Quando scrivo in inglese sono solita cominciare le mie storie con un motto...oggi lo dico anche qui: "All the rights to BBC, all the fun to me!" (e, credetemi, non mi sono mai divertita così tanto a scrivere una storia!)
Spesso, se si pensa alla camera da letto, il mobile che salta maggiormente agli occhi è il suo protagonista indiscusso: sua maestà, Il Letto. Non importa quanto piccolo o grande sia, non importa se a baldacchino o con la testata di metallo, non importa neanche se con il piumone o solo il lenzuolo. Egli è, indiscutibilmente, l’unico oggetto che occupa il cinquanta per cento della stanza stessa.
Per
questa ragione ci si dimentica che a
fargli compagnia ci sono altri mobili che, non dimentichiamoci, sono
anche loro
incredibilmente importanti. Ne è un esempio il comodino. Il
comodino, si sa, ha
una visione migliore dei dettagli di quella che, invece, può
avere il letto. Il
letto subisce la pressione dei corpi, il comodino li osserva e li
capisce. E il
comodino della camera da letto di Sherlock Holmes al 221B Baker Street
aveva
capito molte cose molto prima di tutti gli altri mobili.
Ricordava,
per esempio, la vita di
Sherlock prima dell’arrivo di John. Lo ricordava arrivare in
camera a malapena
una o due volte la settimana. Lo vedeva sdraiarsi sul letto e passare
le sue
notti a fissare il soffitto. Lo aveva compatito ogni volta. Lui, dal
suo
angolino accanto alla porta, capiva. Capiva quanta solitudine ci fosse
nei
gesti quasi meccanici di quell’uomo, quanta ce ne fosse nel
modo in cui
lentamente si spogliava dei suoi abiti quotidiani, quanta ce ne fosse
nel
malinconico sorriso che, ogni tanto, appariva sul suo volto quando dava
distrattamente un’occhiata allo specchio. Forse, pensava il
comodino, gli altri
mobili della casa non avevano l’opportunità di
vedere questa fragilità. Lui,
l’uomo con gli occhi di ghiaccio, diventava un'altra persona
chiuso lì dentro,
dove nessuno poteva vederlo.
Poi un
giorno era arrivato un certo John
Watson. Ricordava bene di essersi stupito del fatto che Sherlock avesse
deciso
di vivere con qualcuno. E ricordava più che bene la prima
sera che il detective
aveva passato in camera da letto dopo che quel John Watson era
arrivato.
Sherlock era entrato in camera con un sorriso diverso e, quando aveva
appoggiato il cellulare su di lui, lo aveva fatto con delicatezza. E
lui sapeva
bene con quale violenza compiva, solitamente, quel gesto. La fredda
superficie
del telefono lo aveva sfiorato, accarezzato e lo stesso Sherlock aveva
passato
delicatamente le sue dita sull’oggetto, emettendo un sospiro.
Il comodino aveva
subito capito che qualcosa era cambiato. E quel qualcosa aveva
certamente a che
fare con quel John Watson.
Non
appena si era seduto sul letto (e
quel maleducato di mobile si era lasciato sfuggire un gemito di
disapprovazione), il comodino lo aveva udito perfettamente.
“John
Watson. Era pericoloso e lui è
arrivato. Mi ha salvato la vita. No, tecnicamente non me l’ha
salvata e
tuttavia… c’è qualcosa in lui che non
saprei definire, qualcosa che mi lascia
un rimasuglio dolceamaro nel petto. Non capisco. Ed io detesto non
capire.”
Ma il
comodino, ebbene sì, aveva capito.
Se avesse potuto lo avrebbe urlato a squarciagola. Avrebbe preso
Sherlock, lo
avrebbe sbattuto contro il muro e glielo avrebbe detto chiaramente:
“Sherlock,
quel John Watson ti piace! Lo vedo nel modo in cui sorridi, nel modo in
cui i
tuoi gesti quotidiani sono cambiati, nel modo in cui, ora, stai
parlando di
lui.”
Si sa,
però, i mobili non possono dare
voce ai propri pensieri e il comodino rimase muto, inascoltato,
sperando dentro
di sé che Sherlock capisse presto, che comprendesse quel
velo di dolcezza che
gli stava cominciando ad avvolgere il cuore. Era così felice
all’idea che
quell’uomo avesse trovato qualcuno che non vedeva
l’ora di vederli insieme su
quel borioso e lamentoso letto. Che si sarebbe poi lamentato tutto il
giorno
successivo di quanto fossero pesanti, di quanto si fossero mossi
troppo, di
quanto le sue molle non ce la facessero più a sostenere una
simile fatica. Lui,
invece, dalla sua posizione avvantaggiata, si sarebbe goduto tutta la
scena.
Purtroppo
anche le silenziose preghiere
dei mobili passano inascoltate e i ricordi che seguirono questo primo,
dolcissimo ricordo furono decisamente meno piacevoli per il comodino.
Uno di
questi ricordi riguardava la sera
in cui l’appartamento aveva tremato a causa di
un’esplosione. Se lo ricordava
benissimo: il colpo, il rumore assordante, il suo lato sinistro che
sbatté
contro il fianco del letto. E si ricordava anche uno Sherlock che era
entrato
nella stanza sbattendo la porta più forte che poteva.
E
aveva urlato. E, per sua conoscenza,
Sherlock Holmes non urlava mai nel silenzio della sua camera.
“L’ho
deluso! Io? Io avrei deluso lui? Ma
cosa crede che io sia? Che stia lì a badare alla gente che
mi sta intorno?”
Eppure
guarda come badi a ciò che pensa LUI, aveva
pensato il comodino che, al
solito, aveva capito benissimo che lui
poteva solo essere il “mio John”.
Perché, nell’intimità della camera da
letto,
Sherlock lo chiamava proprio “il mio John”. Forse
non se ne rendeva neanche
conto, si diceva il comodino, tentando di non dare troppo a vedere che
quel suo
scricchiolio di tanto in tanto erano, in realtà, mormorii di
disapprovazione.
La sua personale disapprovazione per il fatto che Sherlock provasse
tutto
quello e non lo dicesse a John. Su quello che provava il dottore non
sapeva
molto, ma immaginava che provasse lo stesso per Sherlock,
perché altrimenti non
si sarebbe spiegato come mai vivesse ancora con lui. Il comodino non lo
sapeva
con certezza, ma lo capiva. E allora perché non si
parlavano? Perché non
dicevano quello che avevano da dirsi?
“Che
se ne vada pure! Che se ne vada da
quella…come si chiamava? Faccia quello che vuole! Io non ho
bisogno di lui!”
Chiaro.
Evidentissimo. Il comodino provò
pietà a sentirgli pronunciare quelle parole. Era
così lampante che, tra la
rabbia, ci fossero delle lacrime ai lati degli occhi azzurri. E aveva
avuto la
conferma di quanto l’uomo stesse male nel bel mezzo della
notte quando, ancora
sveglio perché il detective continuava a controllare se sul
suo cellulare arrivassero
messaggi (e lui non riusciva proprio ad addormentarsi con la luce
bluastra
dello schermo che continuava a lampeggiare sui muri), lo aveva sentito
dire in
un sussurro spezzato:
“Scusami,
John.”
A quel
ricordo malinconico ne seguiva,
purtroppo, un altro. Era un ricordo che non sapeva se gli facesse
più rabbia o
tristezza. Era legato al giorno seguente in cui una certa Irene Adler
si era
addormentata sul letto. Al giorno seguente in cui quella donna aveva
danzato
come una tigre pronta a divorare la sua preda intorno a Sherlock. Al
giorno in
cui, per intenderci, il comodino capì con certezza che John
amava Sherlock allo
stesso modo.
John,
che aveva visto rare volte e solo
per pulire la stanza, era entrato come una furia.
“Io.
Non. Sono. Geloso.”, aveva sbuffato,
sbattendo con forza lo straccio per la polvere contro la sua superficie
legnosa, facendogli un male non indifferente.
“Io.
Non. Sono. Per. Niente. Geloso.”,
aveva ripetuto, quasi tirandogli un pugno sulla maniglia e rischiando
di
rovesciare la lampada.
Anche
in quel caso il comodino capì fin
troppo bene l’enormità di quella bugia, come
quella di Sherlock mesi prima. Una
bugia che tutti capivano, tranne i diretti interessati e lui,
sinceramente,
cominciava a non poterne più di quella situazione. E
desiderava tanto che tutto
si risolvesse, ma non succedeva. Anzi, più il tempo passava
e più la situazione
diventava complicata.
Poi, e
se lo ricordava fin troppo bene,
un giorno Sherlock non era più tornato a casa. Lui che
capiva sempre tutto al
primo colpo, aveva intuito che non era una delle tante volte che il
detective
era scomparso. Era diverso. L’aria era diversa. John Watson
era diverso. E
quello era il ricordo in cui John Watson si era sdraiato su quel letto,
quel
letto in cui lui desiderava tanto vederlo con l’uomo che
amava. Invece no. John
era solo su quel letto. Solo e distrutto.
“È’
solo un trucchetto. Hai detto. E tu non ci sei
più. È’ solo
un trucchetto. Sherlock…”
Singhiozzava.
Accoccolato sul letto, la
faccia rivolta verso il muro, le ginocchia strette tra le braccia, John
Watson
singhiozzava. Poi i singhiozzi erano divenuti un pianto nel quale si
poteva
intuire tutta la sua disperazione.
“È’
solo un trucchetto. Sherlock…se è un
trucchetto, torna da me.”
Qualcosa
nell’animo legnoso del comodino
era scattato. Dalle parole di John sembrava che Sherlock fosse morto,
ma c’era
qualcosa che non gli tornava. Quella frase che il detective aveva
detto. Quel
trucchetto. Poi (era un comodino davvero molto sveglio e ne era
orgogliosissimo) aveva compreso tutto: Sherlock era vivo. Con quelle
semplici
parole stava avvisando John. E John non aveva capito. E lui era di
nuovo
impotente, racchiuso in quel parallelepipedo di legno e qualche scomoda
vite
qua e là non poteva fare nulla. Non poteva far sentire la
sua voce, dire a John
che era tutta una farsa, consolarlo perché Sherlock sarebbe
tornato. Così si
ritrovò soltanto ad osservarlo per tutta la notte, il
respiro affannoso che,
finalmente, cedette il passo all’esaurimento. E John, infine,
si addormentò.
Fortunatamente
un solo ricordo felice
offuscò tutto quello che era successo in precedenza. Quel
ricordo era talmente
meraviglioso che, quando successe, ebbe paura che avrebbe potuto morire
di
autocombustione spontanea da quanto calore gli generava nella sua anima
di
faggio.
Era il
ricordo in cui John e Sherlock
erano entrati in quella stanza insieme, avvinghiati l’uno
all’altro, labbra
contro labbra, corpo contro corpo. Avevano danzato, roteando nello
spazio che
vi era tra il letto e il muro, colpendolo un paio di volte con
violenza. Non
gliene era importato. Erano insieme. Erano finalmente insieme.
Avrebbero potuto
anche distruggerlo completamente e sarebbe morto felice.
Li
osservò in religioso silenzio. John
annaspava contro il detective, lo stringeva con forza a sé,
affondava le dita
nei suoi riccioli neri, tirandolo ancora di più verso di se,
quasi volesse
fondersi in un unico corpo. Sherlock si lasciava guidare. Lui, quello
sempre
con il controllo della situazione, si lasciava andare nella forza
prorompente
del dottore, le mani a cercare i bottoni della camicia del suo
una-volta-amico-ora-amante, ad aprirli con eleganza ad uno ad uno,
adorando con
lo sguardo ogni centimetro della pelle esposta di fronte a lui,
tracciando ogni
millimetro con un tocco delle labbra, finché la camicia non
venne scaraventata
a terra.
E il
dottore non era da meno. Con un
tocco spinse Sherlock indietro fino a farlo cadere sul letto, gli si
avvicinò e
cominciò anche lui a slacciare la camicia viola che cingeva
il torso del
detective, bottone per bottone, senza mai staccare le proprie labbra da
quelle
dell’altro.
Sherlock
era felice. Il comodino lo
sentiva chiaramente nell’aria. Non era la felicità
del momento, era qualcosa di
più profondo, qualcosa che aveva le proprie radici
nell’animo di quell’uomo
apparentemente senza sentimenti che ora si stava donando in tutto e per
tutto
alla persona che era con lui. Era, e lo sapeva benissimo,
perché, si sa, era un
comodino molto perspicace, amore. Puro, semplice amore.
La
camicia gli arrivò addosso,
oscurandogli la visione. Ma non importava più. Sapeva, dai
rumori non proprio
consoni, che tutto stava finalmente andando per il verso giusto. E non
gli
importava neanche più che il letto, il giorno seguente, si
sarebbe lamentato a
non finire (già sentiva i cigolii di rabbia),
perché lui, quella notte, sentì
le parole che stava aspettando da più di due anni.
“Ti
amo, John.”
“Ti
amo anch’io, Sherlock. Non lasciarmi
più. Non lasciarmi mai.”
“Mai
più. Lo prometto.”