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Autore: A lexie s    02/10/2014    3 recensioni
Chi non conosce il Titanic?! E' una delle mie grandi passioni, non solo in termini filmistici.
Non ci troviamo sulla Jolly Roger, bensì sull'imponente piroscafo affondato nel 1912, ma sempre di una nave si tratta.
Le vicende seguono, più o meno, quelle del film (dico più o meno perché ovviamente ci saranno delle novità).
Dal capitolo: Erano trascorsi settantotto anni ed Emma poteva rivederlo nella propria mente, ogni ricordo era nitido come se davvero si trovasse lì. La consistenza della ringhiera fredda e bagnata dalla rugiada, l’odore di vernice fresca e il rumore del mare. Il Titanic era considerato la nave dei sogni e lo era, lo era davvero.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Emma Swan, Killian Jones/Capitan Uncino
Note: Movieverse, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Titanic

Capitolo 5


Si sentiva male per averlo lasciato lì, aveva sentito il suo sguardo perforarle la schiena per tutto il tempo prima di chiudersi la porta alle spalle e sparire dentro l’ascensore.
Aveva dormito poco quella notte, il mal di testa alla fine le era venuto davvero, portandosi dietro anche degli incubi vividi e verosimili.
Scossa aveva continuato a rigirarsi nel letto e adesso si sentiva esattamente come la sera prima, se non peggio. Delle occhiaie violacee le contornavano gli occhi ed i capelli erano una massa indistinta, le occorreva una bella e potente spazzolata per poterli riportare all’ordine.
“Ruby, ti prego aiutami” disse affranta, portandosi una mano alla fronte.
La ragazza si avvicinò lentamente, prendendo la spazzola che era adagiata sul mobiletto di marmo e cominciando a spazzolarle i capelli.
“E’ successo qualcosa?” Chiese con voce pacata, non voleva essere indiscreta ma semplicemente aiutarla ed Emma lo sapeva, però non era pronta a parlarne. Parlare dei suoi dubbi significava renderli reali e palpabili, ammettere che c’erano e che la opprimevano terribilmente, era sconveniente dal momento che sentiva di non poterli dissipare in alcun modo.
“No, sta tranquilla. Va tutto bene, ho solo riposato male” mezza verità le sembrava abbastanza in quel momento. Ruby annuì senza chiedere altro, stava pensando ancora al pomeriggio passato con Victor e manteneva quell’espressione sognante che caratterizza l’amore.
Emma finì rapidamente di sistemarsi, dopo che Ruby le ebbe sistemato i capelli, indossò un vestito color avorio con qualche accessorio coordinato e si diresse verso il balcone privato dove Neal l’attendeva per fare colazione insieme.
Si sedettero rimanendo in silenzio per qualche minuto, ognuno perso nei propri pensieri mentre zuccheravano il proprio caffè. Dio, era quello che ci voleva per svegliarla, un buon caffè nero.
“Speravo che venissi da me stanotte” disse Neal all’improvviso, distraendola dalla bevanda ed attirando i suoi occhi. Si portò la tazzina alle labbra e tastò il gusto amaro del caffè, mentre la ragazza lo fissava stupita.
Il cervello di Emma ci mise qualche secondo per elaborare quelle parole e trovarvi una risposta adeguata, “ero stanca” optò per una mezza verità anche in quel caso, nonostante non fosse la vera ragione che le aveva impedito di recarsi da lui.
“La tua esuberanza ti avrà senz’altro spossata” i suoi occhi si ridussero ad una fessura, ed Emma capì che lui era a conoscenza di quello che era successo la sera prima, anche se non sapeva quanto sapesse.
“Vedo che mi hai fatta seguire da quel becchino del tuo servitore” disse indignata, non aveva il diritto di continuare a legarla a sé in quel modo, farla seguire come se lei fosse di sua proprietà, un oggetto che poteva muovere a suo piacimento.
“Non ti comporterai mai più in quel modo, Emma. Sono stato chiaro?!” Posò delicatamente la tazza che stava tenendo in mano e si avvicinò a lei, il suo sguardo minaccioso le suggeriva di andare via, di allontanarsi da lui e dalla sua stupida pretesa.
“Non puoi comandarmi come se fossi di tua proprietà, io sono una persona, sono la tua fidanzata.” Sussurrò cercando di imprimere una certa sicurezza nella sua voce, nonostante sentisse una sorta di paura farsi strada nel suo cuore e nella sua mente.
“La mia fidanzata, la mia fidanzata… Si lo sei, praticamente sei mia moglie, lo sei pur non essendolo ancora per legge quindi mi rispetterai” gridò furioso, colpendo il tavolino e scaraventando tutto sul pavimento. Si avvicinò a lei, poggiando le mani sulla sedia di vimini in cui era seduta e la fissò con occhi furenti. “Non farò la figura del pagliaccio, qualcosa non ti è chiaro?” Concluse alla fine. Emma deglutì furiosamente, mentre cercava di allontanarsi per mettere distanza tra loro ed annuì, “no” sussurrò dopo qualche secondo.
“Bene, con permesso” le spostò una ciocca di capelli, nonostante la ragazza cercasse di allontanarsi e poi lasciò il balconcino privato.
Emma rimase lì invece, ancorata alla sedia come se fosse l’unica cosa che non le permettesse di affondare. Ruby fu subito al suo fianco, le sfiorò la mano con dolcezza e non disse nulla. “Noi abbiamo avuto una discussione” asserì la ragazza, poi si abbassò a raccogliere i cocci di tutte quelle tazzine frantumate. Si scusò per tutto quel disordine, mentre l’altra continuava a guardarla in apprensione. “Non è niente” le rispose, accasciandosi vicino a lei e accogliendola tra le sue braccia quando la ragazza non riuscì più a trattenere i singhiozzi. “Non è niente” ripeté, passandole la mano sulla schiena per darle conforto.
 
 
 
Si sentiva un peso enorme dentro al petto, una sensazione che non riusciva a scacciare. Aveva bisogno di rivederla, doveva chiederle di perdonarlo per averla baciata e di tornare come prima, ma Dio, lui non voleva tornare come prima. Come poteva pentirsi di aver fatto ciò che desiderava? Voleva baciarla, voleva fare molto di più che baciarla, voleva stringerla, confortarla, spazzare via le sue paure ed impedire che si allontanasse da lui. Era assurdo provare quelle emozioni verso una persona che conosceva appena, ma come poteva controllarlo? Come poteva farlo, quando lei aveva sgretolato tutte le sue certezze ed era entrata in lui sin dal primo sguardo?
Doveva fare in modo di vederla, non poteva fare altrimenti. Doveva vederla, scusarsi e dirle che poteva farlo, poteva tenere le mani al proprio posto o poteva stringerla, insomma poteva fare tutto ciò che lei voleva. Se lei voleva che fosse semplicemente un suo amico poteva riuscirci, pur di vederla. Almeno fino a quando poteva vederla ancora, perché sapeva che quando la nave avrebbe attraccato non ci sarebbero state più opportunità per lui, per loro.
Uscì velocemente dalla stanza e si recò sul ponte.
La vide lì, mentre guardava il mare. Le spalle erano scosse da alcuni fremiti e capì che probabilmente stava piangendo. Si avvicinò lentamente, le mani in tasca ed il passo tranquillo.
Non disse nulla, voleva godersi il più possibile quello spettacolo.
Lei si accorse della sua presenza dopo qualche secondo, come se le sue spalle fossero state colpite da una scossa, una scintilla che entrambi condividevano. Si voltò, e fu allora che lui vide i suoi occhi imperlati di lacrime.
Le guance rosse ed il respiro spezzato.
“Emma..” sussurrò avvicinandosi, una mano protesa quasi a volerla toccare.
Lei scosse una mano davanti al suo volto per fermarlo e lo superò velocemente.
“Senti Emma, se è per colpa mia, ti prego non farlo. Non piangere” la pregò, voltandosi rapidamente e vedendola lì di spalle. Si era fermata per ascoltarlo, ma non riusciva a dire nulla per paura di non poter controllare i singhiozzi.
Un minuto, due minuti, tre minuti.
Nessuno dei due parlava, lei rimase di spalle e lui continuava a guardarla nella speranza che si voltasse. Emma si appoggiò una mano sul petto, come se quel gesto potesse alleviare le sue sofferenze.
“Non prenderti colpe che non hai” cercò di rassicurarlo, ma la voce uscì affranta e ridotta ad un sussurro appena udibile.
“Ma io..” Voleva parlare, voleva dirle tante di quelle cose. Sdolcinate, prive di logica oppure farle qualche allusione per suscitare il riso in lei e cancellare le lacrime. Non ebbe il tempo di dire nulla però, si ritrovò da solo su quel ponte per la seconda volta, mentre la guardava andare via come la sera prima. Ed un’altra volta aveva sentito un pezzo di cuore staccarsi, un dolore fisico propagarsi in tutto il suo corpo ed una lacrima solitaria scese anche dai suoi occhi.
La spazzò via velocemente, non era il tipo lui. Figurarsi.
 
 
 
L’aveva rivisto a pranzo e a cena, ma non aveva avuto il coraggio di incrociare il suo sguardo e quando lui si era avvicinato per cingerle il fianco, porgerle il braccio o sussurrarle qualcosa all’orecchio, lei si era allontanata ancora scossa da quello che era successo quella mattina. Nessuno sembrò accorgersi di loro, anche perché Emma era sempre parecchio scostante nei suoi confronti e non si era mai lasciata andare ad effusioni di alcun genere.
Quella giornata era trascorsa così, in modo dolorosamente lento e senza nulla che valesse la pena di essere fatto. Emma aveva cercato di mantenere un profilo basso, non entrando in merito di nessuna conversazione, ma dispensando lievi sorrisi per evitare di scoppiare a piangere da un momento all’altro.
La notte trascorse in modo molto più burrascoso, continuava a rigirarsi nel letto non riuscendo a prendere sonno. Tutti i pensieri le affollavano la testa, chiedendo di essere liberati, ma lei si ostinava a non farlo. Allora, cercò di distrarsi cantando mentalmente, cercando di rimembrare alcune poesie che suo padre le aveva insegnato da piccola oppure contando tutti gli intarsi in rilievo che riusciva a tastare nell’elegante coperta che era adagiata sul suo corpo.
Quando finalmente prese sonno, l’incubo di Neal che uccideva Killian la ridestò in malo modo. Le lacrime che sgorgavano copiose dai suoi occhi e la fronte madida di sudore.
Non riuscì più a stare in quella posizione così si alzò e aspettò che il sole sorgesse, affacciata al balcone della sua suite.
“Emma, devi prepararti. Oggi ci sarà la funzione, l’hai dimenticato?” Domandò Ruby, entrando nella stanza. Avevano questa sorta d’accordo, quando non c’era nessuno Ruby evitava tranquillamente le formalità, non perché Emma volesse che le distanze fossero rispettate in presenza di altri ma solo perché gli altri non avrebbero capito, troppo presi dalla loro arroganza.
Emma adorava Ruby e la ragazza ricambiava, ma non voleva avere guai con la madre di lei, quindi in sua presenza cercava di rimanere distaccata e professionale.
“Hai ragione, non mi ero accorta dello scorrere del tempo” troppo persa nei propri pensieri, si alzò e cominciarono insieme la preparazione giornaliera. Un bagno caldo che l’aiutò a sciogliere la tensione che aveva accumulato durante il giorno precedente e poi quello stretto bustino da dover indossare che, al contrario, le mozzò nuovamente il respiro.
“Ruby, faccio io. Puoi prepararmi una tazza di tè?!” Ordinò Mary Margaret, prendendo il posto della ragazza e stringendo in modo deciso i laccetti del corpetto.
“Non devi più rivedere quel ragazzo” la ammonì, continuando a stringere. La donna si era accorta dell’atteggiamento di sua figlia in presenza di quel Killian, e la cosa non le andava bene per niente.
“Smettila mamma” replicò la ragazza, voltandosi a guardarla per fronteggiare il suo atteggiamento.
“Non ti capisco, Emma. Tu e Cassidy siete una coppia perfetta, questo garantirà la nostra sopravvivenza. Non comportarti in maniera egoista” la pregò, accarezzandole il braccio lievemente.
“Io egoista? Ah, adesso sarei io l’egoista?!” Chiese alterata, scostando la madre con un movimento brusco e avviandosi dall’altra parte della stanza.
“Sai in che condizioni ci troviamo, tuo padre non ci ha lasciato altro che debiti e allora vuoi vedermi lavorare come cucitrice? Questo vuoi? Vuoi che tutte le nostre belle cose vengano vendute all’asta e che il nostro nome, l’unica cosa che ci resta, venga macchiato dalla vergogna?” La voce della donna si spezzò, lasciando trapelare tutta la preoccupazione che provava ed Emma si rabbonì.
“No, mamma, ma è così ingiusto” sussurrò, riavvicinandosi e voltandosi per permettere alla donna di finire il lavoro.
“Certo che è ingiusto, Emma. Lo è sempre” si portò una mano alle labbra e poi lasciò un tenero bacio sul viso della figlia, prima di lasciare la stanza convinta che quella conversazione avesse sortito il suo effetto.
 

 
Era passato un giorno, un’intera giornata spesa a non fare assolutamente nulla. Nemmeno disegnare che solitamente era ciò che lo rilassava, riusciva a placare la sua inquietudine ed il turbinio di sensazioni che sentiva dentro l’anima.
Uscì velocemente dalla sua stanza, le gambe si muovevano da sole verso un’unica direzione. Non riusciva a controllare il suo corpo, così come non poteva controllare la sua mente. Prese l’ascensore, percorse i vari corridoi fino a ritrovarsi davanti alla porta dove si svolgeva la funzione. Cercò di entrare ma fu subito bloccato da due inservienti vestiti in maniera elegante.
“Signore, lei non può entrare qui” chiarì uno, con un tipico accento britannico. Mise una mano davanti al suo petto e gli sbarrò definitivamente la strada.
“Ma.. Ma ieri io sono stato qui, mi avete fatto passare. In ogni caso, ho bisogno di un attimo, devo solo parlare con una persona” asserì, cercando di convincerli a lasciarlo entrare.
La discussione venne interrotta dalla figura incravattata di Jefferson che aveva visto tutto dalla sua posizione, mise una mano in tasca ed estrasse qualche banconota, “i signori la ringraziano ancora per i suoi servigi, ma non gradiscono più la sua presenza” concluse, mettendogli i soldi in mano.
Delusione.
Non seppe precisamente perché quell’emozione gli stava squarciando il petto, combattendo per venir fuori, ma la sentiva forte e prepotente. Gli restituì le banconote sdegnato da quel gesto e indietreggiò di alcuni passi, indeciso su cosa fare.
“Io volevo solo parlarle un attimo” optò per tentare un’ultima strada, ma il segno di diniego dell’altro gli fece capire che non aveva alternative se non quella di andarsene.
Percorse il corridoio a ritroso, le mani in tasca e le spalle curve come se stesse portando un profondo fardello. Decise di aspettarla fuori dalla porta principale del ponte, sicuramente prima o poi sarebbe passata da quelle parti e con un po’ di fortuna magari non era braccata da nessuno.
Dopo qualche ora, la fortuna decise di girare a suo favore e la vide uscire. “Emma” chiamò lentamente, la ragazza si voltò, lo vide e scappò via.
Si sentì ferito nuovamente dal suo comportamento. Allora, era vero quello che aveva detto Jefferson?! Era lei a non volerlo più vedere, non era una scusa che aveva inventato per tenerlo lontano.
Non poteva andare così, non si sarebbe arreso così facilmente e senza nemmeno una parola.
Non voleva vederlo? Bene, ma avrebbe dovuto dirglielo in faccia e guardandolo negli occhi. Ed allora, lui si sarebbe fatto da parte, lo avrebbe fatto per lei.
 

Continuava a camminare su quel ponte, continuava ad andare avanti e poi indietro nella speranza di trovare un modo per rivederla. L’ora di pranzo era ormai passata da un pezzo e non aveva nemmeno avuto il coraggio di scendere al piano di sotto per non abbandonare quel ponte. In conclusione, non aveva mangiato nulla e adesso si sentiva stanco, affamato e piuttosto irritato.
Il cielo si stava tingendo di colori più tenui e caldi, segno che il sole stava pian piano calando. Killian era ancora appoggiato alla porta principale, ma non poteva entrare nel ponte coperto riservato ai signori di prima classe. Poco più avanti, abbandonata in un panchina c’era una giacca nera. Il suo possessore era qualche metro più avanti, appoggiato alla ringhiera che si godeva il fresco con una signorina.
Camminò lentamente e sporse il braccio per afferrarla, il tizio non si accorse di nulla e lui sospirò di sollievo. La indossò velocemente, con quella sarebbe sicuramente passato inosservato e difatti qualche minuto più tardi riuscì ad intrufolarsi dentro, giusto in tempo per vedere Emma che passeggiava insieme a dei signori e alla madre.
Fece il giro largo per potersi ritrovare davanti a lei, ma poi capì che quello non era l’approccio migliore. Emma tendeva a chiudersi a riccio quando le cose le sfuggivano di mano, ed il ragazzo lo aveva capito subito questo.
Così Killian s’intrufolò in uno stanzino vuoto e aspettò che lei passasse. Quando la vide, si sporse fuori dalla porta e la tirò per un braccio per portarla dentro. Fuori nessuno si era accorto di nulla, continuavano a camminare e a conversare amabilmente.
“Che diavolo fai?” Domandò alterata.
“Devo parlarti” rispose lui, spingendola dolcemente verso la parete della stanza.
“E non potevi farlo come tutte le persone normali. C’era bisogno di tutto questo?” Allargò le braccia, indicando quella stanza e la situazione in cui si trovavano al momento.
“Tu mi stai evitando” spiegò lui, puntando lo sguardo su di lei. Vide le sue pupille dilatarsi ed il suo respiro accelerare improvvisamente.
“Non ti sto evitando” ribatté piccata la ragazza, non era pronta ad ammettere che vederlo faceva vacillare le sue convinzioni.
“Allora, era un’altra Emma quella che prima è scappata come se avesse visto un fantasma?” Chiese con tono sarcastico, roteando gli occhi ed indietreggiando per lasciarle un po’ di spazio.
“Allora Jones, cosa vuoi?” Incrociò le braccia al petto e assunse un tono deciso. Si era ripresa dal giorno precedente, la discussione che aveva avuto con la madre l’aveva turbata, rattristata ma l’aveva fatta anche infuriare.
Comunque riteneva inutile continuare a piangere, le lacrime non avrebbero risolto di certo la sua situazione. Poteva abbandonarsi a quelle o continuare a camminare a testa alta e con fierezza.
Killian si sentì improvvisamente imbarazzato, tutta la caparbietà che aveva dimostrato fino a quel momento era improvvisamente scemata davanti agli occhi fieri di Emma. Voleva parlare e dirle quello che pensava, ma il timore che potesse farla soffrire e vederla piangere come il giorno prima gli impediva qualsiasi cosa.
“Io..” boccheggiò, le parole non uscivano e la distanza divenne improvvisamente troppa, come se avesse l’esigenza di toccarla, respirare il suo profumo e guardarla più da vicino. Come se sentisse il suo corpo percorso da fremiti che non riusciva a trattenere, si umettò le labbra e deglutì con fatica prima di tornare a guardarla, e finalmente si riavvicinò.
“Emma, io avevo bisogno di parlarti” mise le mani sulle sue spalle, girando i pollici in circolo per massaggiarle delicatamente.
“Sono qui, parlami adesso” disse Emma, avvicinandosi a lui lentamente. Portò la mano sul suo petto e lui credette che volesse allontanarlo, ma non lo fece. Afferrò la camicia e chiuse il pugno, lo tirò verso di sé e s’infranse sulle sue labbra.
“Non ti evitavo” mormorò bocca contro bocca, continuando a baciarlo con passione. Tracciò con la lingua il contorno delle sue labbra, prima di trovare libero accesso alla sua bocca che famelica contraccambiava quella passione.
“Si, invece” replicò, passandole le mani sulle braccia per poi scendere ad afferrare la sua vita. La strinse con forza, come se lui dipendesse da quel contatto. Le morse il labbro inferiore, succhiandolo un attimo dopo, mentre una mano si spostava su quei boccoli dorati.
“Perché sapevo che finiva così” commentò Emma, staccandosi piano e fissandolo. Stava ammettendo di averlo evitato, ma l’aveva fatto perché era attratta da lui e questo non poteva che farlo sentire gratificato.
“Allora lo ammetti?!” Affermò, catturando nuovamente quelle labbra.
“Cosa?”
“Che mi stavi evitando” biascicò, non riuscendo a parlare bene perché questo significava stare troppo tempo lontano da quelle e lui non voleva farlo.
Non avrebbe voluto lasciarle mai più, le sue labbra, i suoi capelli, la sua fierezza, lei. Non voleva lasciare lei.
“Si” ammise apertamente. Intrecciò le mani dietro la sua nuca, accarezzandogli piano i capelli neri e spettinandoli lentamente. L’urgenza era stata sostituita dalla dolcezza, sfregò piano la guancia sulla sua godendosi il pizzicore causato dalla barba.
“Mi dispiace” sussurrò Emma poi, poggiò la fronte sulla sua e fece scontrare i loro nasi lentamente.
“Che vuoi dire?” Domandò Killian spaesato. Avrebbe voluto che quel momento durasse per sempre e che non esistesse nessun altro all’infuori di loro e di quella stanza, ma non era così e riconosceva il tormento nello sguardo di Emma.
Quello sguardo gli suggeriva che lei stava per dire quelle parole, le parole che avrebbero distrutto nuovamente la bolla felice in cui si trovavano in quel momento.
“Mi dispiace di dover fare questo” ammise spostandolo, attenta invano a non ferirlo ulteriormente. I suoi occhi s’imperlarono nuovamente di lacrime, nonostante si fosse ripromessa di non piangere più.
Killian alzò una mano e le accarezzò il volto, catturò le lacrime con i polpastrelli e le spazzò via per poi avvicinarsi a baciarle gli occhi. “Allora non farlo” mormorò piano.
“Devo farlo, non ho altra scelta” asserì, poi si spinse piano tra le sue braccia e poggiò la testa sul suo petto, lasciandosi cullare dolcemente. Il suo respiro tornò piano regolare, così come i battiti del cuore di Killian.
“Starai bene?” L’apprensione traspariva chiaramente dalla sua voce.
“Si” mentì lei, guardando in basso per non incrociare il suo sguardo, perché non capisse che stesse mentendo.
“Senti non sono uno stupido. So come funziona il mondo, io non ho nulla da offrirti e solo.. Solo che ci sono troppo dentro, salti tu, salto io. Ricordi? Non posso voltarti le spalle senza avere la certezza che starai bene” dichiarò, sollevandole il mento con una mano per fissarla. Fissarla era esattamente quello che fece, scrutò dentro di lei, scandagliò la sua anima in profondità nonostante non ne avesse bisogno. Sapeva già che stava mentendo, lo capiva semplicemente dalla sua voce rotta, dai suoi occhi cupi e da ogni cosa scorgesse sul suo viso.
“Starò bene” ripeté una seconda volta, quasi a voler convincere se stessa di quelle parole.
“Davvero? Io non credo” sentenziò, lasciando correre le braccia lungo i fianchi.  “Ti tengono in trappola, Emma, e morirai se non ti liberi, forse non subito perché sei forte ma prima o poi quell’ardore che amo tanto in te, quell’ardore si spegnerà” le riportò una mano sul viso, accarezzandolo piano.
“Non spetta a te salvarmi, Killian.”
“Hai ragione, solo tu puoi farlo.” Ammise sconfitto, aveva tentato almeno. Chi diavolo voleva prendere in giro? Tentare non bastava, voleva riuscirci. Convincerla, ma cos’altro poteva fare?
Nulla, non poteva fare nulla.
Aveva avuto la prova che lei ricambiava le sue emozioni, sensazioni, sentimenti, non sapeva bene come definirli. Aveva avuto la prova che non gli era indifferente, l’aveva visto con i suoi occhi, lei gli aveva dimostrato tutto il coinvolgimento che provava per lui, ma non sarebbe servito a nulla.
Tutto ciò che aveva fatto non era servito a nulla.
L’ammissione di lei provocava soltanto maggior dolore ad entrambi e non alleviava la sua sofferenza in alcun modo.
Emma era ancora lì davanti a lui, piano allontanò la sua mano dalla guancia per mettere distanza tra loro e lui si sentì subito privato del suo calore.
“Io devo andare” concluse, spostandosi lentamente verso la porta. Una mano toccava già la maniglia, stava quasi per aprire quando lui la richiamò: “Emma..”
Disse solo il suo nome, ma il tormento che c’era nella sua voce le addolcì il cuore e le lacrime minacciarono di fluire nuovamente dai suoi occhi. Lottò per ricacciarle indietro, si voltò verso di lui e lo raggiunse svelta. Poggiò dolcemente le labbra sulle sue, durò un attimo, un battito di ciglia. Lo baciò velocemente come se fosse un’abitudine, come se avessero potuto continuare a farlo per il resto della loro vita.
“Perdonami” mormorò ritraendosi di nuovo, si passò una mano sul volto per asciugarsi gli occhi.
“Voglio solo che tu stia bene” un sospiro, due, tre. Nessuno dei due riusciva a muoversi, poi Emma cercò di sorridere ed annuì.
 
 
 
Killian si trovava vicino alla prua della nave. Il luogo da cui si era sporto qualche giorno prima gridando di essere il re del mondo, ma adesso tutta quella eccitazione era passata, adesso non si sentiva più così. Per la prima volta in vita sua maledì le sue modeste origini, poi però si sentì in colpa per quel gesto e si scusò mentalmente con suo padre e poi con la madre, sperando che lei potesse sentirlo ovunque si trovasse.
Era inutile sentirsi in quel modo quando non poteva fare nulla per cambiare le cose. Voleva assicurarsi che lei stesse bene e benché non lo credesse possibile, lei aveva cercato di rassicurarlo ed era andata avanti per la sua strada.
Non poteva continuare ad inseguirla, l’unica cosa che gli rimaneva da fare era rispettare la sua scelta. Osservarla da lontano per quel piccolo frangente in cui potevano ancora stare vicini e poi lasciarla andare.
Si sdraiò su una panchina poco lontana e prese a guardare il cielo. Ormai il sole era tramontato quasi completamente, gli ultimi sprazzi di colore lo illuminavano ancora, rendendolo una visione quasi poetica.
Aveva visto tanti tramonti in vita sua, il tramonto era il momento più dolce della giornata secondo lui. Il sole lasciava piano spazio alla luna, promettendo di risorgere il giorno successivo. Quindi la giornata finiva sempre con una promessa.
Ed in quel momento, osservando quello spettacolo, si rendeva conto che avrebbe voluto condividere quella promessa con lei, la promessa che sarebbero comunque stati insieme il giorno successivo. Una promessa che ormai non poteva più essere mantenuta. O forse si?!


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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