Capitolo VI
Silenzio.
Ecco
cosa era venuto dopo: solo silenzio.
Murasakibara
non riusciva a staccargli gli occhi di dosso neppure per un istante,
deluso com'era da quella faccenda che ormai aveva assunto una piega
troppo scomoda e amara per lui.
Himuro,
al contrario di lui, sembrava così convinto e soddisfatto di
quella
punizione che gli venne da chiedersi se non fosse davvero l'assassino
di Kuroko, se non considerasse quella prigionia come una sorta di
espiazione.
Sembrava
trarre un certo sollievo dalle sbarre, e quel sorrisetto che gli
increspava le labbra ogni volta che lo guardava gli metteva i nervi:
Himuro era felice di aver trascinato con sé anche lui, era
felice di
non dover spartire la cella con degli sconosciuti e che presto
qualcun altro avrebbe subito i suoi stessi trattamenti giudiziari e
penali.
Dopo
due giorni e due notti in cella, immersi e soffocati dal più
lugubre
dei silenzi, Murasakibara era finalmente riuscito ad elaborare il
tutto e a realizzare un pensiero che mai avrebbe pensato potesse
annidarsi nella sua testa - e nel suo cuore -.
In
un tacito accordo, ognuno di loro possedeva una metà della
cella, e
da qualche ora Murasakibara era seduto a terra, sotto le inferiate, e
osservava Himuro con un'espressione diversa dal solito: nei suoi
occhi non c'erano né pigrizia né noia, e neppure
il sincero affetto
che prima provava per lui, ma solo tanta rabbia e delusione.
Schiuse
le labbra, ma le parole si accartocciarono e gli diedero la
sensazione di starlo soffocando: non riusciva neppure a chiamarlo
Muro-chin.
Murasakibara
si zittì nuovamente e per almeno un altro paio di minuti si
limitò
a fissarlo in silenzio: c'era qualcosa che doveva dirgli, dopotutto
glielo aveva chiesto Himuro stesso di essere sempre sincero con lui.
«Ti
odio ...» un sussurro, quasi uno spasmo di sofferenza, e
finalmente
il pensiero che aveva richiesto un'elaborazione e un'accettazione
lunghe due giorni e due notti era venuto fuori.
Atsushi
abbassò lo sguardo e si avvolse le ginocchia con le braccia,
congiungendo le mani e osservando per qualche istante l'intreccio
delle dita lunghe e robuste come radici: proprio come un bambino, si
sentiva già in colpa per ciò che gli aveva detto,
ma erano parole a
cui sentiva di dover dar voce prima di morire chiedendosi se fosse
giusto o meno provare quel sentimento e tenerglielo nascosto,
ostentando una simpatia che non esisteva più.
A
Himuro, che continuava a tenere gli occhi fissi oltre le sbarre,
quelle parole risuonarono come un ronzio confuso e lontano, tanto che
inizialmente sembrò perfino incapace di rispondergli.
Infine,
dopo attimi che all'altro parvero interminabili e terribilmente
snervanti, Tatsuya si voltò lentamente e forzò un
sorriso.
«Scusami,
Atsushi: che cosa hai detto?»
Murasakibara
lo guardò in silenzio, senza che la sua espressione mutasse:
ancora
si azzardava a chiamarlo per nome? E gli sorrideva? Avrebbe voluto
dirgli di smetterla, ma pensò fosse meglio farlo
gradualmente e, pur
con fatica, si trattenne e impedì all'ira di soggiogarlo -
dopotutto
la loro amicizia era stata lunga ed era finita appena due giorni
prima -.
«Ti
odio.» Murasakibara ripeté, questa volta con
più decisione.
Himuro,
dal canto suo, rimase a guardarlo in silenzio e ampliò a
fatica il
sorriso, questa volta senza mascherare il dolore ma, anzi,
dimostrandolo attraverso il tremore delle labbra, il viso appena
inclinato e una luce docile negli occhi.
Tatsuya
non disse altro e tornò a voltarsi lentamente, rivolgendo di
nuovo
la propria attenzione oltre le sbarre: gli aveva chiesto scusa con
gli occhi, ma quella sarebbe stata l'ultima volta, e lo sapevano
entrambi.
Era
troppo tardi, ormai, per chiedere scusa.
«Daiki,
ascoltami.»
Aomine
alzò gli occhi al cielo e schiuse le labbra in un brontolio
di
esasperazione: non ne poteva più di Akashi e delle sue
teorie.
«Perché
continui ad insistere? Hanno scoperto la loro colpevolezza e li hanno
arrestati, punto.»
«Ma
Atsushi non è colpevole.» pur usando un tono di
voce più basso e
un timbro decisamente più calmo, Akashi riuscì a
frenare le
continue lamentele di Aomine.
Daiki
rimase in silenzio per qualche istante, vittima dello sguardo
imperturbabile e tagliente di Akashi: perché continuava a
parlargliene? A cosa serviva, visto che ormai era fuori dal caso? Se
desiderava che le indagini prendessero un'altra piega si sarebbe
dovuto rivolgere ad altri poliziotti, non certo a lui.
«Tu
lo vai a trovare, lui nega di essere l'assassino, e tu gli
credi?»
Aomine brontolò e continuò ad avanzare, - nella
speranza di mettere
un po' di distanza fra lui e l'altro -, mentre le dita cominciarono
ad insinuarsi fra la camicia e la cravatta per allentarne il nodo.
«Non
è questione di fiducia.» Seijuurou,
però, non aveva alcuna
intenzione di lasciarsi scappare la sua vittima e accelerò
il passo.
«Lo
vedo.»
Aomine
gli rivolse un'occhiata confusa e, capendo che non sarebbe riuscito a
seminarlo, rallentò nuovamente, traendo un sospiro di
sollievo non
appena la stretta della cravatta attorno al collo si fece
più
blanda.
«Gliel'ho
visto negli occhi: non è stato lui.»
«Beh,
se non è stato Murasakibara chi altri potrebbe aver
collaborato con
Himuro? E come me la spieghi, quella lettera?»
Akashi
rimase in silenzio per qualche istante, poi lo guardò negli
occhi e
gli rispose in modo del tutto inaspettato.
«Sei
un cavallo a cui non è mai stato tolto il paraocchi,
Daiki.»
Aomine
aggrottò la fronte e arricciò il naso,
rivolgendogli un'espressione
piena di disappunto.
«Mi
hai paragonato ad un cavallo?»
«Sei
un poliziotto, dovresti capirlo prima di me.» Akashi
ignorò la
protesta e tornò a guardare davanti a sé,
parlando con tutta la
calma del mondo.
Aomine,
dal canto suo, pensò che fosse impossibile capire qualcosa
prima di
Akashi, e non solo per lui, ma anche per tutti gli altri, per cui non
rispose alla provocazione e lasciò che l'altro continuasse a
discorrere da sé.
«Quella
lettera è un insulso tentativo di depistaggio, di incolpare
un
innocente. Per quanto riguarda Himuro, non si può escludere
che lui
possa c'entrare qualcosa, ma in che modo? Hai pensato a tutte le
possibilità esistenti?» Akashi fece una piccola
pausa e, ascoltando
per qualche istante il silenzio di Aomine, decise di continuare
«Himuro potrebbe non essere la mente, ma l'assassino vero e
proprio,
ma ha accusato Murasakibara di essersi sporcato le mani per
un'attenuazione della pena, anche se è strano,
perché presentandosi
da Kagami con una pistola è come se si fosse costituito alla
polizia.»
«Quindi?»
«Quindi
potrebbe essere testimone di un avvenimento che noi non conosciamo e
obbligato dal vero assassino a scontare la pena carceraria al posto
suo, o ancora essere il braccio destro dell'assassino, che ha deciso
di usarlo come pedina e lo sta sfruttando meglio che
può.»
Aomine
rimase in ascolto e si limitò a prendere una grande boccata
d'aria,
confuso da tutte quelle teorie che Akashi aveva preso a sciorinare
con fin troppa rapidità e scioltezza: probabilmente stava
sveglio la
notte a pensare e a fare schemi, cercando di immergersi nella mente
di un assassino, e il che era piuttosto inquietante.
«Ma
c'è un'altra possibilità che, fra parentesi,
è quella che mi
convince più di tutte: Himuro potrebbe essere innocente, ma
ha
accettato di scontare la pena per un delitto non commesso
perché
l'assassino gli ha promesso qualcosa in cambio.»
«È
da stupidi.»
«Non
se sei un tossicodipendente bisognoso di soldi. Guarda caso Himuro si
è proclamato "mente" e ha accusato Atsushi di essere
l'assassino vero e proprio, questo perché l'assassino, oltre
ad
averlo rassicurato promettendogli una grossa somma di denaro, gli ha
ricordato che chi medita un delitto ma non si sporca le mani sconta,
almeno nella maggior parte dei casi, una pena minore rispetto a chi
ha commesso il crimine.»
Aomine
restò in silenzio: da una parte era meglio che ci fossero
Himuro e
Murasakibara in carcere, perché ciò significava
che l'assassino non
era Kise, ma se almeno uno dei due fosse stato innocente come
riteneva Akashi non c'era nulla di buono: scontare anni di carcere
ingiustamente, al posto di un assassino rimasto impunito, sarebbe
stato agghiacciante.
«Ok,
le tue teorie stanno in piedi, ma te l'ho già detto: io non
sono più
assegnato a questo caso, dovresti parlarne con i miei colleghi, non
con me.»
«Fai
in modo che ti riassegnino il caso, Daiki.»
Le
labbra di Aomine fremettero: non sapeva se trattenere un insulto o un
sospiro di sollievo, perché neppure lui, in quel momento,
riusciva a
capire cosa voleva.
Quel
caso aveva avuto un forte impatto su Aomine, lo aveva stancato, in
pochi giorni gli aveva portato via ogni energia e ogni briciolo di
sensatezza, e farselo riassegnare sarebbe stato un suicidio, ma allo
stesso tempo si sentiva insoddisfatto, contrariato all'idea di
essersi arreso prima che i presunti assassini venissero presi, e
quindi sentiva l'irrefrenabile bisogno di rimettersi a lavoro, alla
ricerca di indizi importanti.
«Mi
servi.» Akashi continuò, senza tanti peli sulla
lingua, e Aomine
rispose con un sospiro sommesso, impregnato d'esasperazione,
cominciando a massaggiarsi la radice del naso con le dita.
«Vedrò
cosa fare, ma lasciami ancora una giornata di riposo.»
Seijuurou
lo fulminò con lo sguardo.
«Non
c'è tempo da perdere, Daiki: c'è un innocente in
carcere.»
Aomine
sospirò nuovamente: non avrebbe avuto pace finché
la sete di
vendetta, scoperta e vittoria di Akashi non fossero state
soddisfatte.
«L'assassino
non è Atsushi, non può essere come ha detto
...» Akashi si fermò
ed ebbe un'esitazione che spaventò perfino Aomine.
«Akashi,
va tutto bene?»
Akashi
restò in silenzio per ancora pochi istanti, poi, finalmente,
riprese.
«Shintarou.»
La
mattina dopo, Aomine aveva fatto richiesta per essere riammesso nel
caso e aveva subito una ramanzina che gli era parsa lunga una vita e
che già sapeva gli avrebbero riservato - ecco
perché non voleva
fare richiesta per tornare ad occuparsi del delitto -: partecipare ad
un caso, abbandonarlo e poi esigere di essere riammesso non era un
atteggiamento professionale, e questo non piaceva per niente al suo
capo.
«Ti
hanno contattato?» Kise biascicò, con il viso
assonnato che faceva
capolino fra le coperte.
«Non
ancora, probabilmente decideranno domani.»
«È
che ... non capisco come mai tu voglia così tanto farti
riassegnare
il caso.»
Aomine
rimase in silenzio e si strinse nelle spalle: non aveva voglia di
dirgli che Akashi gli aveva di nuovo messo mille dubbi in testa e che
ora era tornato a sospettare di tutti - e quindi anche di lui -.
Ryouta
lo osservò ancora per qualche istante, poi scostò
appena le coperte
e si sistemò lentamente sopra di lui: da quando Kuroko era
morto si
erano a malapena toccati, soprattutto a causa di Aomine e dei suoi
infiniti sospetti nei confronti del fidanzato, ed erano riusciti a
fare l'amore soltanto quando si era saputo che Himuro e Murasakibara
erano i colpevoli.
Kise,
ormai convinto che nella mente di Aomine non vi fossero più
dubbi,
aveva l'ovvia intenzione di ripetere l'esperienza di poche notti
prima e Daiki fu piacevolmente tentato dalla pelle calda contro la
sua e dalle labbra del fidanzato che avevano già cominciato
a
stuzzicargli il collo.
La
bocca di Kise scivolò lentamente lungo i muscoli del collo,
fin
sotto l'orecchio, e la pelle di Aomine fu piacevolmente stuzzicata da
un sospiro accaldato.
«Aominecchi?»
Ryouta cantilenò appena, quasi a volerlo incitare, e Aomine
cominciò
ad avvertire un pizzicore distinto nel basso ventre.
Le
mani di Daiki corsero ai fianchi magri del compagno, le labbra
andarono in cerca delle altre e le incontrarono immediatamente,
legandosi a loro in un bacio passionale e ingordo.
Aomine
ribaltò la situazione e le mani scivolarono rapide alle
cosce calde
del compagno, le bocche si staccarono e tornarono ad unirsi non
appena le dita di Kise gli stuzzicarono le braccia con carezze
tremanti di eccitazione.
Non
appena la stretta di Ryouta si fece salda attorno alle sue spalle e
l'intreccio delle loro lingue sembrò rafforzarsi, Aomine
sentì che
qualcosa non andava e che la sua eccitazione, per quanto fosse
evidente, non sarebbe riuscita a spingersi oltre un certo limite.
Kise,
dal canto suo, sembrò percepire la tensione del compagno e
allentò
la stretta, scostando appena il viso e rivolgendogli un'occhiata
confusa.
«C'è
qualcosa che non va?» Ryouta sussurrò appena e la
stretta si
allentò ancora, ormai sul punto di sciogliersi.
Daiki
distolse lo sguardo e sospirò appena.
«Scusami.»
chiuse gli occhi, quasi stesse cercando disperatamente di
riacchiappare l'eccitazione ormai perduta.
Kise
sciolse la stretta e le sue labbra si incrinarono in una smorfia di
rammarico e insoddisfazione.
«Non
ci riesco.» Aomine, dal canto suo, si scostò dal
compagno e tornò
al suo posto, guardando davanti a sé senza dire altro.
Ryouta
rimase in silenzio per qualche istante e si mise a sedere, senza
riuscire a staccargli gli occhi di dosso.
«Perché
non ci riesci?»
Daiki
non rispose: ripensò alla possibilità che dentro
quella cella ci
fossero due innocenti - o almeno uno -, che il vero assassino fosse
ancora in libertà, che la calligrafia di quella lettera
fosse stata
imitata. Esisteva ancora la remota
possibilità
che Kise potesse essere l'assassino, ed era un pensiero che si
sarebbe ripresentato ogni volta che si sarebbero baciati o anche solo
sfiorati, era un tormento che gli impediva di lasciarsi andare al
turbinio del desiderio e di farci l'amore.
Aomine
inspirò profondamente e dopo qualche secondo di esitazione
si decise
a rispondergli.
«Esiste
la possibilità che ...» biascicò e si
fermò per qualche istante
«che sia ancora in libertà.»
Ryouta
schiuse le labbra e balbettò qualcosa di insensato,
aggrottando la
fronte con espressione incredula.
«No!»
Ryouta protestò a voce alta, attirando l'attenzione del
compagno su
di sé «li ... li hanno presi,
Aominecchi!»
Daiki
tornò a guardare davanti a sé e cercò
di parlare, ma la voce di
Kise sovrastò la sua.
«Tu
dubiti ancora di me, vero?» la voce di Kise tremò
e sembrò
spegnersi.
«Kise,
io–»
«Lascia
perdere.» e dopo il tremolio iniziale, la voce dell'altro
parve
farsi detentrice di una rabbia trattenuta a stento.
«Immagino
che sia opera di Akashicchi se riesci a malapena a toccarmi.»
Aomine
si sentì in trappola e serrò le labbra in una
smorfia di
colpevolezza: Kise aveva colto nel segno.
«Visto
che per te è così tanto difficile fare l'amore
con me, non dovresti
neppure stare qui.» Ryouta fece una piccola pausa e Daiki
cercò
invano il suo sguardo «potrei ucciderti mentre
dormi.»
Aomine
alzò gli occhi al cielo e sospirò esasperato,
arreso all'idea che
dietro quell'ironia si nascondesse la richiesta di lasciarlo solo.
Daiki
lo vide sprofondare fra le coperte, si soffermò per qualche
istante
sui ciuffi biondi e disordinati appena visibili e finalmente si
decise ad alzarsi e ad indossare i suoi vestiti: a quel punto sperava
davvero di ricevere buone notizie, di essere riammesso al caso per
inchiodare una volta per tutte il vero assassino e poter sistemare
definitivamente le cose con Kise; fino ad allora, però,
avrebbe
dovuto lasciarlo in pace.
La
vibrazione del cellulare fece tremare la superficie del comodino, il
suono riecheggiò nella stanza e gli ferì le
orecchie.
Con
ancora gli occhi chiusi, Daiki si mise a sedere con un rantolio
sommesso e cercò il cellulare a tentoni, rispondendo con la
voce
arrochita dal sonno una volta che lo ebbe trovato.
Quando
sentì la voce del capo che lo esortava - quasi in modo
scherzoso - a
non dormire perché era stato riammesso al caso, Aomine
sembrò
ridestarsi quasi completamente dallo stato di intorpidimento mentale
e fisico che il sonno gli aveva lasciato addosso.
«Ancora
una cosa, Daiki.» la voce del capo sembrò farsi
seria, svincolata
dall'accento scherzoso che fino a poco prima l'aveva caratterizzata.
Aomine, dal canto suo, rimase in silenzio e aspettò che
l'altro
procedesse.
«Sono
stati emessi due mandati di perquisizione, uno per la casa e l'altro
per lo studio medico di Midorima Shintarou.»
Daiki
rispose con una sottospecie di muggito, per fargli capire che era
ancora in ascolto.
«Ti
ho assegnato allo studio medico, va bene?»
«A
che ora?»
«Alle
sedici.»
«Va
bene.» non appena Aomine rispose, il tono del capo
sembrò tornare
venato d'allegria e, dopo avergli augurato buona fortuna, si
congedò.
Daiki
diede un'occhiata allo screensaver del cellulare e sospirò
sommessamente: non c'erano né messaggi né
chiamate.
Pensò
di fare il primo passo, chiamare Kise e dirgli che poteva tornare ad
occuparsi del caso, ma era una notizia che in quel momento lo avrebbe
solo infastidito; allora valutò la possibilità di
chiamare Akashi,
ma si ricordò che era colpa sua se lui e il suo fidanzato
avevano
discusso - di nuovo -, per cui decise di lasciar perdere e si
limitò
a risistemare il cellulare al suo posto.
Daiki
conosceva piuttosto bene la zona e sapeva esattamente in quale punto
dell'edificio si trovava lo studio medico di Midorima, quindi se la
prese piuttosto comoda e sfiorò il ritardo - a dire il vero
non se
ne sarebbe neppure accorto se qualcuno di sua conoscenza non glielo
avesse fatto notare -.
«Vorrei
sapere che diavolo ci fai qui.» Aomine brontolò e,
senza neppure
degnarlo di uno sguardo, cominciò a rovistare in una delle
mensole
«non sei autorizzato, a meno che tu non sia un
poliziotto.»
«Non
sono un poliziotto, ma il tuo capo mi ha permesso di stare qui,
quindi temo che dovrai sopportare la mia presenza, Daiki.»
Aomine
rivolse un'occhiata nervosa ad Akashi e schioccò la lingua
contro il
palato, in segno di protesta, per poi tornare a frugare nella mensola
con più attenzione.
«Scommetto
che ci sei anche tu dietro i due mandati di perquisizione.»
Seijuurou,
che osservava attentamente il contenuto della mensola,
accennò un
sorriso compiaciuto.
«Altrimenti
non lo troveremo mai.»
«Quanta
fretta e quanta foga ...» Aomine esitò e
afferrò una piccola
agenda che sfogliò velocemente «se non ti
conoscessi bene,
comincerei a sospettare anche di te.»
«Di
me?» Akashi ampliò il sorriso «se fossi
l'assassino avrei ucciso
qualcun altro, non Tetsuya.»
Daiki
si fermò per qualche istante su una pagina dell'agenda, e
non
perché aveva trovato qualcosa di interessante, ma
perché le parole
di Akashi gli avevano messo i brividi e lo avevano immobilizzato.
«Comunque
cerca di controllare meglio.»
E
poi si sentì scuotere da uno spasmo di nervoso: gli girava
continuamente intorno e gli parlava ogni volta che ne aveva
l'occasione, uscendosene con frasi inquietanti in più
occasioni, e
come se non bastasse pretendeva perfino che svolgesse il suo lavoro
senza alcuna sbavatura, come se il suo capo lo avesse mandato
lì per
controllare il loro operato e, in particolare, il suo.
«Sei
troppo distratto, Daiki.»
Aomine
strinse i denti e si ripeté mentalmente di stare calmo, di
pazientare: anche lui, nei panni dell'assassino, avrebbe ucciso
qualcun altro al posto di Kuroko, e la sua scelta sarebbe ricaduta
proprio su Akashi.
Spalancate
le ante di un piccolo armadio, Daiki non ebbe né il tempo di
rovistare al suo interno né di aguzzare la vista per
catturare le
forme di alcuni oggetti nascosti nella penombra, perché la
sua
attenzione si spostò rapidamente alla tasca dei pantaloni,
dove il
cellulare aveva cominciato a vibrare energicamente.
Aomine
si affrettò ad estrarre il cellulare dalla tasca sotto lo
sguardo
vigile di Akashi e rispose senza pensarci due volte.
Seijuurou,
che non osò staccare il proprio sguardo dalla figura
dell'altro, lo
vide prima aggrottare leggermente la fronte, in un'espressione
accigliata, poi roteare gli occhi e sbuffare sonoramente: doveva
trattarsi di un collega, perché Daiki aveva cominciato ad
esporgli
la situazione allo studio medico e Akashi, pensando a questa
eventualità, si mise ancor più sull'attenti
pensando che chi si
trovava all'altro capo del telefono poteva essere uno di quei
poliziotti che avevano il compito di perquisire la casa di Midorima.
Aomine
si congedò rapidamente e una volta risistemato il cellulare
in tasca
cercò di ignorare Akashi e di rivolgere la propria
attenzione
all'interno del piccolo armadio, ma Seijuurou lo punzecchiò
immediatamente.
«Era
uno dei poliziotti inviati a perquisire la casa di Shintarou?»
Daiki
si immobilizzò e voltò lentamente il viso verso
di lui,
squadrandolo con le labbra increspate in una smorfia nervosa.
«Intercetti
anche le chiamate, ora?»
Akashi
sorrise e negò appena con il capo.
«Semplice
intuito, Daiki.»
Aomine
bofonchiò e tornò ad osservare l'interno del
piccolo armadio,
dando ad Akashi la conferma di quella intuizione: quello con cui
l'altro aveva parlato fino ad un attimo prima era proprio uno di quei
poliziotti che avevano il compito di perquisire la casa di Midorima.
«Non
hanno trovato nulla.» dopo qualche istante, la voce di Daiki
risuonò
alterata da un lieve tremore, bassa, piena di rabbia e frustrazione
per essere sempre al punto di partenza, ai piedi di un muro alto e
impossibile da scavalcare, di fronte ad un vicolo cieco.
«Visto
che sei così intuitivo ...» Aomine
sbottò e si alzò in piedi,
girando intorno con un sospiro nervoso «vedi di darmi una
mano e di
non ostacolare il mio lavoro.»
«Lo
sai che non c'è pericolo.» Akashi
ribatté immediatamente, con le
labbra increspate in un sorriso sornione «sono molto
più bravo di
te.»
Usciti
dallo studio medico anche gli ultimi due colleghi, Daiki avrebbe
voluto fermarsi al centro della stanza e strapparsi i capelli per
l'esasperazione: erano ancora al punto di partenza, ai piedi di un
muro alto e impossibile da scavalcare, di fronte a quel maledetto
vicolo cieco.
Akashi
si era zittito da almeno un'ora - Aomine aveva notato immediatamente
l'assenza di quel costante ronzio fastidioso e umiliante attorno alle
sue orecchie - e se ne stava in fondo alla stanza, rivolto alla
parete, impegnato a giocherellare con quella che doveva essere la
riproduzione di una protesi dell'anca - o qualcosa di simile -.
«Forse
dovremmo semplicemente arrenderci all'idea che è stato uno
di noi, e
che quella persona è Murasakibara.» Aomine
parlò dopo qualche
istante di esitazione, compiendo qualche passo verso l'altro.
«Tu
ti fidi di me, Daiki?»
I
passi di Aomine si arrestarono immediatamente: quella domanda lo
aveva sorpreso, era come se Akashi, talmente tanto impegnato a
giocherellare con quella protesi, non lo avesse neppure ascoltato e
si fosse foderato le orecchie con una serie di pensieri
esclusivamente suoi.
«Sinceramente
preferisco non fidarmi di nessuno.»
Come
poteva fidarsi di Akashi, se viveva nel costante dubbio che Kise
potesse essere l'assassino?
«Peccato.»
Akashi si lasciò scivolare di mano la protesi che, facendo
attrito
contro la superficie del mobile, produsse un rumore argentino,
metallico «io mi fido di te.»
Aomine
rimase in silenzio per qualche istante, senza sapere cosa dire, e
dopo qualche attimo di esitazione optò per un repentino
cambio di
discorso.
«Dobbiamo
andare, ormai sono le venti e siamo rimasti solo noi.»
Akashi
si voltò e si diresse verso di lui senza dire nulla,
così Aomine
gli voltò le spalle e uscì velocemente dallo
studio, prestando più
attenzione al corridoio buio e silenzioso piuttosto che a quello che
ormai poteva considerare a tutti gli effetti un collega.
«Daiki?»
La voce di Akashi gli parve ancora una volta più come un ronzio fastidioso, così Aomine alzò gli occhi al cielo e si allontanò di qualche passo dall'entrata dello studio medico, cercando di ignorarlo.
«Daiki, vieni qui.»
Angolo invisibile dell'autrice:
Scusatemi per il ritardo,
ma fra esami,
momenti di tristezza, altre fanfiction e inizio
dell'università è
stato un periodo un po' così.
Per il prossimo aggiornamento vi dico
subito che dovrete aspettare un po', comunque cercherò di
essere il
più veloce possibile.
Ringrazio ancora tutti quelli che
recensiscono o che hanno inserito la storia fra i preferiti, i
seguiti o le ricordate e, visto che siamo al sesto capitolo, mi
sembra giusto pubblicare una seconda rubrica dove ripeterò
alcune
cose e riassumerò la situazione dei personaggi dal IV al VI
capitolo
compresi: #RUBRICA#RigorMortis