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Autore: Koa__    12/11/2014    4 recensioni
John Watson, scrittore di successo, è un ex militare che si porta dietro un matrimonio fallito e una zoppia psicosomatica. Dopo quattro romanzi, tra cui spicca il best seller: "Blu come la neve", John è tormentato da un blocco che gli impedisce di scrivere. Dopo essersi concesso una vacanza di due settimane a Siviglia, sul treno che lo deve riportare a Londra, incontra uno strano tizio. Un violinista con la passione per le investigazioni, un certo Sherlock Holmes.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Blu come la neve'
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Il detective che faceva il violinista
 


Il vagone ristorante è lussuoso, il che non lo stupisce affatto dato che il treno sul quale stanno viaggiando è di prima classe. È l’ora di cena è la sala è riccamente piena, una musica molto lieve si percepisce nell’aria ed è appena distinguibile dato che viene praticamente sommersa dal chiacchiericcio dei passeggeri seduti ai tavoli e dal rumore di piatti e stoviglie.
«Quale cabina?» È la voce di un cameriere a riscuoterlo, si era perso in contemplazione del vagone che è decisamente molto più bello di quanto non avesse ipotizzato. Gli interni sono in legno scuro, i sedili di velluto verde e dei lampadari pendono dal soffitto. Sicuramente vale il prezzo del biglietto, pensa John il quale spera nel contempo che sia così anche per il menù che, a giudicare dal profumo che si espande nell’aria, dev’essere invitante. John porta lo sguardo su Sherlock, non sa come mai, ma negli ultimi minuti si è scoperto interessato alle molteplici espressioni che il suo volto assume. Lo trova concentrato ed attento e con lo sguardo intento a vagare per la sala, scrutando chissà che cosa. Non sembra in alcun modo intenzionato a rispondere al cameriere, che ora pare lievemente spazientito dal loro indugiare. Ciò che nota John, quando porta lo sguardo sulla divisa che il tizio indossa, è che sul cartellino che ha affrancato al taschino c’è scritto P. Grossman. Non è poi tanto difficile ricordare il nome che Sherlock gli ha indicato come quello del ladro di gioielli, dato che ne hanno parlato soltanto pochi minuti prima. Quindi è lui, si dice chiedendosi al contempo se il “detective” lo abbia notato. Tuttavia, nel momento esatto in cui formula il pensiero, si dà mentalmente dello stupido perché non può davvero essere che un dettaglio del genere sia passato inosservato di fronte allo sguardo indagatore di Sherlock.
«Siamo nella 221» si decide a dire Watson, mentre tenta in tutte le maniere di distogliere lo sguardo dal nome scritto sulla giacca. Non lo deve fissare e si sente un cretino, perché in realtà non riesce a distogliere lo sguardo dal possibile ladro. Se devono stanarlo, e non è necessario chiamarsi Hercule Poirot per saperlo, non devono dare nell’occhio. John lo sa bene: ha letto gialli a sufficienza da sapere che un buon detective non deve mai scoprire il proprio gioco. Ciò di cui è certo, è che non deve fare, né dire idiozie e su questo aspetto sperava di poter contare su Sherlock, il quale però non dà segni di vita e, anzi, si ostina a restare chiuso in una sorta di incomprensibile mutismo di cui davvero non si capacita.
«Perfetto, mi seguano.» Il cameriere li fa accomodare ad un tavolo per due persone in fondo alla sala e porge subito loro un paio di menù, defilandosi non prima d’aver ricordato che hanno il tempo necessario per decidere e che la cucina chiuderà non prima delle dieci. John porta istintivamente lo sguardo al proprio orologio da polso ed è rassicurato dal fatto che sono solo le otto. Non ha idea di che cosa voglia fare il suo compagno di stanza e per questo solleva gli occhi su di lui, sperando che si sia finalmente deciso a dare segni di vita, fa caso immediatamente al fatto che Sherlock riponga la carta senza nemmeno averla letta. Non sa di preciso quali siano le sue intenzioni, in fondo gli è corso dietro lungo il corridoio e non hanno discusso di un piano d’attacco o sulla maniera più giusta d’indagare. Ma seguendo l’idea di dover mantenere una sorta di copertura, decide di dare al cartoncino che gli ha lasciato Grossman, una rapida scorsa. Si ritrova così con la brutale voglia di spaghetti al pomodoro e basilico e l’atroce dubbio sul fatto di essere lì per cenare o meno.
«Allora» esordisce Watson, dopo diversi minuti di silenzio in cui si è chiesto che cosa desiderasse realmente sapere riguardo ciò che lui e Sherlock stanno facendo. 
«Voglio la verità» prosegue «tutto questo cos’è? Uno scherzo? Un gioco?»
«Non dire assurdità» si sente correggere, da un violinista che riporta immediatamente lo sguardo chissà dove. Non ha idea di che cosa stia fissando con così tanta intensità da almeno dieci minuti, ma deve essere qualcosa di tremendamente importante se richiede così tanta attenzione. Curioso, è il fatto che si tratti soltanto di un musicista. 
«Per favore, non prendermi in giro» sbotta John, spazientito. «Posso accettare il fatto che un occhio particolarmente attento noti il mio problema alla spalla o che capisca che la mia zoppia è psicosomatica. D’accordo sull’aver fatto caso al mio passato militare da chissà quale dettaglio, ma non puoi sapere cosa ho mangiato a mezzogiorno.» Lo ha detto tutto d’un fiato e nonostante abbia tenuto il tono di voce volutamente elevato, tanto che persino i loro vicini di tavolo li hanno sentiti e si sono voltati infastiditi, Sherlock non dà segno d’avergli dato retta. Anzi, si sta guardando attorno, ma non gli pare annoiato e distratto, al contrario sembra particolarmente attento. È come se stesse osservando qualcosa di ben preciso, il che gli fa ipotizzare che quella faccenda del furto di gioielli non fosse un banale scherzo. John prende a massaggiarsi le tempie, tentando invano di scacciare il mal di testa, prima di sospirare. Se vuole avere delle risposte deve solo chiedere, si dice, sperando che quello strano uomo gli dia retta visto che fino ad ora non sembra essere disposto a rispondere alle sue domande.
«D’accordo allora, giochiamo» esordisce, tirando un sorriso forzato. «Chi ha rubato i gioielli di Lady Canterbury?»
«Oh, finalmente ti decidi a pormi le domande giuste, John.»
«Sì, ma ciò di mi preme sapere è perché a te dovrebbe interessare? Hai detto di essere un violinista, i violinisti non stanano ladri.»
«E quindi?» lo incalza Sherlock ed è strano perché adesso non è più distratto, no, adesso c’è una luce che gli brilla negli occhi, qualcosa che accende il suo sguardo rendendolo ancor più magnetico e penetrante. È insolito che qualcuno lo guardi in quel modo, è tanto tempo che non gli succede e… ma che diavolo, non gli è mai accaduto nulla di simile prima d’ora. Perché quello sconosciuto lo sta sfidando. Lo sta provocando sperando che lo capisca così come lo ha capito lui. Sherlock lo sta invitando a seguirlo in un’avventura della quale ogni cosa è assurda, a cominciare dalla fiducia, già forte e radicata, che sente di nutrire nei confronti di un tizio che conosce appena. E come se non bastasse, l’elenco di assurdità prosegue con il bastone dimenticato in cabina ed una zoppia misteriosamente scomparsa. John però, al suo problema psicosomatico, non ci pensa. Non gli viene in mente che non ha utilizzato il bastone per correre fin lì, perché adesso è troppo impegnato per rimuginare: sta provando a carpire i pensieri di quel violinista a cui piace fare il detective e non c’è nient’altro di cui gli importi.
«La polizia non si rivolge ai musicisti per risolvere crimini, pertanto agisci liberamente e senza che qualcuno ti obblighi a farlo. Forse per noia? Certo che la tua vita deve essere un vero mortorio se ti dai così tanto da fare per una faccenda di cui potrebbe benissimo non importarti nulla.» È allora che lo sorprende davvero, per l’ennesima volta da che lo ha incontrato, perché Sherlock scoppia in una fragorosa risata. Il suo divertimento appare quasi liberatorio, ma è sincero e fresco e dannatamente contagioso, è così bello sentirlo ridere che John associa quella risata baritonale ad un balsamo per il suo umore. A qualcosa che lo fa star bene, insomma. Quell’uomo è troppo affascinante, perché tutto in John non si catalizzi su di lui, ma è proprio lì e in quel momento che Watson inizia a rilassarsi e a non farsi più tante domande.
«Ero a Siviglia per un concerto e ho saputo che il mio sospettato era di servizio su questa tratta sino a Londra. Ho creduto che l’occasione fosse quella giusta.»
«Quindi sei un violinista che a tempo perso risolve che cosa? Casi di furto sui treni? È stata questa Lady a chiederti di ritrovare i suoi gioielli?»
«Naturalmente no, l’ho letto sul Times e ho trovato il caso interessante; ti va di saperne di più?» gli chiede Sherlock, con aria maliziosa. 
«Perché dovrebbe?» risponde, ironico, John decidendo di stare allo scherzo. «Sono venuto qui per mangiare» borbotta, riportando lo sguardo sul menù che, a dire il vero, aveva già scordato di tenere tra le mani.
«Sbagliato!» esclama il detective, ridendo di nuovo. «Mi hai seguito perché l’hai sentito, non è vero? Un brivido correrti lungo la schiena e l’adrenalina che ha iniziato a pulsare nelle vene; era tanto che non ti succedeva, ho ragione? Dai tempi dell’esercito, scommetto.» John non risponde, ma ha gli occhi sgranati che tiene fissi in quelli grandi e azzurri di Sherlock. Ciò che scorre fra di loro in quei frangenti è dannatamente complesso da gestire, ma c’è ogni cosa. Adrenalina, sfida, provocazione, divertimento e così tanta attrazione che John rischia di esplodere al pensiero. D’accordo, ha pensato di esserne attratto ed è vero, diavolo, è proprio vero. Lui è sempre stato uomo da avventure di una notte e di poco conto, prima di Mary ovviamente, nell’esercito gli avevano anche dato un nomignolo assurdo e lo prendevano in giro perché riusciva sempre e comunque a rimorchiare. Dopo c’è stata sua moglie e il suo fallimentare matrimonio, ma una volta superato quel brutto momento si è detto di voler espandere i propri orizzonti e di non porsi limiti di genere. Da quel momento non ha più cercato storie serie, tutto ciò che lo ha spingeva ad approcciarsi a qualcuno era un’attrazione fisica. Ma con Sherlock è diverso, perché ciò che di lui gli piace non è soltanto la sfacciata bellezza, non sono gli occhioni grandi o il fisico asciutto. È tutt’altro, come il magnetismo delle sue parole, la profondità dei concetti che esprime e la brutale sincerità con cui gli parla. Anche adesso, John sa che Sherlock ha ragione e che ha di nuovo colto nel segno. È confuso e questo non ha intenzione di nasconderlo, ma non è stordito dal fatto che quello sconosciuto stia stuzzicando la sua curiosità, è confuso perché non riesce a capire. Gli è impossibile afferrare le sue intenzioni (e le proprie anche). Credeva che fosse un uomo solo che riempie la sua vita viaggiando sui treni perché non ha di meglio da fare che dare la caccia ai ladri, ma quello non è il ritratto di Sherlock, quello è lui. È John Watson che non ha una vita e che quindi la riempie viaggiando su un treno, prendendo come scusa il fatto di non temere il volo. Perché il violinista seduto al suo tavolo è lì soltanto per stanare un ladro, per passatempo, per sport o magari per noia, chi lo può dire, ma di sicuro non è lì perché è da solo. Che cosa vuole da lui quindi? Sì, John è uno scrittore ed è anche piuttosto famoso, ma come mai lo sta trascinando in una caccia all’uomo? Perché non lo lascia semplicemente in pace? Ha persino detto di non amare i suoi libri e di ritenerlo fin troppo romantico e sdolcinato; quindi perché? John è un uomo abitudinario, ordinario e metodico a causa di quell’addestramento militare che ancora gli condiziona la vita. Inoltre è pieno di fisime, si trascina dietro una zoppia psicosomatica e un matrimonio fallito, un blocco dello scrittore a cui non riesce a non pensare e che lo tormenta anche la notte. Eppure, e nonostante tutto questo, un violinista incontrato su di un treno notturno da Siviglia sembra essere stranamente interessato alla sua vita. Non se lo spiega davvero, ma allo stesso tempo sa che non sarà chiedendolo a sé stesso che lo comprenderà. Quindi solleva lo sguardo e scopre che Sherlock ancora lo sta fissando, adesso sembra quasi divertito dalla sua palese confusione e quel sorriso che gli dipinge il volto non è un ghigno di sfida, quanto piuttosto di consapevolezza. È come se gli stesse leggendo i pensieri e se sapesse esattamente ciò che lo tormenta. In quel momento, John si rende conto d’avere una scelta: potrebbe alzarsi e andarsene, in fondo non ha nemmeno troppa fame, si dice. Se lo facesse, è certo che Sherlock non lo seguirebbe. John andrebbe a dormire e il mattino seguente al risveglio basterebbe un semplice “buongiorno” prima di darsi l’arrivederci. Potrebbe, ma non lo fa. Perché è vero e il brivido lo ha sentito, ed era tanto tempo che non accadeva. Correre per i corridoi stretti di quel treno notturno con uno sconosciuto che sembra aver capito tutta la sua vita in pochi istanti, è assurdo, ma emozionante.
«Furto di gioielli, eh?» chiede, dopo un po’ sogghignando. «Parlamene.»
 
Ci sono molte cose che John H. Watson reputa incredibili. Le acrobazie di certi ballerini, il sangue freddo dei paracadutisti, quel nuotatore americano… la glassa dei cupcake e i documentaristi che infilano la testa nelle fauci dei coccodrilli. Eppure, lì e adesso, su quel treno diretto a Londra, nulla gli sembra più pazzesco di ciò che sta facendo. Non è per il bastone dimenticato o per il fatto che sta realmente parlando di furti con un violinista che voleva fare il pirata, non è niente di tutto questo: ciò che lo sconvolge è la familiarità. John ha sempre avuto problemi ad adattarsi, è un uomo a cui piace vivere la propria routine e che tende ad abituarsi alle giornate sempre uguali, eppure la simbiosi che pare esserci tra lui e Sherlock, è impressionante. Quel tizio gli parla come se lo conoscesse da sempre e John gli va dietro quasi non avesse fatto altro per tutta la vita, come se fosse giusto e basta, senza problemi, senza domande. Perché è così. Lo sta a sentire, ed è magnetica la sua voce, interessante ciò che dice. Gli corre appresso e pensa che sia bellissima la sua figura, longilinea e perfetta con quella postura rigida e le spalle dritte che lo fanno sembrare un uomo di nobili natali. Lo osserva e ritiene che sia stupendo, che siano magnetici i suoi occhi e incredibilmente attraenti i suoi ricci scomposti. La naturalezza con cui interagiscono è impressionante, non sa se anche lui se ne renda conto, ma John a dire il vero non pensa ad altro. E quando Sherlock termina di parlare, chiedendogli un parere, quasi fa fatica a riprendere il filo del discorso. Di che stavano parlando? Di certo non stava pensando a quanto setosi siano i suoi capelli o a quanto belli i suoi occhi possano risultare ad un’attenta osservazione.
«Come dici?»
«Che ne pensi?» ripete Sherlock, evidentemente seccato. John si schiarisce la gola, tossicchiando mentre cerca di ricordare l’argomento della conversazione. 
«Grossman, i gioielli» dice, di nuovo, gesticolando con enfasi. Watson però non sa cosa rispondergli, non è che si sia fatto un’idea precisa e poi è anche piuttosto restio a parlarne dato che ha l’impressione che qualunque cosa dica, Sherlock la possa reputare un’idiozia.
«Beh» tenta «se il ladro è davvero lui, i gioielli li tiene senz’altro sul treno dato che con il viaggiare che fa non dev’essere difficile incontrarsi con un ricettatore. Non possiamo avere la certezza che non lo abbia già incontrato, liberandosi di quelli che ha preso alla tua Lady» osserva, compiaciuto del fatto d’essere riuscito a dare una cosa mediamente intelligente.
«No, li ha qui con sé» risponde Sherlock, sicuro. «Di certo non quelli di Lady Canterbury, dato che le sono spariti più di due settimane fa e su un’altra tratta, ma quelli che ha rubato questa sera li ha qui da qualche parte.» John lo fissa, allibito. Non si aspettava una simile rivelazione, credeva che fossero lì per… D’istinto porta lo sguardo all’orologio facendo caso al fatto che il vagone ristorante non è aperto da molto. Non sa perché sia il suo primo pensiero, ma di certo il secondo è guardasi attorno come se tentasse disperatamente di cogliere un dettaglio. Uno qualsiasi che gli faccia capire qualcosa, come Sherlock lo sappia ad esempio.
«Dici che ha rubato sotto i nostri occhi? Qui? Adesso?»
«Certo, mi pare ovvio» gli risponde il violinista «dato che è l’orario di cena, questo è il solo momento che ha per farlo e poi basta dare un’occhiata ai commensali per capire che a loro manca qualcosa. Sono però troppo idioti per rendersene conto. Non capisco come sia possibile, io me ne accorgerei se mi mancasse l’orologio.»
«E dove li terrebbe?»
«Buona domanda. Non si fiderebbe mai a nasconderli in cabina, il suo compagno di stanza potrebbe scoprirli, no, il rischio è troppo elevato.»
«Beh» fa notare John. «Se fossi un ladro e dovessi nascondere qualcosa di prezioso, la terrei dove posso sempre controllarla. Dove sono sicuro che lì rimanga. Quindi se non in camera mia…»
«Nella cambusa!» Lo interrompe Sherlock, picchiando un pugno sul tavolo proprio prima che un cameriere li raggiunga.
«Avete scelto?» chiede, questi.
«Tè, Earl Gray, latte e zucchero» dice Sherlock. «Per te, John?» Confuso dal fatto che siano lì davvero per mangiare, riporta lo sguardo verso il menù e dà una rapida scorsa.
«Pasta al pomodoro e basilico, da bere solo acqua.» L’uomo annota rapidamente sul taccuino, dopodiché sparisce in cucina.
«Tieniti pronto, John, più tardi andiamo a vedere» enuncia, eccitato. E proprio mentre si ritrova ad annuire, lo sente distintamente, un altro brivido corrergli giù lungo la schiena.
 


 
***
 
 


Questa è la cosa più stupida che abbia fatto in vita sua, si dice. Sono quasi le undici e dopo che sono rimasti per più di tre ore al ristorante aspettando che i camerieri finissero di sparecchiare e iniziassero a smontare il turno, adesso si stanno realmente infilando nella cambusa. Sherlock ha detto che sarebbe stato facile e lo è stato per davvero. Ha tirato infatti fuori un astuccio dalla tasca della giaccia, dopodiché ha iniziato a scassinare la serratura e si è infilato dentro. Lo ha fatto con una facilità disarmante, impiegandoci non più di qualche secondo. E dopo che lo vede scivolare nella cambusa, John viene colto dal sospetto che sia proprio lui il ladro e che lo stia attirando in una trappola o magari che cerchi di rubare i gioielli a sua volta. È stato davvero troppo facile per Sherlock aprire la porta e poi gli attrezzi che ha utilizzato, sono degni di uno scassinatore professionista e, mentre lo realizza, si sente un cretino. Ed è quasi certo d’essere stato raggirato e già si immagina dietro le sbarre di una cella spagnola accusato di furto di gioielli, quando una voce baritonale, la sua voce, lo riporta alla realtà.
«Smettila di pensare» si lamenta, mentre prende a rovistare tra le scatole di cibo stipate «è fastidioso e poi è tempo perso: non li voglio tenere per me. Non è per rubare a mia volta che faccio tutto questo.»
«Come sa… e poi io non…» tenta di giustificarsi e un po’ gli dà fastidio il fatto che lo abbia colto in flagrante, che abbia carpito con così attenta precisione i suoi pensieri. A prevalere però è l’imbarazzo e una specie di vergogna per averlo, anche se in maniera indiretta, accusato di una cosa del genere.
«Cerca da quella parte, io controllo qui» gli ordina, riprendendo a rovistare. Invece di obbedire però, John resta impietrito e non ha davvero idea di cosa fare. Non sembra un delinquente o forse si vuole semplicemente convincere che non lo sia. Tuttavia non si sofferma troppo tempo a pensarci, neanche se ne rende conto infatti che già lo sta aiutando. Guarda dappertutto, controlla tra i ripiani, nei cassetti, su quelle mensole, ma non trova nulla e dopo aver rovistato ovunque, Sherlock è il primo a spezzare il silenzio sbuffando in un moto di stizza. 
«Forse ci siamo sbagliati» mormora John, facendo spallucce «li terrà sotto il materasso.» Il suo nuovo amico però non risponde, anzi, sta fissando senza un apparente motivo un punto non ben precisato alle sue spalle.
«Spaghetti al pomodoro, risotto alla zucca, bistecca di manzo ai ferri con contorno di patate, trancio di spada con pomodorini. Tramezzino vegetariano alle verdure grigliate, tramezzino al tacchino. Acqua. Vino bianco e rosso sfusi. Birra chiara in lattina e bibite. Dolci al cucchiaio: budino al cioccolato, crema alla portoghese, tiramisù.»
«Hai di nuovo fame?» chiede, confuso.
«No, John è il menù.»
«L’hai memorizzato?» domanda, parlando più a sé stesso. «Oh, cielo, l’hai memorizzato davvero e l’ho visto, sai? Lo ricordo bene: l’hai guardato per non più di due secondi e dopo tre ore lo sai ancora a memoria, come diavolo hai fatto?» Non è sconvolto no, beh, forse un po’ lo è. Credeva che fosse solo un buon osservatore e un tizio più intelligente rispetto alla media, ma ora si rende conto che in Sherlock c’è molto di più di quanto non appaia. No, si corregge, c’è molto di più di quanto John Watson non abbia notato. Ed era tanto tempo che non gli succedeva, ma adesso ha voglia di scoprire tutto di lui.
«Memoria eidetica» bofonchia lui, scacciando subito la risposta con gesto della mano come se stesse allontanando una mosca. «Smettila con le domande insensate e concentrati: perché una cambusa di un treno dovrebbe tenere una sola latta di fagioli in scatola, quando il menù non contiene piatti con fagioli?» 
«Per tutte le evenienze?» chiede John, in rimando stirando un sorriso sghembo. Ok, più parla e più sembra un perfetto cretino, vero? 
«Questo cosiddetto ladro è fin troppo banale, il caso è da tre se non addirittura da due.» Gli si avvicina e ad un primo momento, John non capisce che intenzioni abbia. Ma Sherlock gli è ancora più addosso e stupidamente a lui batte forte il cuore, il suo odore lo instupidisce, il suo fiato che sa ancora di tè è caldo e piacevole. Solo dopo che allunga la mano fino ad afferrare il piccolo contenitore di latta sistemato su di un ripiano alle sue spalle, che comprende ogni cosa. Certo che voleva prendere la scatola, che altro se no? Comunque, se prima concentrarsi per lui era difficile ora è praticamente impossibile. E a stento fa caso alle dita lunghe ed affusolate di Sherlock che svitano il coperchio. Soltanto i gioielli contenuti e l’espressione indifferente, con quel sopracciglio arcuato e gli angoli della bocca piegati all’ingiù, sono in grado di riportarlo al presente. In effetti, fa caso allungando lo sguardo, è pieno d’oro lì dentro: ci sono anelli, orecchini di perle, collane, orologi… la refurtiva! Sta per chiedergli cosa ne debbano fare, quando sentono un rumore provenire da fuori la porta e poi vedono la maniglia abbassarsi. John non ha tempo di pensare a niente, devono giustificare la loro presenza o il ladro si insospettirà, potrebbe anche far loro del male, pensa in un frangente. E non sa come reagirà Sherlock, ma al diavolo tutto. In un lampo quindi ruba il barattolo e lo rimette a posto, dopodiché afferra Sherlock per il bavero della giacca e lo spinge contro le mensole. Queste traballano vistosamente, forse per l’eccessiva irruenza che ha messo nei movimenti, ma ormai è troppo tardi per tirarsi indietro. E poco prima che entrambi si rendano conto di quel che stanno facendo, già John s’è addossato a quel meraviglioso corpo magro. E quando il cameriere entra spalancando la porta, si stanno baciando. Sta baciando il tizio con il quale divide la cabina di un treno notturno e che ha conosciuto da poche ore. Sta facendo proprie quelle morbidissime labbra, del violinista che voleva fare il pirata e che ama comportarsi come un detective. È troppo tardi per poter pensare di tornare indietro e a dire il vero nemmeno lo vuole. Perché anche se è una recita, è fantastico lo stesso e al diavolo l’attrazione mentale, ciò che gli piace è in special modo quella bocca morbida e l’odore inebriante del suo dopobarba. Le loro labbra sono incollate e le mani di John stringono con forza la stoffa della camicia bianca, e mentre si ritrova ad infilargli prepotentemente la lingua in bocca, si rende conto che il contatto è molto più che piacevole e che tutto di lui lo fa impazzire. Sherlock sa di tè nero e di latte, il suo fiato ha un piacevole retrogusto zuccherino che lo manda fuori di testa e i ricci solleticano anche la sua di fronte. Un vero peccato che sia una finta, perché sarebbe così bello affondargli le mani tra i capelli o leccargli il lungo collo diafano. Ciò che gli dà maggiormente fastidio però, è il fatto che Sherlock sia rigido tra le sue braccia e non stia rispondendo al bacio. Ha esagerato, ma allo stesso tempo sa di non voler smettere. Forse è per via di quel piccolo dettaglio che si rende conto di che cosa sta realmente facendo, ovvero baciare qualcuno che conosce appena. Però, si chiede, che altro potevano inventarsi? Ora è anche lievemente preoccupato perché di certo non è credibile questo Sherlock che tiene gli occhi sbarrati e lo fissa con orrore. Fortunatamente per la veridicità dell’intera situazione, il tutto finisce in fretta. Drammaticamente in fretta, purtroppo e la voce stridula del cameriere li fa allontanare bruscamente.
«Che fate voi qui dentro?» urla e gli pare di scorgere un po’ di timore nel suo tono di voce.
«Te l’avevo detto che ci avrebbero scoperti» finge John, tirando una gomitata al suo non per davvero amante il quale, ancora stranito, fissa il vuoto con fare incredulo. «Ce ne andiamo via subito: ci scusi, ma al mio fidanzato piacciono le emozioni forti» continua e questa volta, è lui a trascinarlo via.  
 
Camminano a passo svelto verso la loro cabina. La 221. John non si guarda indietro, ma fissa dritto davanti a sé proseguendo ad andatura spedita, è come se avesse paura che voltandosi tutto quello finisse, svanendo come in un sogno. E lui no, lui non si vuole svegliare perché è tutto troppo bello, troppo eccitante, troppo inusuale. Quindi non si volta e non sa il motivo, ma teme la reazione di Sherlock. Ha paura che quel bacio lo abbia infastidito eccessivamente, mentre lui, beh, lui vorrebbe un sacco di cose (come baciarlo di nuovo). Non sa esattamente dove nascano pensieri del genere, né da quale parte del suo confuso cervello esca il timore d’avergli causato del disappunto, eppure non fa che rimuginare mentre supera uno ad uno i vagoni fino a raggiungere il loro. Ed infine si ritrova lì, sulla porta a non guardare uno Sherlock insolitamente silenzioso infilare la chiave nella toppa. Il fatto che ora nessuno dei due stia parlando è molto più che imbarazzate, è atipico. Da che lo ha incontrato, qualche ora prima, quel tizio non ha smesso un solo istante di chiacchierare. Sentirsi immersi in quel loro silenzio è un po’ come venire investiti, e non gli piace la sensazione perché gli pare di annegare.
«Adesso che sai che è Grossman, che intenzioni hai?» domanda, tentando di riportare la situazione dentro i più giusti binari. Quelli che conosce perlomeno, perché per il momento il solo argomento con cui ha avuto per approcciarsi è discutere di quel furto.
«Nessuna» si sente rispondere da uno Sherlock vivamente stupito «avevo ragione e basta, del resto non mi interessa.»
«Non ti interessa?» chiede in rimando, forse con tono eccessivamente elevato. Non vuole gridare, perché è inappropriato dato che sono quasi le undici e mezza di sera e praticamente tutti i passeggeri stanno dormendo nelle rispettive cabine, tuttavia non può fare a meno di alzare la voce. Si aspetta che uno di loro esca a lamentarsi quando comprende il peso di ciò che lo sconosciuto gli ha detto. Non ha intenzione di consegnarlo alla polizia? Dopo tutto quello che hanno fatto? 
«Hai scoperto un crimine, Sherlock, sei moralmente obbligato a consegnare il ladro alle guardie.»
«Moralmente obbligato?» ripete, con espressione disgustata in viso. «Nessuno mi ha mai costretto a fare niente. Mi interesso di criminalità solo per divertimento, non era di sicuro per fare un piacere a Lady Canterbury che sono salito su questo treno, quanto per soddisfare una mia curiosità. Solo di questa mi interessa, perché dovrebbe importarmi dei gioielli di un branco di gente che tanto idiota, da nemmeno rendersi conto d’aver perso i propri “tesori”?» conclude, mimando le virgolette con le dita.
«Conosci il responsabile di un furto commesso su questo treno» insiste però John, deciso a non demordere. «E sai persino dove si trova la refurtiva. Hai un dovere civile nei confronti di quelle persone. Forse hai ragione e sono degli idioti che si sono lasciati borseggiare, ma l’idiozia non è illegale e non è neanche una colpa. E sai dov’è il paradosso? Che qui se c’è un idiota sei proprio tu. Consegna il ladro al capotreno o lo faccio io» lo minaccia ed è duro, categorico come lo è stato solo ai tempi in cui era nell’esercito ed era costretto a dare ordini. Decide che quella è la sua ultima parola ed è una vittoria incredibile, il non dargli diritto di replica gli pare una conquista enorme. Ciò che John Watson non può sapere è che quel violinista a cui piace fare il detective, per la prima volta in tutta la sua vita, sta pensando di dar retta ad un’altra persona. Non sa che dal giorno in cui ha cominciato a parlare non ascolta sua madre o suo padre, che risponde male a suo fratello e che fa di tutto per evitare di trascorrere troppo tempo con altri individui. John non ha idea del fatto che è Sherlock Holmes e nessun altro, a dettar legge ai propri concerti. Quello non è soltanto un musicista, lui è la star. Lui e lui soltanto si impone sugli orchestrali e persino sui direttori, i quali sono sempre costretti a seguire le sue regole interpretative. No, John H. Watson rimane convinto del fatto che l’uomo con cui ha scassinato la porta della cambusa di un treno, sia soltanto un tipo un po’ stronzo. È convinto che sia decisamente menefreghista e uno a cui piace dare alla gente dell’idiota e beh, su questo ha perfettamente ragione. Non sa però che, in realtà, proprio lui: uno zoppo che ha spalancato la porta della cabina, lo ha colpito immediatamente e che tutto in lui trova sorprendente. Ma neanche di questo, John sa nulla. E al momento, Sherlock, mentre osserva la porta chiusa della cabina e il numero 221 inciso in caratteri dorati, capisce di essere già irrimediabilmente cambiato. Perché lui è il violinista a cui piace fare il detective e non ha mai dato retta ad anima viva, fino ad oggi.
 
Capirlo, per Sherlock Holmes è come avere un’epifania, come un’illuminazione che lo coglie quando si ritrova a dover dare la giusta interpretazione ad un brano particolarmente difficile e al quale fatica a venirne a capo. Per questo torna sui propri passi e chiama John dal corridoio, il quale si affaccia dopo qualche istante. È ancora arrabbiato, ovviamente, i tratti sono tesi e la bocca contratta.
«Hai visto che avevo ragione?» domanda, esultante.
«Sì, sei un dannato genio e Gros…»
«Non parlo del furto, ma della tua terapista. È un’idiota e ti è bastata soltanto un po’ di azione per guarire.»
«Che intendi?» domanda John, ora confuso.
«Guarda dietro la porta» suggerisce Sherlock, con un gran sorriso divertito. Ovviamente, Watson obbedisce e quando si rende conto che il bastone è gettato nell’angolo dietro la porta laddove lo ha lasciato ore prima, spalanca la bocca per l’incredulità. Non se n’era accorto. Sherlock si allontana così, vorticando teatralmente su sé stesso e con l’espressione stupita e sconvolta di quello scrittore ben presente nel suo Mind Palace. Se ne va sorridente, e già irrimediabilmente diverso. Ma tutto questo, John H. Watson lo ignora.
 
 

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