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Autore: Queen of Superficial    19/10/2014    3 recensioni
Un neurologo, un chitarrista,
un'anziana signora, un batterista,
un'anomalia cerebrale, un mistero.
«Clio si riscosse da questi pensieri mentre entrava in macchina e quasi riusciva a sentire ancora la mano di lui sulla coscia. Scosse la testa. Due giorni prima era tutto normale, due giorni dopo niente significava più niente.
Era il 29 dicembre.
Faceva freddo.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Synyster Gates, The Rev
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Grazie a te ho una barca da scrivere
un treno da perdere”
- Fabrizio De André

 

 

Brian e Clio viaggiavano nella notte e la notte viaggiava in loro, lasciando scie chimiche di ricordi alle loro spalle. Mancavano due giorni – forse uno? - a Capodanno, ma le cinque del mattino sono le cinque del mattino ovunque.
Clio continuava ad essere colpita da quelle immagini a velocità supersonica. Non capiva perché non fosse mai riuscita ad evitare di fare le cose che le mettevano malinconia. Era stata come una corsa a ostacoli per andarsi incontro, lei e il dolore, per tutta la vita. Un abbracciarsi e respingersi e dimenticarsi e guardare altrove per distrarsi, ma nella visione periferica c'era sempre, immobile, il dolore, pronto a riaccoglierla tra le sue braccia che certe notti somigliavano a spire e le ricordavano tutto il tempo andato che non le sarebbe stato ridato indietro, non importava quanto lei pregasse e sperasse in un po' di sole. Il domani migliore che lei voleva purtroppo era un concetto retroattivo, inghiottito dalle nebbie del tempo, incastrato in cimiteri non diversi dal Forest Lawn. Aveva sempre fatto la conta delle mancanze e delle attese, nella vita, fino ad arrivare al punto in cui attendere era diventato stupido, perché sapeva già che non sarebbe arrivato niente. Nonostante ciò, lei sedeva sul balcone con un libro di neurologia applicata in grembo, e aspettava. Non riusciva a farne a meno. Forse si trattava di abitudine, di follia, o di una leggera forma di autismo; ciononostante, aspettava.
Brian le colpì leggermente il braccio per segnalarle che la finestra di casa sua era aperta; potevano vedere le tende muoversi sospinte dal vento anche da lì, nel buio pesto del cortile. Il cellulare di Clio vibrò ripetutamente e lei rispose senza dire nulla di preciso, tenendosi la fronte con la mano.
In lontananza, una sirena della polizia risuonava solitaria tra le palme avvolte dall'oscurità.

 

Every smile you fake, every claim you stake, I'll be watching you.
“Dipende.”, gli disse la donna.
Gli occhi di James riuscivano a distinguere il profondo verde di quelli di Elda Fitz nonostante il buio avesse smussato anche la forma dei mobili, nel salotto di casa Haner. Stavano chini, fissavano un gomitolo che sempre più velocemente diventava qualcosa. Una sciarpa. Jimmy scoprì, d'un tratto, che quel che le aveva chiesto non gli interessava davvero: non voleva sapere, voleva parlare. E parlò.
“Non dovranno mai sapere cos'è accaduto durante quelle sette ore.”
L'anziana fermò il lavoro a maglia per rivolgergli un'occhiata che aveva un vago retrogusto di divertimento.
“Cos'è accaduto, James?”, gli chiese, sentendo che lui si aspettava quella domanda.
“Ho visto.”
“Cos'hai visto?”
Alla signora Fitz l'argomento interessava davvero, e per un motivo molto semplice: sentiva chiaramente di star morendo. Forse non sarebbe stata questione di giorni, forse sarebbero passate ancora delle settimane, magari dei mesi, ma lei aveva, per la prima vera volta in vita sua, la netta sensazione di avere i giorni contati. Poteva vedere l'eco di quel sentimento dentro gli occhi calmi in modo innaturale di James, seduto su quel divano come nel confessionale di un prete.
“La vita senza di me.”, disse.
Non c'era bisogno che lei chiedesse cosa intendeva, tanto era chiaro, lampante: un ammasso di fotografie scattate in quella che la gente considera la noiosa quotidianità dell'esistere con un vuoto in qualche angolo. Un posto vuoto a tavola, una sagoma mancante accanto a uno sposo, un buco tra fratelli; quel gap che le persone che perdono qualcuno che amano tendono inconsciamente a lasciare per ricordarsi di un'assenza, mossi dal timore che anche i ricordi, un giorno, cadano nell'oblio. Ci costringiamo a pensare con una costanza ammirevole a ciò che abbiamo irrimediabilmente perso, viviamo infestati dalla memoria, diventiamo martiri volontari di un tempo che fu e che non potrà mai più essere. Nella mente di Clio, che in quel momento si trovava fuori dalla porta con Brian, indecisi se entrare o meno, le immagini erano piene, invece, cariche di significato, senza mancanze, prive di sottintesi, di refusi, di rimpianto. Onda, dopo onda, dopo onda, in una sequenza di stelle cadenti che non erano mai arrivate a terra. Fotografie prive della violenza brutale di uno strappo, ecco cosa c'era nella sua testa: ma James non lo sapeva, e si mosse a disagio sul cuscino del sofà, come punto da un calabrone.
“Sarebbe stata una vita con te comunque, anche se non ci fossi stato, James.”, disse Elda Fitz, riprendendo a tessere la sciarpa arancione, “Il peso della tua assenza avrebbe costituito una presenza ingombrante quanto la tua immancabile presenza; solo, in senso opposto. Gli avrebbe oppresso i giorni, invece di riempirli.”
Stettero in silenzio, ascoltando una chiave girare incerta nella toppa.
“Vedi, James”, disse ancora la signora Fitz, sorridendogli con tutto l'amore paziente di una nonna che ha visto più cose di quante le vada di raccontare, “La vita è come questo lavoro a maglia. Materiale grezzo che, lavorato dalle mani giuste, si trasforma in qualcos'altro. Qualcosa che sa avvolgere, e proteggere dal freddo. L'anima è come un gomitolo di lana, come un violino. Quando non ci siamo più noi a lavorarla per farla diventare qualcosa, per renderla melodia, qualcun altro lo farà al posto nostro. Qualcuno che ha amato il materiale grezzo con la stessa potenza e la stessa inevitabile, soddisfatta stanchezza con cui amerà l'opera finita che ne verrà fuori quando il processo di creazione sarà concluso. Che tu ci creda o no, c'è stata gente a questo mondo che ha visto bellissime sculture nei pezzi di marmo ben prima di poggiarci sopra uno scalpello, quando erano nient'altro che un freddo, inanimato, anonimo blocco di pietra. Se ne sarebbero fatti qualcosa della tua assenza allo stesso modo e con la stessa intensità con cui sono riusciti a trarre meraviglie dalla tua presenza. Certo, il rovescio della medaglia sarebbe stato il dolore.”
“Ne ho le palle piene, del dolore.”
Una voce lieve, spezzata, femminile. La voce di Clio. Tutti e due si voltarono verso la porta e loro erano lì, Brian e Clio, vicini e indecisi come due bambini che sconfinano in un terreno sconosciuto.
“Cosa ci fate qui?”, chiese Brian, sentendosi in dovere di dire una cosa qualunque, possibilmente quella giusta.
Elda Fitz sorrise.
“James voleva sapere da me perché non era disposto a dirvi addio.”
Tutti tacquero, facendo piombare la stanza buia in un silenzio innaturale.
Elda Fitz continuò.
“Immagino avrei dovuto rispondergli perché vi ama, che poi è l'unica cosa logica che si potrebbe dire. Ma amare non è mai stato un concetto semplice. Almeno, non per voi. Per cui, gli ho detto la verità.”
Attese, ma nessuno si decideva a incitarla a continuare. Sbuffò lievemente e fece da sola: “Gli ho detto che sareste precipitati in un gelido, liquido terrore, ma che ve ne sareste fatti una ragione. Che avreste saputo cosa farvene, della sua assenza. Probabilmente l'avreste resa melodia, perché riecheggiasse nei secoli.”
Clio si mosse piano, cercando di ignorare gli occhi spalancati di Brian, e andò a sedersi sul divano accanto a Jimmy. Lui si sporse verso di lei e lei gli poggiò una mano sulla gamba, come James aveva fatto quando l'aveva accompagnata in ospedale: fu un sollievo stupido quello che trovò nell'accorgersi di sentirlo solido, tridimensionale sotto le dita.
“Chi ha capito che ci avreste trovati qui?”
Brian inghiottì un po' troppa saliva e fece un gesto con la testa in direzione di Clio.
“Ah, certo.” soggiunse, sognante, la signora Fitz, “Beh. Gli ho fatto vedere questa sciarpa.”, disse, sollevando il lavoro a maglia, “E gli ho spiegato che la vita e l'eternità che ci portiamo dentro sono così. Niente più che un embrione, un'idea, finché due mani esperte non decidono di renderle qualcosa con un'identità e una funzione. Si preoccupava dell'immortalità dell'anima.”
Clio tenne gli occhi in quelli verdi della donna davanti a sé per un tempo che parve infinito.
“Come si sente, signora Fitz?”, chiese, cauta. Non medico, no. Ragazza.
“Splendidamente, cara. Grazie.”
La tenda si mosse più forte, catturando tutti gli sguardi per una frazione di secondo.
“Bene.”, disse Clio, “Perché mi hanno chiamato dall'ospedale. Hanno trovato il suo corpo nel cortile sul retro, proprio vicino alle scale.”
L'anziana sorrise, come se si fosse appena ricordata di qualcosa di molto divertente: “Ah!”, disse, “Ecco perché quella strana sensazione.”
“Quale sensazione?”, indagò, cauto, Brian.
“La sensazione di star facendo qualcosa per l'ultima volta.”

 

Clio aprì gli occhi di scatto, urlando agghiacciata.
“Hey, hey! Stai giù! Non è nulla! È solo un brutto sogno!”
Con una fatica terribile, ancestrale, mise a fuoco la stanza intorno a sé: era una camera da letto degli ospiti. Quella di Brian. Jimmy, accanto a lei nel letto, aveva un libro dischiuso sul torace.
“E' passato Chris DiBenedetto, prima. Mi ha detto che non so quali agenzie governative di altissimo livello erano state sguinzagliate per la mia fuga dall'ospedale; comunque è tutto ok, ma ho dovuto firmare dieci miliardi di carte. Hai dormito bene?”
Il libro aveva perso il segno: era uno dei suoi, parlava di fisica quantistica e percezione della realtà. Clio aveva un mal di testa terrificante.
Brian entrò fischiettando: “Meno male, temevo di aver interrotto qualcosa. Lo prendi, un po' di caffè?”
La ragazza sbatté le palpebre, infastidita dalla luce che filtrava attraverso le tende.
“Come?”
“Caffè!”, scandì l'altro, quasi urlandole in faccia. Era insolitamente giulivo.
“Sì, grazie.”, disse, confusa, abbandonandosi all'indietro, sul braccio forte di Jimmy.
“Hai avuto un incubo?”, le chiese questi. Clio si voltò. Spettinato. Incredibile. Ricordava ogni dettaglio di quanto era accaduto la notte prima, ma a quanto pare era l'unica.
“Senti, quelle sette ore...”
“E' un bellissimo mattino d'inverno. Dobbiamo proprio parlarne?”
Clio scoppiò a ridere, di fronte alla sua espressione evasiva e per nulla gravata dagli assurdi giorni che erano appena trascorsi. Si sporse a baciarlo, dolcemente, tra la guancia e l'angolo della bocca, in un punto particolarmente morbido del viso.
“No.”, gli disse, “No. Non dobbiamo parlarne affatto, se non ti va. Non dobbiamo fare nulla che non ci vada di fare. Mai più.”
Jimmy sorrise.
“Andiamo di là a prendere il caffè prima che Brian faccia saltare in aria la casa.”
Forse era stato davvero tutto un sogno. Forse avevano bevuto, chi lo sa. Troppo vivido, però. Troppo preciso, troppo colorato, troppo dettagliato per essere soltanto un delirio indotto dall'alcol. Ma che importanza aveva? Mentre uscivano dal letto, le gambe nude di Clio si erano decise che, da quel giorno in poi, sarebbero andate solo ed esclusivamente nella direzione in cui si sentivano di andare. La sua testa, sempre funzionante a temperatura lavica, avrebbe dovuto rallentare e smetterla con tutte quelle domande, quegli algoritmi, quelle ossessioni, che le piacesse o no. Era un nuovo giorno. Un nuovo mondo. Tutto quello che sarebbe stato da lì in poi avrebbe contenuto quanti meno punti interrogativi possibile. Voleva vivere, Clio, senza stare continuamente a chiedersi che ne sarebbe stato o come stavano davvero le cose. Voleva meravigliarsi, e ridere, e bere caffè nel cuore della notte, se le andava, o anche la mattina a casa degli amici. Voleva che la malinconia prendesse un'altra strada, si trasferisse da un'altra parte, perché non avrebbe più avuto tutto quel pensare come invincibile alleato per trascinarla a fondo. Jimmy l'aveva preceduta, sentiva lui e Brian battibeccare in lontananza, quelle loro parole concitate simili a una melodia scherzosa. Forse era davvero stato tutto un sogno, un sogno inquietante e inspiegabile che aveva avuto lo scopo di insegnarle che non tutto, nella vita, può essere scomposto e ricomposto per trovarne il senso profondo fino ad andare al manicomio senza passare dal via. Si sorrise nello specchio del corridoio e spalancò la porta che dava sul salotto.
It's a new dawn, it's a new day, it's a new life for me... and i'm feeling good.”, canticchiò, soave.
Il salotto invaso dalla luce del sole non recava ricordi della notte appena trascorsa. Abbracciò Jimmy da dietro, come spesso faceva. Bevve caffè, mangiò biscotti, chiamò l'ospedale per farsi spostare di turno. Salutò tutti con un affetto intriso di gioia e percorse a piedi la Ocean Lane, inalando il profumo dell'oceano. Magari tutto accade per una ragione, magari no, ma l'unica cosa di cui possiamo essere certi al 100% è che accade. Accade e basta, non vale la pena di perdere il sonno a cercare di capire come mai. Imboccò il vialetto di casa con un cenno di saluto alla vicina che falciava il prato. Una doccia calda, e poi al lavoro, e poi la vita. La vita vera, genuina, la vita che era anche rose, chiese e teorie sulla fisica dei quanti, ma era soprattutto serate fresche accarezzate dal vento, bicchieri di vino e risate senza scopo. Aprì la porta di casa e mollò, come di consueto, il golf e la borsa sulla vecchia poltrona che era stata di suo nonno. Era così presa a pensare al resto della giornata, così piena di gioia immotivata per essersi svegliata accanto a James e aver preso quel banale caffè con quei biscotti ipercalorici che quasi non la vide: sulla pelle marrone e consunta della poltrona spiccava, come una rosa selvatica in un prato di un altro colore, una lucida, brillante sciarpa di lana arancione.
Il bigliettino che la accompagnava era quello dei fiori che le aveva mandato Brian. Whatever, baby. B. diceva. Se lo girò tra le mani, senza sorpresa, senza sgomento, senza orrore. Dietro, vergata con una grafia elegante, da signora, c'era una frase di Robert Lee Frost.
In three words I can sum up everything I learned about life: it goes on.
Prese la sciarpa e la portò al piano di sopra, nel cassetto dei ricordi. Guardò a lungo il cellulare, meditando di chiamare Jimmy e Brian e di dirglielo. Come le avrebbero risposto? Come glielo avrebbe spiegato? E se non se ne ricordassero proprio, del fantasma di Elda Fitz che faceva la maglia nel salotto di Brian? Sorrise, sentendosi scivolare in quell'enigma. Poi scosse la testa. Se era vero che, nella vita, le persone trattavano le assenze come le presenze, allora non c'era ordine nel loro andare nel mondo, né senso in quel che continuamente accadeva. Cosa importava, dunque, trovare una sciarpa tessuta da un morto su una vecchia poltrona? Era vita. Vita che accade, vita che scorre, vita che ti ricorda che, tra le cose che hai e quelle che hai perso o non hai mai avuto, al mondo ci sono sempre state persone che hanno visto sculture nei blocchi di marmo prima di dare anche un solo colpo di scalpello sulla pietra. Decise di non dire nulla, non sapeva neanche perché. Forse un giorno, durante un inverno più freddo di quello, gliel'avrebbero vista al collo e avrebbero detto qualcosa, o magari proprio niente. Magari si sarebbero limitati a guardarla, cercando di rimettere insieme i pezzi di un evento che poteva essere un ricordo ma anche un'illusione, qualcosa di mai davvero accaduto e soltanto immaginato, tanto le due cose finiscono per somigliarsi, man mano che passa il tempo. Mentre apriva l'acqua della doccia, una strana serenità si impossessò di lei. Era il 30 dicembre; l'indomani, il mondo si sarebbe aperto, carico di speranza e di sogni ancora da realizzare, a un nuovo inizio, una nuova era.
“Ed io me ne andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.”, sussurrò al vapore acqueo che, lentamente, la avvolgeva.

 

 

 

Forse un mattino, andando in un'aria di vetro
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo
il nulla alle mie spalle, il vuoto
dietro di me, con un terrore di ubriaco
Poi come su uno schermo s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto
ma sarà troppo tardi, ed io me ne andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano
col mio segreto.

- Eugenio Montale




 

 

Allora.
Sentivo di dover scrivere due righe sulla questione.
È sabato sera e non sono del tutto sobria, quindi saranno due righe non filtrate e assolutamente come vengono.
Tutti quanti nella vita attribuiamo la colpa a un sacco di cose per ciò che non va: ce la prendiamo con divinità invisibili, con il caso, con il destino, con le persone che ci circondano e con quelli che ci hanno cresciuti. Elda Fitz è la risposta all'enigma del perché le cose accadono: un enigma a sua volta, oscura e imprendibile e intenzionata a fare un'ultima, ultimissima cosa prima di andarsene, cioè spiegare a James perché era rimasto. Il motivo per cui quest'uomo ha colpito così profondamente il mio immaginario è una lunga quaestio aeterna sospesa tra i fatti miei e quello che tutti sanno. La ragione più comprensibile è che, semplicemente, mi piacciono le anomalie. Le crepe nel muro, i disturbi di frequenza, lo straordinario che fa il nido nell'ordinario, quei piccoli, involontari picchi di poesia di cui la razza umana è capace. Mi affascinano, mi rapiscono, mi irretiscono con la stessa sconvolgente forza con cui da bambina mi attiravano gli aggettivi. La parola ridondante conteneva, per me, più senso di un intero capitolo passato a spiegare il perché della scelta di quella parola. E ancora ancestrale, inqualificabile, solenne, corruttibile, carminio, atipico, gelatinoso, dolceamaro. Gli aggettivi e gli avverbi mi parlavano come a certe persone parla la musica classica e a certe altre la preghiera. Mi sono sempre piaciute le persone-aggettivo, quelle che, con la loro sola presenza, riuscivano a cambiare completamente il senso di un costrutto. Jimmy è una persona-aggettivo, per me. Ecco perché questa volta gli ho scritto una storia il cui senso è racchiuso in quella frase di Elda Fitz: che tu ci creda o no, c'è stata gente a questo mondo che ha visto bellissime sculture nei pezzi di marmo ben prima di poggiarci sopra uno scalpello, quando erano nient'altro che un freddo, inanimato, anonimo blocco di pietra. Il potere illimitato che ci dà la forza di andare avanti, che poi è quello dell'immaginazione; ma immaginazione è un vocabolo dalla definizione imprecisa, inefficace. L'immaginazione, secondo me, è il potere di aggiungere gli aggettivi.
Spero mi capiate.
Detto questo, Forse un mattino è una dedica agli amici, specialmente a quelli che non si rassegnano.
A presto,

Love,
Q.  
   
 
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