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Autore: Nidham    20/08/2014    1 recensioni
Cosa succede quando perdi te stesso e ritrovarti significa affacciarsi su di un mondo che non avresti mai voluto conoscere? In una Parigi a metà tra il reale e il fantastico, Alexandra si farà strada verso verità impensate, attraverso incontri affascinanti e terribili, nemici pericolosi e amici impareggiabili, fino a decidere se varcare l'ultimo cancello e accettare un destino da cui sembra non esserci scampo.
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Mi chiedo se dovrei rimettere a posto le bende sul braccio, ma mi sentirei parecchio sciocca a mummificare un arto perfettamente sano, quindi credo che sbandiererò il mio miracolo ai quattro venti e conterò sul referto probabilmente falso dell'ospedale per godermi qualche altro giorno di meritato riposo. Di certo non sto rubando soldi ai contribuenti perché sono comunque tutt'altro che in forma e anche perché, adesso che ci penso, la Saint Bernard de la Chapelle, per cui lavoro, è un istituto privato ed è finanziata da alcuni ricchi benefattori e dai genitori degli altrettanto ricchi alunni. Alla luce di questo, credo di intuire il motivo della mia scelta professionale. Mi piacerebbe illudermi che questa seppur magra informazione sia frutto di un insperato sprazzo di ritrovata memoria, ma la verità è solo che, ieri sera, rovistando nel ciarpame di questa casa, mi sono imbattuta in un raccoglitore nero decorato con minuscoli teschietti rosa pieno delle mie buste paga e da quelle ho desunto il poco che adesso credo di sapere sulla mia carriera professionale, di sicuro non troppo remunerativa.

Forse è un po' presto per chiamare Jasmine e chiederle chi sia il mio medico curante, ma la chiave di villa Morel se ne sta adagiata tutta sola nella busta che ho recuperato in ospedale e non infastidirei nessuno con una piccola gita a scopo puramente ricognitivo, soprattutto se non ne informerò un certo rompiscatole ansioso che correrebbe a incatenarmi al letto se solo subodorasse quello che voglio fare.

Mi faccio una doccia veloce e spreco più del tempo del dovuto davanti all'armadio, per cercare di capire quali fossero i miei gusti in fatto di abbigliamento. C'è veramente di tutto, qui dentro: dai tubini sexy ai jeans sformati, dai reggiseni da palestra alla biancheria di Victoria Secret. O sono sempre stata una tremenda indecisa o soffrivo di personalità multiple già prima dell'incidente, perché non sembra esserci nessun filo conduttore in questa accozzaglia di indumenti, a parte il fatto di essere piuttosto eleganti e di buon gusto, anche nei modelli più provocanti e succinti. Alla fine opto per un semplice paio di leggings marroni e un maglione color panna attillato, lungo fino a metà coscia, che credo possa essere considerato un vestito. Dopo essere uscita in versione totalmente sciatta, ieri notte, sento il bisogno di un filo di trucco e qualche accessorio grazioso che rivitalizzi il mio look, ma, nonostante la perdita di tempo dovuta ad un'ingiustificabile, quanto comprensibile, lampo di vanità, riesco a fuggire da casa prima che l'orologio segni le otto del mattino. Attaccato al frigo ho trovato un magnete con un biglietto e il numero di cellulare di Gabriel, che non mi ero minimamente preoccupata di chiedergli. L'ho infilato in borsa, assieme al mio nuovo telefono e alla nuova carta di credito che Philippe si è premurato di far attivare, appena saputo del mio risveglio in ospedale, guadagnandosi un discreto numero di punti.

Per fortuna nell'ultima mezz'ora sembra che il mio appartamento abbia seppellito l'ascia di guerra e tutto ha funzionato a dovere, senza incomprensibili sbalzi di elettricità o calore. Anche la sensazione di oppressione e malinconia è svanita, probabilmente perché, finalmente, mi sono decisa a dedicarmi a normali occupazioni quotidiane e ho smesso di rimuginare su complotti, esplosioni e matti con l'accetta. Magari dovrei lasciar perdere ogni mio progetto e andare dal parrucchiere, tingermi i capelli di un bel rosso brillante e dedicarmi a una giornata di shopping con Jasmine, abbordando qualche piacente nababbo pronto a pagare i nostri acquisti.

Sarebbe saggio e anche giusto, dopo quante me ne sono capitate, ma questa chiave dall'aspetto antiquato pesa come un macigno nella mia mano e il mancato ricordo del male a cui potrei aver contribuito non vuole darmi pace. Credo che potrei affogare nella mia amnesia per tutta la vita, ma non riuscirei a convivere con un senso di colpa a cui non saprei dare un nome o un volto, così rinuncio a voltare pagina e mi rassegno al fatto di essere meno insensibile ed effimera di quanto mi stessi considerando.

Scendo le scale con cautela, un po' titubante all'idea di affrontare il mondo completamente da sola; per quanto non mi piaccia ammetterlo, non è escluso che possa perdermi o trovarmi in difficoltà gironzolando per Parigi senza piena coscienza di chi sia, cosa faccia o dove stia andando. In un certo senso sono più disinformata di una bambina di cinque anni nei confronti di qualsiasi cosa mi circondi; ad ogni modo ricordo di aver visto una stazione della metropolitana proprio qui vicino, mentre i ragazzi mi accompagnavano a casa, e dovrei arrivarci facilmente girando a destra dal locale dove sono stata con Gabriel.

Pur certa della mia ipotesi, tengo le dita incrociate finché non mi ritrovo nella graziosissima piazza alberata con la pensilina in ferro battuto verde e la rincuorante scritta arabescata indicante la fermata di Abbesses.

Dopo aver percorso il precedente tratto di strada immersa in un sommesso brusio piuttosto piacevole, mi ritrovo all'improvviso al centro di una vera cacofonia di suoni e di un disordinato sciamare di persone troppo intente a correre per badare a chiunque abbiano intorno. Scarto all'ultimo istante un ragazzotto cicciottello su uno skate malandato e mi scuso con una giovane donna dall'aria insignificante che ho travolto nella mia schivata, senza ricevere in cambio altro che uno sbuffo inarticolato.

Di sicuro sono stata spesso anch'io una di loro, con la tazza termica di cappuccino in una mano, la borsa da lavoro nell'altra e lo sguardo spento di chi ancora non ha lasciato emotivamente il rifugio delle coperte, però, in questo momento, non posso permettermi distrazioni e sono costretta a cercare di visualizzare e catalogare quanti più dettagli possibili, nella speranza che uno faccia scattare un riflesso o un miracolo nella mia mente infingarda.

Mi fermo davanti all'ascensore, ma il numero spropositato di sardine pronto ad assaltarlo mi fa desistere e preferire le scale a chiocciola, attirata anche dai vivaci colori dei dipinti che ne decorano le pareti, raffigurando suggestivi scorci della città; d'altra parte, giunta alla banchina dopo aver scarpinato per sei infinite rampe di scomodi gradini anti-fisiologici, non posso dire di essere ancora contenta della mia decisione.

Studio bene la piantina sul muro, ma il percorso da fare sembra piuttosto semplice: mi basterà cambiare a Pigalle per la linea due e andare verso Porte Dauphine. Una volta sul posto al massimo chiederò informazioni.

Mentre salgo sul treno ricevo un sms di Philippe, preoccupato che non abbia risposto alla sua telefonata, così decido di rassicurare tutti e tre i miei presunti amici con un messaggio cumulativo in cui racconto loro solo mezza verità e dico di esser uscita per fare quattro passi e cercare di ritrovare me stessa; non ho intenzione di farli preoccupare senza motivo, quando il mio sopralluogo alla villa potrebbe rivelarsi nulla più di una scampagnata.

In quest'ottica, mi calo nel ruolo della turista e decido di godermi ogni istante della mia gita come fossi in visita in qualche esotica città straniera, concentrandomi tanto da riuscire quasi a convincermi di non essere una povera estranea a casa mia, ma ogni tentativo di sdrammatizzare si dissolve quando, quasi senza volere, mi ritrovo davanti al muro di cinta sbreccato e disordinatamente coperto di edera di casa Morel.

Non ho dubbi nel riconoscerlo, sia per i dettagli rubati dal video di Emile, sia perché, incomprensibilmente, il mio cuore ha perso un battito, osservandolo, e i miei piedi si sono inchiodati al suolo come se fossi involontariamente finita in una pozza di cemento fresco. Il muro sembra anche più alto e imponente di quanto non avessi immaginato dalla ripresa e comunica esattamente la sensazione per cui deve essere stato costruito: che nessuno osi avvicinarsi.

Sembrerebbe un ottimo consiglio, ma io ho la chiave, anche se non so come possa essermela procurata, quindi si può dire che sia legittimata ad aprire il pesante cancello di ferro ritorto e rugginoso da cui fa capolino la stessa casa dell'orrore dipinta nei quadri allucinanti del mio amico. Ovviamente mi baso su semplici intuizioni, perché non ho prove concrete che questa chiave apra proprio questa porta, per quanto ne sia sempre più convinta, man mano che mi sforzo di avvicinarmi, ma almeno questo dubbio potrò togliermelo entro pochi secondi, anche perché non c'è nessuno in giro e preferisco approfittare di non avere testimoni ai quali dover render conto del mio operato, nonostante agisca quasi senza dubbio in piena legalità.

La villa si apre su un incrocio di strade e si crea una corrente di aria fredda tanto pungente che devo scaldarmi le mani battendole tra loro prima di riuscire a tirar fuori la chiave dalla borsa.

Non credo di essermi distratta per più di venti secondi, quindi non posso rimproverarmi se finisco per sussultare quando, alzando gli occhi verso la cancellata, mi ritrovo vicina una donna pallida, imbacuccata in una mantella di lana pesante, nera come l'inchiostro, con un cappello di feltro dall'aria ancora più vintage, munito addirittura di una piccola veletta di pizzo consunto, arrivatami accanto senza produrre il minimo rumore.

Sono certa non ci fosse nessuno lungo la strada, ho guardato bene in entrambe le direzioni e non ho sentito aprirsi nessun portone nei palazzi vicini, ma questa specie di dark-retrò di mezza età non può essere scesa dal cielo, quindi sarà sicuramente uscita molto silenziosamente da uno dei condomini alle mie spalle e magari si è incuriosita vedendomi in piedi davanti ad una casa disabitata.

Non sembra una barbona, anche se indossa gli stessi abiti che avrebbe potuto portare la mia bisnonna. E' ordinata e elegante, con un portamento austero appena incrinato dal leggero incurvamento delle spalle, forse derivato più da un profondo dispiacere che da acciacchi di vecchiaia. Il suo volto, vicinissimo al mio, appare tirato e diafano, come se non vedesse da anni la luce del sole, e non ha un aspetto gradevole, perché è talmente magra che sembra di osservare un teschio appena ricoperto di pelle incartapecorita, anche se non gli darei più di una quarantina d'anni. Magari ha il cancro o qualche altra malattia terminale.

Incerta su come comportarmi, provo a esibire un sorriso di circostanza e faccio per salutarla, prima di notare come non stia minimamente prendendomi in considerazione, ma si limiti a starmi accanto, immobile, quasi fossi un cartello stradale o l'uomo invisibile.

I suoi occhi, in parte nascosti dalla veletta, che attenua, ma non cancella le profonde occhiaie viola da cui sono circondati, sono fissi su una delle finestre della villa, come cercassero di penetrare al di là dell'oscurità dei vetri sporchi e crepati, per cogliere movimenti che io non riesco neanche a immaginare.

All'improvviso sono sicura di non desiderare che quello sguardo febbricitante si posi su di me, così rimango in silenzio, quasi senza respirare, osservandola digrignare i denti in una smorfia di disperazione che non comprendo, ma incasso come un pugno alla bocca dello stomaco, quasi fosse stata troppo profonda per venire contenuta in un unico corpo e fosse defluita da lei insieme con un solitario, tremulo sospiro, al quale, per fortuna, segue un'improvvisa quanto assurda perdita di interesse per quel luogo, ben visibile nel subitaneo mutamento della sua espressione, adesso vacua e distante, come se stesse osservando un paesaggio ignoto o poco importante, a cui non valesse la pena dedicare un grammo del proprio tempo.

Deglutisco, maledicendomi per l'impercettibile rumore prodotto e stramaledicendomi per la mia insensata paranoia. E' solo una vecchia più pazza di me in fondo e non c'è niente di cui aver paura o da cui proteggersi.

Comunque non ho voglia di perdermi in altre conversazioni prive di logica e non mi dispiace quando, qualche istante dopo, decide di voltarmi le spalle e allontanarsi con passo malfermo lungo il marciapiede. Sono sicura che non abbia mai avuto idea di aver avuto qualcuno accanto, almeno finché, proprio quando sto per smettere di guardarla, non si volta di scatto, con la velocità e la grazia di un ballerino di danza classica, e punta su di me il dito affilato ricoperto da un guanto di velluto, come a indicarmi o ad ammonirmi, con un sorriso sgradevole che preferirei non aver visto e che non riesco a interpretare se non come un gesto nato dal delirio, per poi tornare a ignorarmi e riprendere dondolando la sua strada.

Certo che se ne incontra di gente strana in questa città, prima la prostituta modello damina dell'ottocento a Montmartre, poi questa signora macilenta tutta bardata di nero che sembra l'immagine della morte. L'avesse vista Gabriel, probabilmente avrebbe gridato al fantasma o allo zombie, considerato quanto fosse inquietante.

A pensarci adesso sono stata poco pronta di ingegno, ho dato per scontato che il suo interesse per questa villa derivasse da uno stato paranoide di demenza, ma non posso escludere che la poveretta, sebbene parecchio originale, fosse invece a conoscenza di qualche informazione utile o storia interessante. Se sta da queste parti, probabile che conoscesse anche i vecchi proprietari della casa, magari non Morel in persona, non mi pareva tanto vecchia, ma qualcun altro tra i poveretti che, nel corso degli anni, devono aver provato ad abitare qui e che potrebbe essere utile rintracciare. Onestamente non ricordo di aver letto niente riguardo a possibili acquirenti, ma sarebbe strano che una casa così grande, con giardino privato e palesi pretese di sontuosità sia rimasta sempre disabitata nell'ultimo secolo; per quanto le storie la descrivano corredata di fantasma e l'aria lugubre con cui si presenta non sia delle più rassicuranti, rimane comunque una villetta a solo, in pieno centro di Parigi, e non si può pretendere che sia perfetta: meglio un ipotetico fantasma che fondamenta instabili, alla fine. Forse il prezzo richiesto è esorbitante.

Comunque ormai è tardi per pensare di fermare la vecchia signora, non la vedo più lungo la strada e forse ho davvero fatto bene a non importunarla. Magari avrò modo di incontrarla di nuovo, in futuro, perché temo questa non sarà l'ultima visita in questo luogo infernale; adesso l'importante è non perdere altro tempo prezioso.

Come sospettavo, la chiave scivola perfettamente nel lucchetto e la serratura scatta al primo tentativo, per quanto sembri vecchia e rugginosa. Evidentemente era stata usata spesso, di recente, e temo proprio dalla sottoscritta e dal suo sconsiderato amico.

Mi scopro a desiderare un po' di sole che mi accompagni in questo lugubre giardino, ma un'occhiata allo spesso strato di nubi plumbee e minacciose sopra la mia testa fuga qualsiasi precedente speranza, eccetto quello di non trovarmi sotto un sonoro acquazzone.

Il cancello cigola leggermente e scruto intorno a me con un'aria colpevole che devo subito abbandonare se non voglio trovarmi un paio di gendarmi alle calcagna e una bella denuncia per un'effrazione che, tecnicamente, non ho commesso.

Vecchi proprietari o meno, non dovrebbe esserci nessuno in casa da anni, quindi perché sento abbaiare dei cani dal retro del giardino? E' diventato il rifugio per qualche randagio? Non è un pensiero piacevole, perché, anche se non credo di temere i cani, come regola generale, questo ringhio feroce e sommesso mi fa accapponare la pelle e dubito possa appartenere a un chihuahua. Sarebbe un peccato sprecare il miracolo appena ricevuto per la guarigione al braccio con un bel morso alla giugulare.

Rimango immobile per qualche secondo, aspettando di veder arrivare un branco di dobermann meticci con la schiuma alla bocca, ma continuo a sentire solo quel selvaggio brontolio infernale, cosicché, stufa di inconcludenti tentennamenti, allungo il primo passo oltre il cancello e tutto sprofonda in un perfetto silenzio.

L'unico rumore avvertibile è lo sbattere ritmico di una persiana per un vento che non capisco da dove arrivi e lo stridio del cancello tornato a chiudersi alle mie spalle. I cardini non erano a molla, ma, nonostante l'età, devono essere ancora perfettamente oliati.

A questo punto non mi resta che andare avanti e sperare di aver mal interpretato la provenienza di quegli ululati o di correre più veloce dei loro proprietari.

La casa sembra più imponente vista da qui e anche più vuota. È una sensazione strampalata, perché, allo stesso tempo, ho anche l'idea di non essere da sola e potrei giurare di aver captato con la coda dell'occhio il movimento di una figura troppo grande per essere un cane, intenta a nascondersi dietro un logoro casotto da giardiniere.

Quanto tempo sarà passato dall'ultima visita di Emile in questo posto? Al massimo una settimana. Possibile che ci si sia già insediato qualche barbone?

Comunque l'intrico folto e scomposto di erbaccia sotto i miei piedi è secco e ancora imperlato di rugiada cristallizzata, ma non vedo impronte sulla candida coltre di brina che ricopre il giardino, quindi, forse, ho solo un nuovo attacco di allucinazioni.

“C'è nessuno?” provo a chiamare senza troppa convinzione. “Non ho cattive intenzioni.”

“E spero proprio non le abbiate voi, se ci siete” aggiungo tra me e me.

Ovviamente non ottengo risposta e anche i cani continuano a tacere.

Godiamoci la quiete, prendiamo atto della paranoia galoppante e andiamo avanti.

Emile aveva fatto proprio un ottimo lavoro nel dipingere questa villa, fornendone un ritratto stranamente più fedele di quello ottenuto da me con la videocamera, perché i suoi dipinti sembrano essere fotografie dalle quali trasudi anche l'essenza stessa di questo luogo e ora che mi trovo davanti a questa facciata di mattoni e pietre consunte, con svariate paia di occhi tenebrosi a fissarmi, devo ammettere che gran parte del suo fascino deriva proprio dall'aria ostile e malevola che vi si respira.

C'è un sentiero selciato seminascosto dalla malerba che porta a un imponente portone a due ante in legno scuro, con un grosso battente forse di ottone, ormai reso opaco e rovinato dalle intemperie, a forma di testa d'animale, come andava di moda a inizio novecento. Da questa distanza non riesco a capire se si tratti di un cane o di qualche bestia mitologica, ma credo sia la stessa figura che si intravede incisa, tra le macchie di borraccina, sull'architrave di marmo che copre la porta e sulle colonnine che la incorniciano. Nel complesso è tutto un po' troppo ridondante e art nouveau per i miei gusti, per quanto rivisitato in chiave gotica.

Prima di andare a controllare se sia possibile entrare in casa, penso sia meglio fare un giro del giardino, tanto più che sembra sia stato quello a suscitare principalmente le fantasie malate di Emile.

Passo con prudenza vicino al capanno, perché è meglio una psicotica viva di un'incosciente morta, ma non noto assolutamente niente che faccia anche solo presumere il passaggio di qualcuno; deve essere proprio stato uno strano gioco di ombre. Per massima prudenza, circumnavigo completamente l'ammasso di mattoni dall'aria poco stabile e le sole impronte che vedo sull'erba sono le mie, ma proprio mentre sto per perdere interesse, sul fianco sinistro della baracca, vicino all'apertura, chiusa da un tavolaccio tarlato, vedo qualcosa che mi fa drizzare tutti i peli delle braccia e magari anche quelli delle gambe che mi sono scordata di radermi stamani: l'orma sbafata di una mano di un bel rosso vermiglio.

E' sangue? Subito mi volto istintivamente indietro, temendo un attacco alle spalle, ma, come era ovvio supporre, continuo a essere sola, con i nervi a fior di pelle, ma assolutamente al sicuro.

L'impronta è grande, probabilmente maschile, e è ben visibile sul giallo bruciato dei mattoni, ma non può essere stata fatta col sangue, a meno che non sia dannatamente recente, perché altrimenti sarebbe stata lavata via dalla pioggia. A ben pensare qualsiasi tipo di materiale sia stato usato per lasciare questo schifoso murale di pessimo gusto non può essere su da molto, perché è troppo vivido e brillante.

Mi viene a mente il divertente racconto di Wilde su una macchia di sangue maledetta e lo spirito di un nobiluomo cinquecentesco vessato dalla famiglia americana nuova proprietaria del suo maniero, ma qui non siamo ne Il fantasma di Canterville e di certo io non mi sono portata dietro il miracoloso smacchiatore Pinkerton, per cui posso o fuggire a gambe levate senza un motivo veramente valido, o decidermi a studiare più da vicino questo obbrobrio.

Cerchiamo di immedesimarsi in Sherlock Holmes: nessuna impronta a terra tra me e il muro; nessuna strana scia di gocce rosse sul terreno; nessuna traccia di pennellate o schizzi sulla parete. Magari per il grande detective questo avrebbe potuto voler dire qualcosa, ma per quanto mi riguarda io rimango al punto di partenza. È la stramaledetta impronta rossa di una mano, priva di odore o altri segni distintivi, e mi sono stufata da perderci tempo. Chiunque l'abbia lasciata, con vernice o fluidi corporei, di certo non è più qui, quindi perché preoccuparmene?

Giusto per sicurezza faccio una foto col cellulare, poi apro la porta del capanno, che, per fortuna, non è chiusa a chiave, e mi ritrovo davanti il prevedibile e rassicurante caos tipico di ogni magazzino: una scaffalatura di legno tarlato si è ribaltata, rovesciando a terra un bel po' di ciarpame rotto o semi rotto, sulla parete di fondo c'è una brandina, con un materasso anteguerra pieno di buchi, su cui sono poggiate varie casse di legno coperte di polvere e infine, proprio vicino alla porta, appoggiata amorevolmente a un ceppo da taglialegna, troneggia un'ascia di dimensioni notevoli, con la lama coperta da un liquido ormai secco dello stesso colore dell'impronta qui fuori.

Deve essere quella a cui si è ispirato Emile per i suoi dipinti. Probabilmente l'ha studiata un po' troppo da vicino e l'ha sporcata coi colori, anzi, considerato quanto fosse strafatto, non mi meraviglierebbe che ci si fosse anche ferito, qualche volta, mischiando il suo sangue alla vernice. È un pensiero assurdamente inquietante, che vorrei non aver formulato. Per un attimo mi gira la testa e sono costretta a reggermi allo stipite sbrecciato della porta per non cadere e non spaccarmi la testa con quest'arma impropria. Ho la nausea, forse per il forte odore di muffa, o per la persistente debolezza da cui non riesco a liberarmi, o forse perché, negli attimi confusi che precedono lo svenimento, mi pare quasi di ricordare il mio amico e la scena che immagino è agghiacciante: lo vedo in piedi davanti alla fontana, con lo sguardo perso in incubi a me ignoti e le spalle ossute tese in un espressione di sfida, rovinata dal costante tremolio delle braccia, affaticate dall'immane sforzo di sostenere il manico dell'ascia, troppo pesante perché riesca a sollevarla, ma troppo importante perché possa lasciarla cadere, nonostante il sangue scorra copioso dalle sue mani fino alla lama, conficcata in terra come un'ancora, in mezzo a un mare di vernice maleodorante, tracimata da decine di secchi rovesciati. Non avverto suoni, in questo ricordo o allucinazione, ma sono sicura, al di là di ogni dubbio, che Emile stesse ridendo, una risata che non credo sarei felice di sentire.

Mentre provo a riprendere il controllo di me stessa, scavalco le sbarre spezzate dello scaffale e frugo tra gli scatoloni sulla brandina. Ci sono un sacco di vecchi aggeggi per cani, usurati e ormai inutilizzabili: collari borchiati marcescenti, guinzagli di ferro arrugginito, ciotole sporche sbreccate, il tutto con una foggia da inizio secolo. C'è una bambola di porcellana dal volto annerito, degna di un film dell'orrore, e un secchio di latta con dentro una sega a mano e un martello.

Non ho lo stomaco di alzare alcuni teli pieni di ragnatele e di sgradevoli palline nerastre, probabilmente lasciate da qualche topo, ma c'è qualcosa di interessante nell'angolo più estremo del materasso che devo assolutamente raggiungere: un barattolo dall'aspetto nuovo e lucente, senza un briciolo di polvere sopra, che ha tutta l'aria di essere pieno di vernice, o almeno di esserlo stato.

Mi serve un bastone o qualcosa di lungo per afferrarlo dal sottile manico di ferro senza dovermi allungare su questo schifo di ciarpame e la cosa più lunga che ho a disposizione è proprio la famigerata ascia, se riesco a sollevarla. Avrei dovuto portarmi dei guanti, perché la cosa peggiore che potrebbe capitarmi qui dentro è prendermi un'infezione; a forza di ascoltare Gabriel mi sono preoccupata di un sacco di sciocchezze, dimenticando i problemi seri.

Per fortuna questo aggeggio non è pesante quanto avrei pensato, anche se non riuscirei mai a brandirlo come un'arma. Toccarlo mi provoca una spiacevole sensazione di disagio, forse perché il manico è freddo come fosse stato in una ghiaccia e tanto liscio che sembra di afferrare il corpo di un serpente; ad ogni modo serve perfettamente al mio scopo e riesco a prendere la latta senza rovesciarla.

È più vecchia di quanto pensassi, probabilmente contemporanea agli altri ammennicoli di questo buco, eppure è perfettamente conservata, pulita e non sfigurerebbe in una moderna ferramenta. Non ha marca, né indicazioni su materiale o composizione, sul coperchio c'è solo uno strano simbolo, vagamente simile a un pentacolo, con una scritta consunta dai caratteri elaborati, in cui riesco a leggere a fatica: La bottega delle meraviglie, forse il nome del negozio in cui è stata acquistata. Sotto ci sono due iniziali, incise malamente, di sicuro in un secondo momento: J. M., come il nome del vecchio padrone di casa. Un po' paranoico per mettersi a siglare un barattolo di vernice, comunque ormai Morel è morto e posso derubarlo senza preoccuparmi della sua possessività; potrebbe essere utile studiare questa vernice, magari ce n'era altra, in casa, Emile l'ha usata e è stato intossicato da qualche vecchio composto deteriorato o comunque velenoso.

Mi guardo intorno un'ultima volta, ma non c'è più niente di interessante, così, lasciando cadere l'ascia, che rimbomba come se l'avessi lanciata da sei metri d'altezza, mi sposto con l'idea di ripercorrere l'itinerario visto su DVD.
Il cortile sul retro è davvero trascurato e decadente come appariva nel filmato e, nonostante adesso sia giorno, non è decisamente meno lugubre.

C'è un grosso albero scheletrico di non so quale specie che ha quasi invaso il sentiero a lato della villa e un ramo è stato spezzato di recente, ma è troppo distante dalle finestre perché si sia trattato di un tentativo di effrazione.

In fondo al cortile, in un angolo nascosto quasi totalmente dalla vegetazione ormai fuori controllo, noto, per la prima volta, i resti di un recinto coperto, costruito in un disordinato connubio di pietre, legno e reti metalliche. Forse Morel teneva lì i cani per i quali usava i collari e le ciotole riposte nel magazzino.

Il gazebo è tanto imponente quanto fragile e ho paura possa cadermene in testa un pezzo mentre mi avvicino a osservare la statua che già avevo visto nella registrazione, meravigliandomi per la sua inquietante bellezza, ancora più coinvolgente ora che le sto vicina.

È interamente di marmo nero, a parte gli occhi del giullare, di una strana pietra dura color rosso fuoco, appena visibili attraverso le palpebre socchiuse, modellate così finemente che sembra stiano per aprirsi sotto il mio sguardo. Il volto della creatura è contorto e grinzoso, il mento sfuggente, il naso adunco di un rapace e le guance infossate, il sorriso è un ghigno da squalo spropositatamente ampio. In compenso la figura di donna che tiene tra le braccia è la quintessenza della beltà: il corpo nudo ha linee morbide e armoniose, il volto, addormentato, tratti gentili e squisitamente femminili. L'unica nota discordante è una sbarra di ferro simile a una lancia con la punta a cuore che, tenuta da una mano del giullare, trapassa il ventre della donna, uscendo dal lato sinistro del costato, quasi in una macabra rappresentazione di omicidio.

Forse è per questo che la statua, pur nella sua oggettiva perfezione estetica, è tutt'altro che piacevole da guardare; mi attira come una calamita, ma è anche impercettibilmente o istintivamente ributtante, é un effetto simile a quello provocato da un megalitico incidente d'auto che non si riesce ad ignorare, ma si vorrebbe non dover vedere mai.

Sulla gamba sinistra della figura femminile, avvinghiata al vecchio, intravedo un sottile segno circolare dal colore indefinito; purtroppo suppongo che Emile se ne fregasse della possibilità di rovinare un oggetto tanto pregiato e costoso e vi abbia deposto barbaramente un barattolo di vernice. In effetti deve aver dipinto la villa da questa angolazione, perché, sebbene meno irreale, sto osservando proprio la facciata che ho visto nel video, con due ordini di finestre dalle persiane screpolate, semiaperte o aperte su vetri sporchi e incrinati, e una porta non imponente come quella d'ingresso, ma altrettanto intarsiata, di legno massiccio, nero quanto la statua, e con un intrico contorto di figure umanoidi assolutamente sprecato per un ingresso di servizio. C'è persino una maniglia a forma di testa di cane, che sembra, stranamente, fatta di rame, ma ormai è lurida di polvere, pioggia e corrosione e dà solo un aspetto ancora più inappropriato alla ridondante ricercatezza della porta. Al centro dello stipite, a mo' di pietra di volta, si intravede un'immagine abbozzata, meno elaborata delle altre, simile ad una spirale, che avevo appena notato e ritrovo immediatamente proprio sulla punta centrale del cappello del giullare.

Improvvisamente, dietro di me, sento un vivace mormorio di acqua corrente, piacevole se non pensassi che la fontana era totalmente secca fino ad un istante fa; forse ha una specie di timer arcaico tuttora in funzione, come a Versailles, o forse c'è una perdita in qualche tubo perché la prima ipotesi è palesemente confutata dai fatti: tutti i diavoletti e i cagnacci sono asciutti, a parte per il velo untuoso dell'umidità novembrina.

È una vecchia casa, probabile che le tubature abbiano qualche difetto che non renderà di certo più facile la vendita.

Faccio per dirigermi all'ingresso, ma uno scalpiccio veloce di passi mi blocca; qualcuno sta correndo in questa direzione dal giardino di fronte e, anche se non ho forzato il cancello, non vorrei trovarmi davanti un gendarme incazzato o, peggio, un malintenzionato disturbato dalla mia visita inaspettata. A giudicare dal rumore sembra un'unica persona e poco pesante, ma io sono pur sempre disarmata e convalescente, quindi, fregandomene di fare l'eroe, mi nascondo dietro la statua e spero di non essere notata.

I secondi passano, il trapestio si avvicina, e ancora non vedo nessuno. Eppure, ormai, dovrebbe essere davanti a me, anzi, adesso sembra quasi mi stia superando e l'eco dei passi svanisce alle mie spalle.

Che diamine è successo? Ci sono delle gallerie sotterranee, in questo strampalato posto? O c'è una forma stranissima di eco per cui quello che ho udito non era altro che il rimbombo di un passante lungo la strada?

È un po' illogico, ma di certo qui non è transitata anima viva. L'aria è stata anche invasa da un intenso odore di gelsomino e caprifoglio, improbabile in questa stagione, a meno che al di là del muro di cinta non si sia rovesciato il cassone di un camion che trasportava profumi o che la donna della quale ho sentito la corsa non si fosse fatta un bagno nell'acqua di colonia.

Forse è stato proprio questo assurdo genere di fenomeni a scatenare la fantasia malata di Emile, facendogli dar vita ai mostri della fontana, alla statua oscena e ai fantasmi dei vecchi proprietari che, nella sua mente deviata, avrebbero dovuto continuare a infestare queste cadenti mura dall'aria troppo gotica per non dar origine a leggende metropolitane.

Per fortuna io ho un po' più di buon senso e non mi lascio impressionare da tubi rotti o rimbombi inconsueti.

Mentre torno ad avvicinarmi alla porta, provo a capire come funzioni la fontana, meravigliandomi della sua semplicità: c'è una piccola maniglia di ferro, tonda, collegata a un tubo che sparisce sottoterra, così sporca che non credo sia stata toccata da almeno vent'anni. Provo a forzarla e, dopo qualche tentativo infruttuoso, mi rimane in mano, ma nemmeno così l'acqua inizia a scorrere. Questo potrebbe giustificarsi con la perdita che ho sentito e che deve essere più grave di quanto non supponessi, se lascia completamente a secco l'impianto idraulico della casa.

In realtà, sul fondo della fontana, sotto la melma verdastra, pare esserci uno strato sottile di liquido, ma credo sia solo il ricordo dell'ultima pioggia. Il tanfo è nauseabondo, tanto da farmi rimpiangere l'intossicante aroma del gelsomino; ha un retrogusto ferroso che rimane sulla lingua, come se ci fosse del sangue mischiato all'acqua. Magari ci si sta decomponendo dentro qualche uccellino o qualche rana; sondo la base con un ramoscello, incerta di cosa potrei pescare, finché rimane bloccato e temo di aver finito di intasare lo scarico. Cerco di tirarlo via con tutte le mie forze, scoprendomi più debole di quanto non credessi perché il ramo non si muove di un millimetro, come l'avessi incuneato in una morsa di ferro e non in un banale buco nella pietra. Prima di spezzarlo e consolidare il danno, tento di spingerlo in basso, sperando di allentare la tensione, ma mi ritrovo a giocare al tiro alla fune con un risucchio inspiegabile e potentissimo che quasi me lo strappa dalle mani, prima di interrompersi repentinamente com'era iniziato, facendomi cadere in malo modo, col sedere per terra e la faccia sporca della melma grondante da un pezzo di stoffa lurida infilzato in cima al ramo. Un tempo quel frammento doveva essere bianco, ma ora è coperto di chiazze marroni, verdi e rossastre; forse è uno degli stracci di Emile, lanciato in giro in uno dei suoi non rari momenti di follia, ma c'è anche qualcos'altro aggrovigliato ai fili sfrangiati dell'orlo e seminascosto nella stoffa: un pezzo di cordoncino metallico a maglia bizantina, che sono certa sia d'argento anche se è completamente annerito e fangoso e che sembra il residuo di un braccialetto o di una catenina da signora.

Lo pulisco con un fazzoletto di carta, ma non riesco a migliorarne molto l'aspetto, perché la patina lasciata dal tempo è troppo resistente e non risale sicuramente a poche settimane fa. Se anche il panno apparteneva a Emile è rimasto invischiato con qualcosa che era stato perso molto prima, in questa fontana. Si intravede un'incisione su una piastrina all'angolo del fermaglio, non il simbolo del metallo, ma forse un marchio del produttore o un nome: Fatva, Fedwa o qualcosa di simile; pare arabo o indiano, e, se non sbaglio, la moglie di Morel era straniera. Alcuni siti la definivano un bellissimo, delicato fiore dagli oscuri petali; avevo pensato ad un'immagine balorda per “affascinante e crudele”, ma magari si riferivano banalmente all'abbronzatura tipica delle donne del medio-oriente.

Stasera, se il computer collaborerà, cercherò ulteriori notizie, o, in disperazione, chiederò a Gabriel, anche se dovrò sorbirmi un'estenuate ramanzina per avergli disobbedito. Avrà anche buone intenzioni, ma è uno strazio. E poi la sua prudenza è eccessiva, non ho trovato alcun pericolo qui, a parte quelli prevedibili in una casa disabitata, e credo di saper scansare un mattone rotto o evitare di sbattere la testa su qualche trave malferma. A sentire lui avrei fatto meglio a girare in piena notte alla Gare du Nord piuttosto che avventurarmi in questa villa, come se le pareti mi fossero potute crollare in testa o ci fossero stuoli di maniaci accampati negli angoli.

L'unico segno di pericolo inatteso che ho riscontrato è stato quel latrare di cani, che avrebbero potuto rivelarsi un problema, ma poi non ne ho visti nessuno, quindi dare retta ai suoi iper-prudenti consigli sarebbe stato inutile.

  
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