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Autore: Leoithne    12/09/2014    3 recensioni
Esistono storie che non avete mai sentito raccontare, perché mai uscite da labbra umane. Gli oggetti, i mobili, persino le pareti hanno tantissime cose da narrare. Dietro al loro apparente e freddo silenzio nascondono pensieri e ricordi, un muto libro di memorie, stralci di una meravigliosa vita vissuta. Soprattutto quelli del 221B di Baker Street.
Genere: Comico, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Secondo capitolo. E sì, parla sempre di mobili. Per cui, se siete passat* indenni dallo scorso capitolo, spero che sopravviverete anche a questo!

Come al solito ci vuole un ringraziamento immenso a Ida che, davvero, è l'ispirazione e il supporto di tutto ciò. Perché senza di lei i mobili sarebbero rimasti solo mobili. E, invece, parlano.


Una cosa che certamente non ci si aspetta nel 221B di Baker Street è di sapere che anche oggetti più piccoli hanno i loro personalissimi ricordi. Insomma, una poltroncina è un oggetto solido, importante, imponente persino. È  logico, dunque, pensare che abbia dei ricordi altrettanto solidi ed importanti.

Spesso, invece, ci si dimentica degli oggetti più fragili, quelli che si maneggiano sempre con un certo rispetto perché pronti a rompersi da un momento all’altro. Come possono oggetti simili avere memorie degne di essere tali? Com’è possibile che non dimentichino tutto in pochi secondi? Del resto, piccoli come sono, dovrebbero avere una memoria breve. Ma non è così.

La prova più lampante dell’incorrettezza di questa teoria proveniva certamente dalla tazzina del servizio da tè.

La tazzina aveva molti più ricordi di quanto si credesse perché, nonostante l’apparenza ancora perfettamente lucida della sua porcellana – era una tazzina di squisita fattura -, cominciava ad essere decisamente vecchiotta. Più vecchia della poltroncina, ma, grazie al meraviglioso strato di vernice lucidante che la ricopriva, sembrava sempre nuovissima.

Il primo ricordo della sua esistenza a Baker Street non era legato a quello scorbutico di Sherlock Holmes. Non l’aveva certo comprato lui il servizio da tè. E come avrebbe potuto?, si chiedeva spesso nelle sue lunghe ore passate al buio della credenza in cucina, quell’uomo non sapeva neanche vagamente come si preparasse un tè! Cosa che lei, d'altronde, trovava estremamente disdicevole per un uomo con quella classe innata. Comunque, le tazzine, si sa, tendono a divagare, il suo primo ricordo era legato ad una simpatica signora un po’ troppo ciarliera, ma con un cuore grande come l’intero universo.

Era stata Mrs. Hudson che l’aveva prelevata dallo scaffale dove giaceva mezza impolverata. Era stata Mrs. Hudson che, appena arrivata a casa, l’aveva immersa in un bel lavandino con l’acqua calda, ma non troppo, per ripulirla da quell’odioso strato di pulviscolo che le faceva quasi il solletico.

Aveva vissuto un’esistenza tranquilla in quella casa per dieci anni: tè con le amiche di Mrs. Hudson, uno o due parenti che la venivano a trovare e, infine, uno strano giovanotto dai capelli neri di cui Mrs. Hudson aveva tessuto le lodi per un paio d’ore, mentre lui sembrava incredibilmente seccato. Non le era piaciuto o, meglio, le aveva fatto uno strano effetto quando l’aveva presa in mano per la prima volta. Aveva delle dita strane, fredde e calde al tempo stesso. Come se fossero due persone in una.

Poi, un giorno, Mrs. Hudson l’aveva consegnata proprio a quell’uomo.

“Sherlock, visto che ti devi sistemare in questa casa, ho pensato di regalarti questo.”

Era andata proprio così. Era un ricordo un po’ strano e, in certi momenti, amaro. Perché dalle mani di Sherlock Holmes era passata direttamente alla credenza e vi era rimasta per un tempo che le era parso infinito.

Per questo motivo aveva un altro ricordo che la rallegrava. Uno di quelli che, quando ci si soffermava sopra, le faceva scaldare il cuore. Proprio come faceva il tè quando veniva versato al suo interno.

Un giorno, non sapeva dire che giorno fosse, aveva sentito una voce non familiare provenire dall’esterno della credenza. Sherlock aveva raramente delle visite e lei aveva un’ottima memoria nel ricordarsi le voci. L’uomo che stava parlando in quel momento aveva una voce sconosciuta. Una voce calda, così diversa dal tono baritonale di Sherlock. Le piacque subito.

“Sherlock, dove tieni le tazze da tè?”, aveva chiesto.

E così la tazzina fu eternamente grata a John Watson perché, dopo mesi di buio, rivide la luce e il tè. E che tè. John Watson, il nuovo (e unico) coinquilino di Sherlock, preparava un tè magnifico. Migliore, persino, di quello di Mrs. Hudson. Caldo al punto giusto, con un aroma perfetto.

Ma il ricordo non era nello specifico questo. Era legato a questo perché John aveva preparato il tè per Sherlock e a quell’uomo, sempre così freddo e posato, si erano illuminati gli occhi quando il biondo gli aveva porto la tazza. John non se n’era accorto, ma lei sì. Era un’ottima osservatrice, la tazzina. Non potevano sfuggirle certi elementi. L’uomo freddo-caldo era diventato caldo-bollente, aveva persino balbettato un ringraziamento mentre prendeva la tazza. Non lo aveva mai fatto prima d’allora.

Lei ne fu immensamente felice. Le piaceva trovare conferma che le sue deduzioni, proprio come quelle del detective, erano corrette. Quei due insieme erano perfetti ma, con suo estremo rammarico, sembrava che non se ne accorgessero. A lungo si chiese come fosse possibile: si guardavano, ridevano delle stesse cose, John era l’unico che fosse mai riuscito a far comportare Sherlock in maniera decente. Sherlock quasi obbediva a John. Innamorato. Eppure non diceva nulla.

E le mani di John, quando la passava a Sherlock, tremavano leggermente e lei poteva chiaramente sentire il pulsare del suo cuore sotto il sottile strato di pelle. Batteva forte. Innamorato. Eppure, anche lui, non diceva nulla.

Strani gli esseri umani, pensava ogni tanto.

Ma non tutti i suoi ricordi, purtroppo, erano rose e fiori. Ne aveva uno che cominciava in maniera assurda. Cominciava il giorno in cui Sherlock Holmes preparò la sua prima, vera tazza di tè. All’inizio non si capacitò di cosa stesse succedendo. Lei, nonostante le sue ottime capacità deduttive, era quasi sempre chiusa nell’armadietto e aveva una conoscenza estremamente basilare di cosa succedesse all’esterno. Per questa ragione era sempre stata molto invidiosa degli altri mobili, soprattutto della poltroncina, tanto che, una volta, si era persino permessa di versarle il tè addosso per macchiarla. Un dispetto.

Comunque - come si può notare, davvero le tazzine divagano sempre – Sherlock quel giorno aveva preparato il tè. Per un attimo aveva pensato che la stesse preparando per John, che fosse l’inizio di qualcosa d’importante. Ma le mani di Sherlock, quando la toccarono, erano fredde. E non erano mai fredde quando pensava a John.

Sherlock l’aveva consegnata ad un uomo che non conosceva, un uomo che Sherlock, evidentemente, disprezzava. E lei, nel suo piccolo corpo di porcellana, non poté che essere d’accordo con il giudizio del detective.

Ricordava ancora le fredde dita dell'uomo che Sherlock non osava quasi chiamare per nome. Le sentiva intorno al suo manico e rabbrividiva. Non potevano essere dita umane, come potevano esserlo? Non c’erano sentimenti, non c’erano emozioni. Solo, qua e là, un minimo tremore d’eccitazione quando Sherlock sembrava soccombere alle sue insinuazioni. Anche le sue labbra erano fredde. Faceva paura quell’uomo. Moriarty. Sperò di non vederlo mai più.

Ma la cosa che più le spezzò il cuore fu vedere Sherlock dopo che l’uomo se ne fu andato. Non disse niente per cinque minuti. Semplicemente la sollevò e la appoggiò nel lavandino. Poi si mise a piangere. Un singhiozzo dopo l’altro. Lui, l’uomo impassibile, l’uomo che non aveva mai lasciato trasparire le sue emozioni, si stava sciogliendo in un fiume di lacrime.

“John…”, aveva detto con voce tremante “John, perdonami. Perdonami. Io… ho paura che dovrò fare una cosa. Una cosa che non ti piacerà. Una cosa che non voglio fare, ma dovrò farla. Per te, John. Mi dispiace. Scusami.”

Perché, poi, non avesse mai detto quelle parole direttamente a John, lei non riuscì mai a capacitarsene.

Fortunatamente, quel ricordo tanto triste (a cui, purtroppo, ne seguirono molti altri) che l’aveva tenuta sveglia più di una notte fu sostituito da uno decisamente più felice, anche se giunse molto tempo dopo. Era il suo ricordo preferito. Un ricordo talmente perfetto che, se avesse potuto, avrebbe urlato ai quattro venti quanto fosse bello.

Era il ricordo delle dita di Sherlock e John che si sfioravano sul suo manico e che, per la prima volta, non si ritraevano secondi dopo. Rimasero lì, ferme: indice su indice, medio su medio, mano calda su mano calda. Sentì i battiti di entrambi accelerare al contatto prolungato, li sentì tremare per l’anticipazione del momento, li sentì vicini come non lo erano mai stati. Elettricità che si accumulava nell’aria, uno sguardo infinito tra i due. E, infine, Sherlock si era abbassato verso John, il viso a pochi centimetri di distanza, finché le labbra non si erano incontrate. La tenevano sempre in mano, stringendola con forza, mentre si baciavano. Riuscì a sentire tutto quello che non si erano mai detti, tutto quello che avevano nascosto, in quel bacio. Che fu un’esplosione, che fu fuochi d’artificio, e fu dolce, e fu tenero. Fu tutto.

Per un momento pensò che sarebbe andata in frantumi dall’emozione. Riuscì a trattenersi, fortunatamente. Non era bello rompersi di punto in bianco in mano alla gente. E lei era una tazzina educata.

Quel ricordo era ciò che di più importante aveva. Non era sicura che qualcos’altro di più bello avrebbe mai potuto sostituirlo. Ma, forse, per la prima volta nella sua vita, si stava sbagliando.

  
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