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Autore: Leoithne    24/09/2014    6 recensioni
Esistono storie che non avete mai sentito raccontare, perché mai uscite da labbra umane. Gli oggetti, i mobili, persino le pareti hanno tantissime cose da narrare. Dietro al loro apparente e freddo silenzio nascondono pensieri e ricordi, un muto libro di memorie, stralci di una meravigliosa vita vissuta. Soprattutto quelli del 221B di Baker Street.
Genere: Comico, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buongiorno a tutt* coloro che stanno seguendo questa fanfiction e...scusate il ritardo nell'aggiornamento, ma sono stati giorni di fuoco e il tempo per scrivere si era ridotto al minimo indispensabile, perciò ho avuto tempo soltanto oggi di dedicarmici. Ma eccoci al dunque ed ecco qui il nuovo capitolo che, spero, soddisfi le vostre (tanto agognate) aspettative. Prima, però, è sempre doverosissimo il ringraziamento a Ida che è sempre dolcissima e mi sopporta sempre tra uno sclero Johnlockiano e l'altro, che sta ad ascoltare le mie follie su Moriarty-Cupido e che si guarda pure le puntate in diretta con me, ma che, soprattutto, è stata l'ispiratrice di questa storia. E per questo, signori e signore, non la ringrazierò mai abbastanza (e come al solito v'invito tutt* a leggere la sua "When Time And Flames Ignite", perché è bellissima, meravigliosa, stupenda)!

Quando scrivo in inglese sono solita cominciare le mie storie con un motto...oggi lo dico anche qui: "All the rights to BBC, all the fun to me!" (e, credetemi, non mi sono mai divertita così tanto a scrivere una storia!)

Spesso, se si pensa alla camera da letto, il mobile che salta maggiormente agli occhi è il suo protagonista indiscusso: sua maestà, Il Letto. Non importa quanto piccolo o grande sia, non importa se a baldacchino o con la testata di metallo, non importa neanche se con il piumone o solo il lenzuolo. Egli è, indiscutibilmente, l’unico oggetto che occupa il cinquanta per cento della stanza stessa.

Per questa ragione ci si dimentica che a fargli compagnia ci sono altri mobili che, non dimentichiamoci, sono anche loro incredibilmente importanti. Ne è un esempio il comodino. Il comodino, si sa, ha una visione migliore dei dettagli di quella che, invece, può avere il letto. Il letto subisce la pressione dei corpi, il comodino li osserva e li capisce. E il comodino della camera da letto di Sherlock Holmes al 221B Baker Street aveva capito molte cose molto prima di tutti gli altri mobili.

Ricordava, per esempio, la vita di Sherlock prima dell’arrivo di John. Lo ricordava arrivare in camera a malapena una o due volte la settimana. Lo vedeva sdraiarsi sul letto e passare le sue notti a fissare il soffitto. Lo aveva compatito ogni volta. Lui, dal suo angolino accanto alla porta, capiva. Capiva quanta solitudine ci fosse nei gesti quasi meccanici di quell’uomo, quanta ce ne fosse nel modo in cui lentamente si spogliava dei suoi abiti quotidiani, quanta ce ne fosse nel malinconico sorriso che, ogni tanto, appariva sul suo volto quando dava distrattamente un’occhiata allo specchio. Forse, pensava il comodino, gli altri mobili della casa non avevano l’opportunità di vedere questa fragilità. Lui, l’uomo con gli occhi di ghiaccio, diventava un'altra persona chiuso lì dentro, dove nessuno poteva vederlo.

Poi un giorno era arrivato un certo John Watson. Ricordava bene di essersi stupito del fatto che Sherlock avesse deciso di vivere con qualcuno. E ricordava più che bene la prima sera che il detective aveva passato in camera da letto dopo che quel John Watson era arrivato. Sherlock era entrato in camera con un sorriso diverso e, quando aveva appoggiato il cellulare su di lui, lo aveva fatto con delicatezza. E lui sapeva bene con quale violenza compiva, solitamente, quel gesto. La fredda superficie del telefono lo aveva sfiorato, accarezzato e lo stesso Sherlock aveva passato delicatamente le sue dita sull’oggetto, emettendo un sospiro. Il comodino aveva subito capito che qualcosa era cambiato. E quel qualcosa aveva certamente a che fare con quel John Watson.

Non appena si era seduto sul letto (e quel maleducato di mobile si era lasciato sfuggire un gemito di disapprovazione), il comodino lo aveva udito perfettamente.

“John Watson. Era pericoloso e lui è arrivato. Mi ha salvato la vita. No, tecnicamente non me l’ha salvata e tuttavia… c’è qualcosa in lui che non saprei definire, qualcosa che mi lascia un rimasuglio dolceamaro nel petto. Non capisco. Ed io detesto non capire.”

Ma il comodino, ebbene sì, aveva capito. Se avesse potuto lo avrebbe urlato a squarciagola. Avrebbe preso Sherlock, lo avrebbe sbattuto contro il muro e glielo avrebbe detto chiaramente: “Sherlock, quel John Watson ti piace! Lo vedo nel modo in cui sorridi, nel modo in cui i tuoi gesti quotidiani sono cambiati, nel modo in cui, ora, stai parlando di lui.”

Si sa, però, i mobili non possono dare voce ai propri pensieri e il comodino rimase muto, inascoltato, sperando dentro di sé che Sherlock capisse presto, che comprendesse quel velo di dolcezza che gli stava cominciando ad avvolgere il cuore. Era così felice all’idea che quell’uomo avesse trovato qualcuno che non vedeva l’ora di vederli insieme su quel borioso e lamentoso letto. Che si sarebbe poi lamentato tutto il giorno successivo di quanto fossero pesanti, di quanto si fossero mossi troppo, di quanto le sue molle non ce la facessero più a sostenere una simile fatica. Lui, invece, dalla sua posizione avvantaggiata, si sarebbe goduto tutta la scena.

Purtroppo anche le silenziose preghiere dei mobili passano inascoltate e i ricordi che seguirono questo primo, dolcissimo ricordo furono decisamente meno piacevoli per il comodino.

Uno di questi ricordi riguardava la sera in cui l’appartamento aveva tremato a causa di un’esplosione. Se lo ricordava benissimo: il colpo, il rumore assordante, il suo lato sinistro che sbatté contro il fianco del letto. E si ricordava anche uno Sherlock che era entrato nella stanza sbattendo la porta più forte che poteva.

E aveva urlato. E, per sua conoscenza, Sherlock Holmes non urlava mai nel silenzio della sua camera.

“L’ho deluso! Io? Io avrei deluso lui? Ma cosa crede che io sia? Che stia lì a badare alla gente che mi sta intorno?”

Eppure guarda come badi a ciò che pensa LUI, aveva pensato il comodino che, al solito, aveva capito benissimo che lui poteva solo essere il “mio John”. Perché, nell’intimità della camera da letto, Sherlock lo chiamava proprio “il mio John”. Forse non se ne rendeva neanche conto, si diceva il comodino, tentando di non dare troppo a vedere che quel suo scricchiolio di tanto in tanto erano, in realtà, mormorii di disapprovazione. La sua personale disapprovazione per il fatto che Sherlock provasse tutto quello e non lo dicesse a John. Su quello che provava il dottore non sapeva molto, ma immaginava che provasse lo stesso per Sherlock, perché altrimenti non si sarebbe spiegato come mai vivesse ancora con lui. Il comodino non lo sapeva con certezza, ma lo capiva. E allora perché non si parlavano? Perché non dicevano quello che avevano da dirsi?

“Che se ne vada pure! Che se ne vada da quella…come si chiamava? Faccia quello che vuole! Io non ho bisogno di lui!”

Chiaro. Evidentissimo. Il comodino provò pietà a sentirgli pronunciare quelle parole. Era così lampante che, tra la rabbia, ci fossero delle lacrime ai lati degli occhi azzurri. E aveva avuto la conferma di quanto l’uomo stesse male nel bel mezzo della notte quando, ancora sveglio perché il detective continuava a controllare se sul suo cellulare arrivassero messaggi (e lui non riusciva proprio ad addormentarsi con la luce bluastra dello schermo che continuava a lampeggiare sui muri), lo aveva sentito dire in un sussurro spezzato:

“Scusami, John.”

A quel ricordo malinconico ne seguiva, purtroppo, un altro. Era un ricordo che non sapeva se gli facesse più rabbia o tristezza. Era legato al giorno seguente in cui una certa Irene Adler si era addormentata sul letto. Al giorno seguente in cui quella donna aveva danzato come una tigre pronta a divorare la sua preda intorno a Sherlock. Al giorno in cui, per intenderci, il comodino capì con certezza che John amava Sherlock allo stesso modo.

John, che aveva visto rare volte e solo per pulire la stanza, era entrato come una furia.

“Io. Non. Sono. Geloso.”, aveva sbuffato, sbattendo con forza lo straccio per la polvere contro la sua superficie legnosa, facendogli un male non indifferente.

“Io. Non. Sono. Per. Niente. Geloso.”, aveva ripetuto, quasi tirandogli un pugno sulla maniglia e rischiando di rovesciare la lampada.

Anche in quel caso il comodino capì fin troppo bene l’enormità di quella bugia, come quella di Sherlock mesi prima. Una bugia che tutti capivano, tranne i diretti interessati e lui, sinceramente, cominciava a non poterne più di quella situazione. E desiderava tanto che tutto si risolvesse, ma non succedeva. Anzi, più il tempo passava e più la situazione diventava complicata.

Poi, e se lo ricordava fin troppo bene, un giorno Sherlock non era più tornato a casa. Lui che capiva sempre tutto al primo colpo, aveva intuito che non era una delle tante volte che il detective era scomparso. Era diverso. L’aria era diversa. John Watson era diverso. E quello era il ricordo in cui John Watson si era sdraiato su quel letto, quel letto in cui lui desiderava tanto vederlo con l’uomo che amava. Invece no. John era solo su quel letto. Solo e distrutto.

È’ solo un trucchetto. Hai detto. E tu non ci sei più. È’ solo un trucchetto. Sherlock…”

Singhiozzava. Accoccolato sul letto, la faccia rivolta verso il muro, le ginocchia strette tra le braccia, John Watson singhiozzava. Poi i singhiozzi erano divenuti un pianto nel quale si poteva intuire tutta la sua disperazione.

È’ solo un trucchetto. Sherlock…se è un trucchetto, torna da me.”

Qualcosa nell’animo legnoso del comodino era scattato. Dalle parole di John sembrava che Sherlock fosse morto, ma c’era qualcosa che non gli tornava. Quella frase che il detective aveva detto. Quel trucchetto. Poi (era un comodino davvero molto sveglio e ne era orgogliosissimo) aveva compreso tutto: Sherlock era vivo. Con quelle semplici parole stava avvisando John. E John non aveva capito. E lui era di nuovo impotente, racchiuso in quel parallelepipedo di legno e qualche scomoda vite qua e là non poteva fare nulla. Non poteva far sentire la sua voce, dire a John che era tutta una farsa, consolarlo perché Sherlock sarebbe tornato. Così si ritrovò soltanto ad osservarlo per tutta la notte, il respiro affannoso che, finalmente, cedette il passo all’esaurimento. E John, infine, si addormentò.

Fortunatamente un solo ricordo felice offuscò tutto quello che era successo in precedenza. Quel ricordo era talmente meraviglioso che, quando successe, ebbe paura che avrebbe potuto morire di autocombustione spontanea da quanto calore gli generava nella sua anima di faggio.

Era il ricordo in cui John e Sherlock erano entrati in quella stanza insieme, avvinghiati l’uno all’altro, labbra contro labbra, corpo contro corpo. Avevano danzato, roteando nello spazio che vi era tra il letto e il muro, colpendolo un paio di volte con violenza. Non gliene era importato. Erano insieme. Erano finalmente insieme. Avrebbero potuto anche distruggerlo completamente e sarebbe morto felice.

Li osservò in religioso silenzio. John annaspava contro il detective, lo stringeva con forza a sé, affondava le dita nei suoi riccioli neri, tirandolo ancora di più verso di se, quasi volesse fondersi in un unico corpo. Sherlock si lasciava guidare. Lui, quello sempre con il controllo della situazione, si lasciava andare nella forza prorompente del dottore, le mani a cercare i bottoni della camicia del suo una-volta-amico-ora-amante, ad aprirli con eleganza ad uno ad uno, adorando con lo sguardo ogni centimetro della pelle esposta di fronte a lui, tracciando ogni millimetro con un tocco delle labbra, finché la camicia non venne scaraventata a terra.

E il dottore non era da meno. Con un tocco spinse Sherlock indietro fino a farlo cadere sul letto, gli si avvicinò e cominciò anche lui a slacciare la camicia viola che cingeva il torso del detective, bottone per bottone, senza mai staccare le proprie labbra da quelle dell’altro.

Sherlock era felice. Il comodino lo sentiva chiaramente nell’aria. Non era la felicità del momento, era qualcosa di più profondo, qualcosa che aveva le proprie radici nell’animo di quell’uomo apparentemente senza sentimenti che ora si stava donando in tutto e per tutto alla persona che era con lui. Era, e lo sapeva benissimo, perché, si sa, era un comodino molto perspicace, amore. Puro, semplice amore.

La camicia gli arrivò addosso, oscurandogli la visione. Ma non importava più. Sapeva, dai rumori non proprio consoni, che tutto stava finalmente andando per il verso giusto. E non gli importava neanche più che il letto, il giorno seguente, si sarebbe lamentato a non finire (già sentiva i cigolii di rabbia), perché lui, quella notte, sentì le parole che stava aspettando da più di due anni.

“Ti amo, John.”

“Ti amo anch’io, Sherlock. Non lasciarmi più. Non lasciarmi mai.”

“Mai più. Lo prometto.”

  
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