a lui cercando riparo, ma il loro padre le gettò contro Gilgamesh, orinandogli di affrontarlo.
- H-hai liberato i titani? Folle! Ci distruggeranno! – disse Afrodite indietreggiando con le sorelle.
- Liberati? … non ho detto di averli liberati… - disse lui sgranando gli occhi – Li ho divorati vivi, anzi si sono lasciati divorare per cedermi il loro potere… -
Dalla fronte del dio re Iniziarono a scivolare piccole gocce di sudore, le sue gambe tremavano per il terrore e l’orrore di ciò che aveva davanti ai suoi occhi. La sua voce faticò ad uscire dalle labbra, ma parlò - …T-tu… i titani… m-mio… -
-Tuo padre? CRONO? – lo interruppe il deofago, urlando il nome dell’antico signore del tempo. Il suo grido riecheggiò sull’Olimpo e il cielo si aprì come la prima volta, ma ora mostrava un oceano di sangue ribollente dal quale grida di dolore, ira e follia si diffondevano nell’aria seminando la paura persino nei meandri del cuore più saldo.
- Si, Zeus! Io sono come lui, sono ciò che fu Crono divorando i suoi figli, lui che sacrificò il suo amore per salvare gli uomini dalla superbia degli dei, lui che rinunciò alla sua progenie per il bene dei tuoi schiavi. Tu non sarai mai degno di lui, ma non temere… presto non sarai più nulla. – disse Gilgamesh sfidandolo con una folle risata.
Nel frattempo i suoi fratelli, Ade e Poseidone si precipitarono nel tempio, e videro quell’essere davanti alle porte della casa dorata del dio re minacciarlo.
Zeus indietreggiò di qualche passo, inciampando in una lastra d’oro sollevata, ritrovandosi sulla schiena.
In preda al terrore diede un calcio con la pianta del piede ad Atena che si trovava davanti a lui, lanciandola dritta davanti a quel pazzo.
La dea deglutì ed impugnò la sua lancia avventandosi con un grido sul dio che aveva davanti. Corse veloce verso di lui, protendendo l’arma in avanti sperando di trafiggerlo con un affondo dritto al cuore, ma Gilgamesh non accennò a muoversi di un passo, attese il colpo e la lancia lo colpì in pieno, scatenando una tremenda onda d’urto.
- Ahahahahah… tutto qui, Atena? È questa la tua forza? – Disse lui ghignando follemente. La lancia della dea lo aveva penetrato da parte a parte, inforcando sulla sua punta il cuore dell’uomo, strappandolo via dalla sua sede, ma sebbene fosse staccato dal resto del corpo continuava a battere come se niente fosse.
Gilgamesh rise di gusto ed afferrò saldamente la mano della donna che impugnava la lancia, trattenendola a se – ora è il mio turno, baldracca. –
Inspirò una grande quantità d’aria, gonfiando il petto ed il diaframma, poi in un sol colpo la getto fuori addosso alla dea. Quel devastante soffio la scarnificò completamente, riducendola ad uno schizzo di sangue e polvere di ossa che andarono ad insozzare Zeus, i suoi fratelli e le altre due donne. Solo la sua mano, saldamente ancorata a quella del divoratore di dei si salvò.
- Già finito? Posso mangiarvi ora? – Chiese pacato estraendo la lancia dal suo petto, poi prese la mano intatta di Atena ed iniziò a divorarla.
Afrodite iniziò a piangere per il dolore ed impugnò un bellissimo pugnale d’oro con la punta fatta di diamanti e si lanciò sul carnefice di sua sorella, mentre Artemide scoccava una freccia dal suo leggendario arco.
Gilgamesh non si mosse, il tempo però iniziò a rallentare, fino a fermarsi completamente.
Iniziò ad incedere lentamente verso la dea con l’arco, che si trovava a circa sessanta metri da lui, ma lo spazio si piegò sotto i suoi piedi e in appena due passi si trovò di fronte a lei.
Aveva appena lasciato andare la freccia, stava uscendo dall’arco in quel momento; il dio la prese e la conficcò nel suo cranio, con un immenso boato.
Artemide prese ad accartocciarsi su se stessa molto lentamente, richiudendosi in una pozza di sangue assieme al suo arco.
Si voltò e fece un ulteriore passo, ritrovandosi venti metri più avanti, dietro afrodite.
La cinse da dietro, prendendo al palparla lentamente senza ritegno, percorrendole il ventre e i seni con le mani, poi le scostò i capelli e sussurrò – È quasi un peccato ucciderti… -
Le diede un bacio sul collo e le sfilò il coltello dalle mani, lo infilò nella sua bocca, come lei stessa ci aveva infilato ben altro la sera precedente, ma senza trafiggerla, lasciandolo immobile sollevato a mezz’aria. Le sollevò una gamba, poi prese il piede che poggiava a terra e lo torse su se stesso di un giro completo, sentendo un forte rumore di rottura.
Ridendo fece un altro passo e si ritrovò alla sua posizione di partenza, si mise ben eretto e fece un inchino profondo.
Quando il tempo riprese a scorrere normalmente, di Artemide era rimasta solo una pozza scarlatta ad adornare il pavimento della stanza, mentre Afrodite si ritrovò ad inciampare rovinosamente a terra, finendo con il coltello infilzato in gola, che sbucava dietro la nuca.
Gil saltellò graziosamente verso la povera Afrodite e portò una mano alla bocca piegandosi in una posizione strana, poi guardando Zeus disse in falsetto – Oh! Ma guarda che disgrazia! Padre irresponsabile, non hai mai insegnato alle tue figlie a non correre con un coltello in bocca? È pericoloso sai! -
Rivolse uno sguardo di finta preoccupazione alla povera dea che rantolava sul pavimento cercando di allontanarsi da lui, poi ghignò malignamente strappandole gli abiti di dosso.
Zeus e i suoi fratelli non poterono fare altro che assistere allibiti a quello scempio e sussultarono nel vedere Gilgamesh sollevare Afrodite per le caviglie, tenendola a testa in giù.
Le allargò le gambe con le braccia e vi puntò un piede al centro, sui suoi genitali. Iniziò a tirare con le braccia e spingere con il piede mentre fischiettava allegro e le strappò via le gambe dal corpo, gettandole addosso ad Ade e Poseidone - Un regalo! Difficilmente troverete cosce come queste in giro. –
I due inorriditi e spaventati iniziarono a scappare, correndo a rifugiarsi nei rispettivi regni, lasciando solo Zeus contro quella bestia, ma Gil non li inseguì, la loro ora sarebbe giunta a breve, ma se non quel giorno, il successivo.
Zeus prese a piangere mentre vedeva la figlia distrutta a quel modo, realizzando che tutta la sua stirpe sarebbe stata annientata.
Afrodite tuttavia seppur privata delle gambe tentò ugualmente di fuggire facendo leva sulle braccia, mentre u suoi capelli biondi sporchi del suo stesso sangue e quello della sorella Atena disegnavano una lunga scia a terra. Gemeva di dolore mentre arrancava lungo quel corridoio, lo stesso che aveva percorso mille volte, ora con un amante ora con un altro, ma adesso le sembrava infinito.
- Ehi! No, no, no… dove vai piccola Afrodite? Non puoi lasciarmi proprio ora... - disse lui ghignando.
La girò a pancia in su e le puntò un piede sul ventre, poi le prese un braccio e lo strappò via, senza preoccuparsi di dove lo avrebbe lanciato e fece lo stesso con l’altro. Infine la sollevò per il collo e la guardò negli occhi mentre le sfilava il coltello ancora conficcato in gola. Un grosso spruzzo di sangue ricoprì il seno della povera dea ed il suo aguzzino che si beava di quella insolita doccia. Gilgamesh prese a leccare quel nettare vermiglio dai suoi capezzoli tenendola ancora sollevata, poi affondò i denti nei suoi seni, divorandoli.
Non smise mai di guardarla negli occhi con i suoi iniettati di sangue, baratri di dolore e crudeltà; ogni morso era più furioso del precedente, ma Afrodite non era debole e rimase in vita.
- Scusami tesoro, è un vero peccato… - disse infine infilandole il braccio in gola, spaccandole la mascella ed estraendo la lì il suo cuore. Gettò a terra il poco che restava della donna e divorò quel cuore in sol morso.
Ora erano rimasti in due.


Zeus lo osservava, protetto dalla sua preziosa armatura, i suoi occhi pieni di lacrime incrociavano quelli del carnefice della sua stirpe, sanguinanti oceani di terrore in tempesta.
Ma Zeus restava il padre degli dei e si risollevò dal suo dolore, asciugando le sue lacrime, impugnò una saetta e la puntò contro il suo nemico.
- Tu… che tu sia maledetto, sofferente per l’eternità, senza pace o amore… con questa saetta, ti condanno a morte! – Ruggì il padre degli dei scagliando la sua folgore su Gilgamesh che l’accolse con il petto sfondato da Atena, finendo in cenere.
Zeus non poteva credere ai suoi occhi, lui non c’era più, era polvere così come lo era sua figlia Atena.
Portò le mani sul viso e crollò sedendo sul suo maestoso trono un tempo dorato, ma ora macchiato del sangue delle sue figlie. Urlò per la felicità di averle vendicate e per il dolore di averle perse, poi chiuse gli occhi per non vedere più quel mattatoio. Trasse un sospiro di sollievo e si sentì libero dal suo più grande nemico, rilassandosi per un istante.
Ma era troppo bello per essere vero.
Sentì il fiato di un uomo dietro la sua nuca e sgranò gli occhi, terrorizzato, ma non si voltò. Sentì un dito percorrergli il collo fino all’orecchio, poi un sussurro.
- Ti sarebbe piaciuto eh? –
Era ancora vivo. Ma era impossibile, proprio in quell’istante fissava le sue ceneri ed il cuore impalato sulla lancia di sua figlia che aveva cessato il suo battito.
- Fattene una ragione, padre degli dei… io non posso morire… non più. –
Gilgamesh esplose in una risata folle che fece tremare tutto il tempio, mentre svaniva in un soffio di vento per riapparire di fronte a lui.
Zeus iniziò a sbuffare per l’ira, le sue narici si allargavano, gli occhi erano iniettati di sangue e i suoi muscoli tesi.
- IO SONO IL DIO RE! SE DICO CHE TU DEVI MORIRE, MORIRAI. – ringhiò ferocemente contro il suo avversario.
Lanciò una seconda folgore contro di lui, incenerendolo ancora, ma Gilgamesh apparve ancora una volta. Lo distrusse ancora, ma riapparì e lo distrusse nuovamente e poi ancora, ancora e ancora, lo uccise decine di volte ma tornava sempre indietro.
- Tornerò sempre, stupido re dei vermi, se non mi affronti come un vero uomo. –
Zeus arricciò il naso e dilatò ancora una volta le narici, evocando due saette che schiantò l’una sull’altra nelle sue mani.
Le fuse assieme in una spada composta da un unico enorme diamante affilato percorso da intense scariche elettriche; al suo interno giaceva un fulmine intrappolato che si dimenava, desideroso di affondare nella carne del deicida.
- Non osare insultarmi, feccia del creato, io sono Zeus e ti eliminerò per sempre. – disse mettendosi in guardia. Tenne la spada con entrambe le mani e dato che la sua lama era molto lunga scelse una guardia alta, che da sopra la testa faceva piovere la spada lungo il suo braccio.
Una volta abbastanza vicino sferrò un fendente mirando al collo di Gilgamesh, ma lui si abbassò prontamente, schivando con abilità quel colpo, successivamente Zeus inclinò la lama verso l’interno e tentò un taglio diagonale sperando di colpire il suo avversario. Gil non era uno sprovveduto, sebbene avesse deciso che lo scontro con Zeus sarebbe stato alla pari con lui, era certo che il suo nemico non fosse ben allenato a maneggiare un arma ed infatti era così. Scartò velocemente di lato, evitando anche quel colpo, in seguito evitò un poderoso fendente discendente verticale inarcando la schiena ed un colpo alle caviglie saltando all’indietro, sfruttando la schivata precedente.
Prese le distanze dal padre degli dei ed iniziò ad applaudire vistosamente – Niente male, porco supremo, mi aspettavo peggio, ma io appartengo ad un’altra classe, un’altra categoria e ho passato gli ultimi seicento anni dilaniando e cacciando i tuoi figli e servi mentre tu hai poltrito sul tuo trono dorato. –
Gilgamesh infilò a fondo le dita nella sua cassa toracica penetrandola, poi la strappò via aprendola in due, gettando i due pezzi di carne ed ossa a terra. Le sue interiora sanguinanti erano esposte all’aria e si vedeva il suo cuore pulsare come un martello batte l’incudine, ma da esso usciva una sorta di manico di ossidiana riccamente decorato d’oro. Con la mano destra lo impugnò, squarciando i suoi organi interni e tagliandoli a metà mentre estraeva la lama da se stesso. Le sue carni si ricomposero all’istante ed il suo torace ricomparve come se non fosse accaduto nulla. La lama era lunga e sottile, con leggeri intarsi e decorazioni degne del più grande fabbro del mondo, il suo filo era luminoso come il sole stesso, ma era circondato da una strana luce violacea. La agitò in aria con estrema grazia disegnando dei piccoli cerchi, pulendola dal suo stesso sangue, poi la mostrò al suo avversario.
- Il suo nome proviene da una lingua che ancora non esiste, padre degli dei e il tuo sangue sarà il primo a bagnare il suo filo immacolato. Questa è Fear, la lama forgiata dalla mia anima, condensando in essa tutto il mio odio, il mio dolore, la rabbia e la follia che provo nei tuoi confronti… non sarò io ad ucciderti, ma lei. –  disse Gilgamesh mentre un ghigno malefico si scolpiva sul suo viso.
Zeus guardò quella lama con gli occhi sgranati, sudando freddo mentre il suo cuore accelerava per il terrore. Su di essa vide riflesso il passato, il presente ed il futuro di Gilgamesh e le innumerevoli vittime che avrebbe mietuto impugnandola; fra esse vide anche se stesso.
Il padre degli dei prese il coraggio a due mani e lanciò un nuovo fendente orizzontale contro il suo nemico, ma Gil lo deviò con il piatto della lama, arrivando a ferire l’addome del suo avversario, distruggendo la sua preziosa corazza.
Zeus fece un sussulto sentendosi colpito e rispose con un secondo fendente dal basso verso l’alto, ma fu bloccato con grande maestria dal deicida che lo colpì a sua volta con un forte pugno, scaraventandolo a metri di distanza, facendo crollare una parete e gran parte del tetto dell’edificio.
Zeus esplose di rabbia e si rialzò dalle macerie con una grande esplosione di fulmini che scaraventarono le macerie in aria, infine rialzandosi tentò un colpo disperato prendendo una lunga rincorsa.
Portò la sua spada adamantina in basso, facendo toccare la punta sul pavimento del palazzo, creando una sottile scia di scintille. Gilgamesh rimase in piedi senza muoversi finchè il suo avversario non tentò di colpirlo, ma all’ultimo istante, quando il suo pomposo nemico alzò la spada in un pericoloso fendente, lo schivò abbassandosi e voltandosi assieme ad essa, facendo perno sulla mano libera poggiata al suolo.
Gilgamesh ne approfittò per portare entrambi i piedi all’altezza del fianco di Zeus, che rimase scoperto per un istante. Tenendo la sua spada tra il pollice ed il palmo della mano, poggiò a terra anche quella, colpendo inesorabilmente il fianco del nemico con un poderoso calcio da mulo che lo scagliò verso il suo trono.
Gil riacquistò l’equilibrio sfruttando la spinta del calcio appena sferrato, avvitandosi in una breve piroetta aerea durante la quale lanciò la spada, che andò a conficcarsi nel cuore di Zeus mentre ancora era in volo e che in seguito lo inchiodò al suo scranno.
- I-io so-son… - disse il dio greco con un ultimo sospiro, alzando lo sguardo al cielo sanguinante che lo sovrastava.
Sentiva il sangue sgorgare a litri, le sue carni seccarsi, le sue vene svuotarsi della sua vita.

Gil si avvicinò a lui a passo lento, estrasse la spada dal cadavere e la poggiò a terra, poi essa svanì in una leggera fiammata.
Il cielo grondante di sangue si richiuse solo quando cominciò a divorare i cadaveri sparsi nella sala, lo fece nel più rigoroso silenzio, mentre la notte calava e il mondo piangeva una pioggia fitta, pregando per l’immensa strage avvenuta quel giorno.
Quando non vi fu più nulla da divorare Gilgamesh lasciò l’olimpo, scendendo lungo il suo picco e quando fu a valle alzò ancora una volta lo sguardo al cielo, fece comparire un foglio di pergamena ed una penna d’oca e scrisse alcune righe, poi lo conficcò in un albero con un coltello e svanì in una folata di vento.
Ciò che scrisse rimase come monito per coloro i quali avrebbero pregato l’olimpo che ormai era privo di dei;
Esso riportava queste esatte parole:
 
"Siamo egoisti" dico tra me e me, ma uso il plurale perché dirlo a me stesso è doloroso, oneroso, pesante. Allora alzo lo sguardo verso il cielo e rivolgo un pensiero alla sua immensità, ma me lo rispedisce indietro come fosse un rifiuto. Esso è immenso, bellissimo, ricolmo di pace e di terrore, ma ha sempre accolto le nostre speranze ed i nostri sogni accompagnandoli sulle vette del mondo e noi con essi.
Ora però i nostri sogni vengono infranti, ci vengono rigettati addosso, rubati.
Abbiamo riempito il cielo di sogni, l'hanno riempito di speranze e l'ho reso egoista come me, ha rubato i miei desideri.
Vedo il mio sogno volare lontano, insieme a tanti altri, ma non voglio che vada via, ho paura, impazzisco, il cielo è finito.
   
 
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