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Autore: CassandraGrace    27/09/2014    0 recensioni
"La notte del suo ritorno a casa della nonna Morgan non riuscì a dormire.
Continuò a fissare il soffitto, ripensando alle ultime cose che ricordava. L’acqua fredda e nera, il fuoco nei polmoni, e la mano che lo aveva afferrato bruscamente, stringendogli il braccio così forte da lasciargli il segno sulla pelle.
Solo quando il sole spuntò all'orizzonte Morgan cedette al sonno e alla stanchezza, avrebbe pensato poi.
La mano del suo sconosciuto salvatore venne a trovarlo anche nei sogni, come a volergli mandare un messaggio:
“Trovami.” "
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Hopeless Wanderer 

Capitolo 2


 

 
Mai nella sua vita Morgan aveva ricevuto una tale lavata di capo, mai.
Dopo una mezz’ora buona di urla e rimproveri, il ragazzo aveva cominciato a pensare che sua madre non gli avrebbe mai perdonato il suo essere stato così’ sconsiderato. Se ne stava a testa bassa, con l’aria contrita di chi sa di essere colpevole, sapendo di meritare ogni singolo improperio che sua madre gli stava rivolgendo. Anche se capiva di meritare la strigliata per la stupidità delle sue recenti azioni non vedeva però il motivo di tirarla così tanto per le lunghe. Ad un certo punto la donna gli urlò contro che se fosse morto lo avrebbe tirato fuori dall’Inferno e poi strangolato con le sue mani, giusto per avere la soddisfazione di fargliela pagare per la sua “inaudita” sconsideratezza e per lo spavento che le aveva fatto prendere.
Di questo Morgan si sentiva davvero in colpa, ma che altro avrebbe dovuto fare?
Due giorni prima Morgan aveva avuto un brutto incidente in mare.
Era andato alla baia di Kearvaig per una passeggiata ed era finita che un paio di pescatori lo avevano trovato mezzo morto sulla spiaggia. Mentre era lì dapprima era rimasto ipnotizzato da una strana creatura nell’acqua; ma subito dopo si era accorto della presenza di una persona in acqua, gli era sembrata in difficoltà. Non aveva pensato, aveva ignorato i tuoni che avvisavano l’arrivo di un brutto temporale; si era buttato in acqua diretto verso la persona che gli era sembrato dibattersi tra le onde del mare, che poi velocemente si era ingrossato.
Morgan non aveva trovato la persona in mare, si era trovato in pericolo lui stesso, trascinato via dalle onde. Era finito velocemente sott’acqua, senza più la forza di risalire, col petto che gli bruciava per la mancanza d’aria.
Era stato allora che qualcuno lo aveva afferrato e tirato fuori da quell’inferno fatto d’acqua.
Sfortunatamente Morgan non era riuscito a vedere chi fosse il suo salvatore, perché aveva perso conoscenza. A quanto gli era stato detto non avevano trovato nessun altro sulla costa; se c’era stata una persona in acqua con lui ed era stata in difficoltà come lui, sicuramente non era sopravvissuta.
Rimaneva ignota persino l’identità della persona che lo aveva salvato e lasciato sulla spiaggia.
Morgan aveva davvero visto qualcuno in acqua, nonostante in famiglia gli avessero dato del pazzo. Erano a pranzo, ognuno di fronte ad una bella porzione di pasticcio, la madre di Morgan ancora scura in volto e silenziosa, come se stesse meditando sul suo ruolo di madre. Il ragazzo, dal suo posto, rimaneva in silenzio perché sapeva che gli conveniva non aprire bocca quando sua madre era in quello stato umorale, o altrimenti avrebbe scatenato il putiferio.
La signora Janine era una donna singolare, quando era arrabbiata. Non scoppiava subito: ci metteva qualche giorno, e che giorni terribili erano, quelli! Se ne stava in silenzio, ingrugnita, rigida, per almeno un paio di giorni.
Poi scoppiava, nel vero senso della parola. La nonna sapeva che lo scoppio di rabbia prima o poi sarebbe arrivato, così preferì dire la sua prima della catastrofe.
«Io credo al ragazzo.  Di sicuro qualcuno in mare c’era, mio nipote non è un allucinato. Certamente però non si trattava di uno dei nostri compaesani, povera anima. Spero stia bene anche lui…o lei. Dovresti essere contenta che il mare non si sia portato via tuo figlio, mia cara. Ah, amo il pasticcio, voi no?» aveva detto con tutta la serenità del mondo, rivolgendosi alla madre di Morgan, il quale aveva tirato su col naso e non aveva proferito parola.
In capo ad un’ora stava gridando come se fosse lei quella uscita di senno, ma Morgan c’era abituato, più o meno. Dopo quella sgridata epica lo aveva lasciato andare in camera sua e il ragazzo l’aveva sentita sospirare e reprimere un singhiozzo che aveva trattenuto per due giorni, sin da quando il marinaio di Durness che lo aveva trovato più morto che vivo sulla spiaggia.
Sdraiato sul suo letto troppo morbido Morgan aveva riflettuto sui fatti accaduti. Aveva avuto due giorni per pensarci, ma non era riuscito a venire a capo della questione. Ricordava di essersi  buttato in acqua, di aver nuotato verso il punto in cui aveva visto quella che non poteva essere altro che una testa umana, di aver quindi lottato invano contro le onde e di essere andato giù, perdendo di vista l’altra persona in mare.
L’ultima cosa che ricordava d’aver visto era stata una mano che lo aveva afferrato in una stretta d’acciaio e gli aveva dato uno strattone.
Morgan sapeva con certezza che almeno quel particolare era vero e non una qualche allucinazione come invece sembrava credere sua madre.
A prova di ciò c’era il segno rimasto sul suo braccio destro, un livido enorme proprio dove ricordava di essere stato afferrato dal suo sconosciuto salvatore.
Gli era rimasto il tipico segno da stretta, i segni dei polpastrelli là dove lo sconosciuto lo aveva preso, un  livido giallo violaceo che testimoniava l’esistenza corporea di un salvatore; chi fosse costui non si sapeva e Morgan cominciava a chiedersi che senso avesse salvare qualcuno dal mare in tempesta e lasciare quel qualcuno moribondo sulla spiaggia.
Bagnato com’era aveva quasi rischiato l’ipotermia; fortunatamente era stato soccorso in tempo e il peggio era stato scongiurato.
Ancora più curioso era però il fatto che il suo salvatore non si fosse limitato ad afferrarlo solo per il braccio.
Morgan aveva poi scoperto altri lividi sul corpo, nei posti più strani.
Conosceva la manovra necessaria che si usava per tirare qualcuno fuori dall’acqua. Ma lui non aveva lividi solo sul fianco: li aveva anche sulle gambe.
Nelle sue ore fin troppo libere Morgan aveva cercato di ricostruire l’accaduto; lo sconosciuto lo aveva dapprima afferrato per un braccio, poi aveva nuotato con lui ben stretto a sé  fino a Durness, o forse era stata la corrente a spingerli fin lì.  Una volta arrivati alla spiaggia lo sconosciuto lo aveva tirato fuori, ma non lo aveva fatto come qualunque altra persona. Lo aveva fatto con qualche problema, altrimenti non riusciva a spiegarsi i lividi sulle gambe.
Probabilmente il tipo aveva pensato che trascinarlo per i piedi sarebbe stato meno faticoso.
Non era riuscito a non sentirsi indignato mentre ci pensava.
“Seriamente? Per i piedi?” aveva storto il naso e aveva affondato il viso nel cuscino.
Aveva segni di mani sulle caviglie e sul polpaccio sinistro. Doveva averlo trascinato come un sacco di patate sul battigia, provvedendo poi alla respirazione bocca a bocca.
Lì la sua ricostruzione dei fatti terminava bruscamente, perché non riusciva ad immaginare un motivo valido per lasciare al proprio destino un ragazzo mezzo morto.
Chiunque fosse stato a salvarlo doveva essere un po’ stronzo.
 



Una settimana dopo l’incidente Morgan era riuscito finalmente a mettere il naso fuori di casa.
Le volte precedenti in cui aveva provato a uscire aveva sempre incontrato lo sguardo accusatorio di sua madre; ogni volta aveva desistito, per paura di scatenare ancora una lite.
Con la morte del nonno e il suo incidente in casa non si respirava esattamente un’aria felice, e Morgan si incolpava di questo.
Per una settimana era quindi rimasto buono buono in casa, finché non ce l’aveva più fatta  a restare lì dentro ed era sgattaiolato fuori dalla finestra della cucina, mentre sua madre e sua nonna erano distratte dal loro quotidiano appuntamento con una soap opera smielata e priva di senso.
Morgan Mc Lean era un ragazzo che sembrava cresciuto troppo in pochissimo tempo.
Era alto e magro, il tipo di persona che mangia come una fogna ma non ingrassa nemmeno per scherzo, con una zazzera di cappelli neri ne troppo lunghi né troppo corti, una via di mezzo che aveva sempre trovato fastidiosa. Come era finito lì a Durness?
Non era una bella faccenda, quella. Due settimane prima suo nonno, il padre di suo padre, era venuto a mancare dopo una lunga malattia. Sua nonna Rosemary era rimasta sola e aveva cominciato immediatamente a sentire la mancanza di un’altra persona in casa.
Così la famiglia Mc Lean aveva deciso di trascorrere i mesi estivi nella casa paterna, per stare vicino all’anziana donna. Morgan aveva inizialmente opposto resistenza; era nato e cresciuto a Londra, non era mai andato volentieri a Durness le poche volte che il padre era tornato nella terra natia, pensava che quello non fosse un luogo adatto a lui, abituato com’era agli agi della capitale.
Alla fine il padre lo aveva messo alle strette e lo aveva spedito a Durness insieme a sua madre, senza voler sentire ragioni. Anche Paul Mc Lean li aveva raggiunti subito dopo, per i funerali del padre, ma era poi tornato in città per tornare al suo lavoro.
Janine e Morgan invece sarebbero rimasti a Durness fino alla fine dell’estate.
Alla fine il ragazzo si era arreso al fatto che quella sarebbe stata l’estate più noiosa e triste della sua vita.
La morte di suo nonno non lo aveva toccato troppo; non erano mai stati troppo in contatto. Suo padre e il nonno avevano avuto dei contrasti, non erano mai andati molto d’accordo. La nonna telefonava spesso e qualche volta veniva in visita nello loro casa di Londra, Morgan la adorava e le era molto affezionato.
Non si poteva dire lo stesso di suo nonno. Era sempre stato un uomo burbero, anche se molto ben voluto dagli abitanti di Durness. Con Morgan era sempre stato molto rigido, forse perché il ragazzo somigliava molto al figlio.
Qualunque cosa fosse passata nella testa di suo nonno ormai era morta con lui, così come la possibilità di avere un normale rapporto nonno-nipote.
A Morgan un po’ dispiaceva, ma che poteva farci? Non poteva mica star lì a piangerci sopra. Era stato più doloroso vedere suo padre piangere e  realizzare che probabilmente non erano riusciti a riconciliarsi prima della morte di suo nonno.
Nel complesso, le prime due settimane di permanenza a Durness erano state tutt’altro che felici.


 
 
 
Morgan aveva appena scavalcato la finestra della cucina, con l’aria più furtiva e colpevole del mondo, sotto lo sguardo interrogativo della vicina di casa che stava tranquillamente innaffiando le piante del suo piccolo giardino.
Morgan si era aggiustato il cappotto, aveva fatto un cenno con la testa e un mezzo sorriso imbarazzato alla vicina e poi era corso via alla velocità della luce.
Non aveva alcuna idea di dove stesse andando, ma sicuramente si stava allontanando da Durness.
Un po’ per praticità, un po’ per evitare che la vicina avvertisse sua madre della sua fuga e che quella si mettesse in testa di inseguirlo e magari investirlo con l’auto (e ne sarebbe stata anche capace, quella donna!), continuò a correre come se avesse il diavolo alle calcagna.

Aveva sentito parlare di un complesso di grotte nelle vicinanze, così si diresse lì, speranzo di non trovarvi gente.  Corse a perdifiato giù per una collina verdeggiante, su una stradina sterrata, saltellando di santo in tanto per evitare di inciampare in questo o quel sasso e farsi tutta la collina rotolando.
Era quasi senza fiato quando arrivò alla passerella coperta che portava all’interno della Smoo Cave.
Da fuori lo spettacolo era mozzafiato. Roccia, roccia e ancora roccia, ovunque guardasse.
L’odore della terra e della pietra bagnata gli riempirono il naso mentre camminava sul ponticello ed entrava nel buio della cava.
Non si sentiva alcun suono, a parte lo scrosciare dell’acqua di una cascata e dell’acqua del fiume che si riversava nel mare, non lontano da lì.
Continuò a camminare, col fiato corto e un sorriso a increspargli le labbra.
Sua madre non avrebbe mai pensato di andarlo a cercare lì. Sapeva che quello non era un posto per lui.
Morgan non aveva mai mostrato di amare la natura, non era un tipo avventuroso, anzi. Era piuttosto un pantofolaio, le sue avventure preferiva giocarle su un computer piuttosto che viverle di persona.
Si dava il caso però che non c’era linea internet a casa di sua nonna, e che quindi il suo portatile era quasi inutile.
Lui e la natura erano incompatibili.
Tuttavia al momento la natura era tutto quel che aveva, tanto valeva cominciare a guardarsi intorno.
Era pomeriggio quando era uscito di casa e il cielo era nuvoloso come al solito. Non appena Morgan entrò nella grotta la luce parve morire quasi del tutto.
Si diede dell’idiota mentalmente per non aver pensato a portarsi almeno una torcia.
Vedeva dove metteva i piedi, ma la visibilità non era eccezionale.
Rimase col naso all’insù per parecchio, camminando lentamente.
Era tutto nuovo per lui. Non era mai stato  in un posto del genere e in qualche modo quel luogo gli faceva venire la pelle d’oca e non era solo perché lì dentro si gelava.
Faceva davvero freddo all’interno, così il ragazzo si alzò il bavero del cappotto e prese sfregarsi le mani infreddolite.
Non sembrava esserci anima viva a parte lui. Il luogo era silenzioso, a parte i normali suoni che potevano udirsi in una grotta. Il gocciolare, lo scrosciare della cascata, il costante rumore d’acqua che a lungo andare sapeva gli avrebbe messo addosso sonnolenza.
Morgan si fermò di fronte alla cascata. Entrava un po’ di luce da una fenditura abbastanza larga sul soffitto della grotta, dando al luogo un’aria magica. L’acqua scintillava e per un momento a Morgan sembrò che quel posto fosse irreale, troppo perfetto per essere vero.
Sembrava uno di quei luoghi di cui si poteva leggere solo nei libri, talmente era perfetto.
Rimase a guardare il cielo grigio che si intravedeva dallo squarcio nella roccia finché non udì qualcosa che gli gelò il sangue.
Un lamento, un singhiozzo. Morgan si irrigidì, le mani nelle tasche strette a pugno e i nervi tesi come corde di violino.
Aveva creduto d’essere solo, ma probabilmente non lo era.
Girò lentamente la testa, per cercare di capire da dove fosse arrivato quello strano lamento.
Non gli era sembrato il lamento di un’animale, era troppo ‘umano’ per esserlo.
Mentre tendeva le orecchie fino allo spasimo un altro singhiozzo rimbombò nella caverna, seguito da un incomprensibile mormorio.
Morgan trattenne il fiato. Nonostante la poca luce non riusciva a scorgere nessuna figura nelle vicinanze.
Si mosse lentamente, nella direzione da cui gli era parso provenisse il lamento; non poteva esserne sicuro per via dell’eco, ma si avviò lo stesso, cercando di fare meno rumore possibile.
Per la seconda volta si trovava nelle vicinanze di qualcuno in difficoltà.
Sperò vivamente che non finisse male come l’ultima volta, lo sperò con tutto il cuore.
Nel frattempo i singhiozzi si erano trasformati in una sommessa canzone; Morgan si diresse verso di essa, stando attento a dove metteva i piedi.
Era una dolce voce maschile, non quella di un uomo adulto, ma quella forse di un ragazzo.  Cantava in una lingua che non aveva mai sentito, ma era una canzone dolce e triste.
Ogni tanto la voce si spezzava o tremava, come se il suo proprietario stesse cantando per cercare di consolarsi, senza tuttavia riuscirci.
Morgan si ritrovò di fronte ad un piccolo lago sotterraneo, la riva costellata di muschio e pietre scivolose.
La visibilità era così scarsa che dovette strizzare gli occhi per capire che c’era effettivamente qualcuno in difficoltà, proprio a due metri da lui.
C’era qualcuno seduto sulla riva, il proprietario della bella voce triste che stava ancora cantando per alleviare la propria sofferenza.
Morgan riuscì a vedere che il ragazzo aveva lunghi capelli neri, leggermente ondulati e… completamente bagnati.
I suoi occhi si stavano abituando alla poca luce, ormai poteva vedere altri piccoli particolari della scena che aveva di fronte.
Il ragazzo sembrava nudo, completamente. Le braccia bianche erano sicuramente scoperte, il resto del corpo era nascosto dalla massa di capelli neri, che erano talmente lunghi da essere fuori posto.
Qualunque fosse la sua situazione non sembrava granché felice.
Morgan decise di avvicinarsi; quel poveretto stava sicuramente morendo di freddo, nudo e bagnato com’era.
«Uhm, scusami, hai bisogno di aiuto?» la voce gli uscì a fatica, un po’ rauca.
Quel che accadde dopo restò impresso a fuoco nella memoria di Morgan per il resto della sua vita.
Il ragazzo trasalì e  smise immediatamente di cantare, voltandosi verso di lui in uno scatto velocissimo.
Morgan non aveva mai visto un essere del genere. Il ragazzo aveva il volto più bello che avesse mai visto.
Era pallido come la luna, il viso dai lineamenti perfetti era incorniciato dalla chioma nera come la notte, i suoi occhi erano di un blu impossibile che non aveva niente di umano. Non indossava nulla, aveva il busto scoperto, fatta eccezione per piccoli ornamenti dorati che portava alle braccia e alle mani.
Ma la cosa più straordinaria erano le gambe del ragazzo. O meglio, la loro completa assenza.
Quello che vide mozzò il fiato a Morgan: di poco sotto l’ombelico del ragazzo, là dove avrebbero dovuto esserci il suo sesso e le sue gambe, c’erano squame brillanti che si allungavano a formare una lunga coda di pesce.  La maggior parte della cosa era in acqua, essendo lui seduto proprio a riva.
Il ragazzo, o meglio, il tritone, aveva gli occhi gonfi di lacrime e si teneva un fianco con una delle splendide mani ingioiellate. Anche con quell’espressione sofferente e il terrore negli occhi a Morgan parve bellissimo.
Il tritone non si mosse, si limitò a fissarlo con quegli enormi occhi blu e la rossa bocca leggermente socchiusa.
Parve passare un’eternità. Morgan non osava muoversi, pietrificato dalla visione e perché in cuor suo sapeva per certo che se si fosse mosso la creatura sarebbe fuggita.
Non riusciva a credere ai suoi occhi.
Un tritone. Di fronte a lui.
Forse era uscito di senno e quella era una magnifica visione.
Il tritone non si muoveva, sembrava pietrificato anche lui, ma per un motivo diverso.
Continuava a fissarlo come se Morgan fosse un mostro pronto a divorarlo e lui non avesse una via di fuga disponibile.
Poi qualcosa accadde: il tempo che fino a quel momento pareva essersi  fermato insieme a loro riprese a scorrere non appena il tritone fu scosso da un tremito ed emise un debole lamento strozzato.
Fu un suono straziante, tanto che Morgan sentì il proprio cuore stringersi dal dispiacere.
Non osò ancora avvicinarsi, aveva ancora paura che il tritone fuggisse e lo lasciasse lì ad interrogarsi della sua sanità mentale.
C’era qualcosa che non andava in quel debole pianto che adesso era ricominciato, ancora più straziante di quanto già non fosse prima. La creatura abbassò la testa  come ad accettare il proprio destino e si sdraiò a terra. Ansimava leggermente e continuava a tenersi il fianco destro, che adesso era finalmente visibile a Morgan. La mano del tritone luccicava ed era ricoperta di una sostanza scura. Subito l’odore metallico del sangue lo colpì allo stomaco e poco ci mancò che gli desse la nausea. Lui e il sangue non erano mai andati d’accordo. 
Non ci volle molto per capire cosa stava succedendo: la creatura era andata lì a morire.
Aveva uno squarcio sul fianco che sanguinava copiosamente, e lui cercava di tenerlo chiuso con quella mano bianca e delicata, senza riuscirci.
Morgan sentì una fitta allo stomaco; non poteva restare lì a guardare mentre quella meravigliosa creatura soffriva a quel modo. Il tritone lo ignorava, dandogli le spalle, pareva essersi rassegnato al suo destino e probabilmente non gliene importava niente di morire sotto gli occhi di un umano.
Morgan si mosse verso il tritone, incapace di trattenersi oltre. Si frugò nelle tasche in cerca di qualcosa che potesse essergli utile, ma vi trovò solo la mela che aveva preso prima di uscire, un fazzoletto e un bottone del suo stesso cappotto.
Imprecò sottovoce mentre si inginocchiava alle spalle del tritone. Quello per tutta risposta trasalì ancora  e alzò la testa nella sua direzione, gli occhi ancora pieni di puro terrore.
Un’altra dolorosa fitta scosse il cuore di Morgan, che dovette mordersi un labbro per impedirsi di piangere a sua volta. Si sentiva inutile, non riusciva a pensare a cosa fare e quegli occhi impossibili lo facevano sentire un mostro.
Si tolse velocemente la sciarpa e il cappotto e pregò un Dio a caso di dargli il coraggio di fare quel che aveva in mente.
«Ti prego, non avere paura di me.»
Doveva tentare, doveva provare a salvarlo. Non voleva assolutamente dover assistere alla morte di una creatura tanto bella e indifesa. Il tritone continuava a fissarlo terrorizzato, probabilmente aspettandosi il colpo di grazia da un momento all’altro.
Morgan invece gli prese la mano insanguinata e la scostò con gentilezza. Il tritone fece resistenza, ma poi la stanchezza e il dolore ebbero la meglio.
 Morgan afferrò la sciarpa ed esaminò la ferita. Ancora una volta il suo stomaco fece una capriola e poi un salto mortale, ma il ragazzo si sforzò di rimanere lucido e di capire cosa fare.
Sembrava essere stato morso da un qualche animale provvisto di denti affilati. Aveva uno squarcio non indifferente, poteva capirlo anche lui che di medicina sapeva poco e niente.
Aveva sfogliato i libri di sua nonna, che era stata infermiera tutta la vita e che ancora dava qualche piccola assistenza quando ce n’era stretto bisogno a Durness.
Prima di tutto doveva cercare di bloccare l’emorragia. Prese il fazzoletto dalla tasca del cappotto e cercò alla meglio di pulire la ferita, che sanguinava copiosamente.
Non appena Morgan poggiò il fazzoletto sulla ferita il tritone emise un gemito di dolore e fu scosso da un brivido. Morgan si bloccò col fazzoletto a mezz’aria, trattenendo il respiro. Di sicuro gli stava facendo male, ma non poteva fare altrimenti.
«Mi dispiace.» gli disse piano e ricominciò a pulire la ferita come poteva.
Il tritone restava muto, ma non aveva più l’aria spaventata. Restava pallido e sofferente, ma non era più spaventato, questo no. Poteva capirlo dall’espressione seria che aveva assunto, come se stesse riflettendo sul perché Morgan gli stava offrendo aiuto. Probabilmente era sospettoso, chi non lo sarebbe?
Morgan ancora non riusciva a crederci: stava soccorrendo un ragazzo per metà pesce.
Prese la sciarpa leggera che si era portato dietro prima di uscire e la usò per fasciare l’addome delicato del ragazzo; lo fasciò stretto,  pensando alla mossa seguente.
Sarebbe corso a casa a prendere gli strumenti di sua nonna e lo avrebbe curato, portato in salvo.
« Non ho intenzione di farti del male. Vado a prendere quel che mi serve per curarti e tornerò qui. »
Il tritone strinse gli occhi, sospettoso. Non gli credeva, era evidente. Però dalle sue reazioni Morgan capì che il tritone l’inglese lo capiva.
Prese il cappotto e lo adagiò sul tritone. Lì dentro faceva un freddo cane adesso e sicuramente perdere tutto quel sangue non lo aiutava a rimanere caldo.
L’espressione sospettosa del tritone scomparve. Il ragazzo strinse le labbra rosse e assunse un’aria confusa e corrucciata insieme. Lo stava giudicando, questo era poco ma sicuro.
Si guardarono negli occhi per quella che sembrò un’eternità, poi il tritone abbassò ancora una volta la testa e tornò a sdraiarsi sul terreno umido e sassoso della grotta.
A quel punto Morgan si alzò e corse fuori dalla Smoo Cave.
Se per arrivare alla caverna aveva corso come se avesse il diavolo alle calcagna adesso corse come se avesse tutto l’Inferno dietro di sé.
Corse come non aveva mai fatto in vita sua, col cuore in gola per l’eccitazione, la paura e l’ansia di non fare in tempo per salvare quella vita che lo stava aspettando lì nel buio della caverna.
Arrivò a casa madido di sudore freddo ed entrò in casa come un uragano.
Doveva fare in fretta, o quella sarebbe stata l’estate peggiore della sua vita.

   
 
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