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Autore: Ray Wings    20/11/2014    2 recensioni
Non voltare la testa, non andartene di nuovo! Sono cambiata. Sì, è vero, non sono più Alice! E questa ti sembra una colpa? Tu e il tuo strafottutissimo gruppo del cazzo mi avete trascinata qui: è solo colpa vostra. Mai più, mai più rivedrò gli occhi di mia sorella o di mia madre, ed è solo colpa vostra. Mai più rivedrò i tuoi occhi. Ma quelli non voglio nemmeno ricordarli, vuoti e disperati, mentre affondavano e annegavano e io impotente sulla spiaggia a pregare.
Mi avete lasciata sola, cazzo!
Sono rimasta in un angolo a piangere, come ho sempre fatto, aspettando l'arrivo di qualche supereroe dimenticandomi che questa è la fottuta realtà! Che qui si muore!
E sono morta.
Dimentica Alice...te la sei portata via.
So che sei un sogno, stai sfumando, comincio a non vederti più e so che quando aprirò gli occhi sarò di nuovo sola. Ma non voltare la testa. Guardami fino alla fine...guarda l'Oceano. Fino alla fine. Come ho fatto io. Pregando, sciocco, di svegliarti.
Manu. Guardami.
Ora sono Ocean.
[In revisione]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daryl Dixon, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Redenzione

La vista le si stava nuovamente appannando, e ancora era pronta a cadere in un profondo sonno ristoratore. Erano due giorni che non faceva che dormire, eppure non era mai abbastanza. Il fisico debilitato non faceva che peggiorare le sue condizioni giorno dopo giorno. Sentiva il cuore pulsare in petto, così forte che sembrava volesse esplodere, creandole continui cali di pressione. L'ossigeno non era mai abbastanza e continuava a catturarne il più possibile, avida, con la gola che raschiava in continuazione. Si tirò su puntandosi su un braccio, tremante e affaticato e un conato di vomito le chiuse la gola in un istante, costringendola ad abbassarsi di nuovo, rovesciando sul pavimento quel poco che conteneva il suo stomaco. Tossì e cercò di pulirsi la bocca col torso della mano, sentendo faticoso ed estenuante qualsiasi genere di movimento. L'uomo steso accanto a sè, ormai morto, fece uscire dalla sua gola un verso, probabilmente causato dal un altro getto di sangue che era sgorgato, ma la ragazza ormai sotto shock interpretò quel suono in un'unica spaventosa maniera: "si è trasformato!" Si tirò su di colpo, afferrò il coltello dalla tasca dei suoi pantaloni e lo piantò con rapidità nella fronte del cadavere. E ancora. E ancora. Terrorizzata. Furiosa. Sfogando in quei colpi tutto il risentimento che covava dentro da tempo e che era esploso ancora una volta di fronte al pericolo.
Si fermò quando proprio non ce la fece più, quando ormai il cranio dell'uomo vicino a sè era spappolato a dovere. Cercò ancora avida l'ossigeno intorno a sè facendo respiri così profondi da farle girare la testa. Con una mano tremante andò ad aprire la fondina del cadavere accanto a sè e afferrò la pistola, stringendola tra le dita sporche. Lentamente si alzò dal letto, trovando la forza solo esclusivamente nella sua rabbia e la paura che ancora non voleva lasciarla andare. Inciampò nelle lenzuola e si poggiò al comodino, vicino al letto, in ginocchio. Versi uscivano dalla sua gola, versi colmi di dolore e ira, cercando in loro la determinazione per non lasciarsi andare proprio in quel momento. Digrignò i denti e con uno sforzo incredibile riuscì a rimettersi in piedi. Afferrò l'uomo per la caviglia e cominciò a trascinarlo puntando i piedi ben a terra, facendo forza su quelli, essendo ormai stremata. Con grande fatica, dolore e impiegando un sacco di tempo riuscì finalmente a portare il cadavere dove desiderava: nella stanza del bambino che aveva lasciato in vita, all'interno del suo box. Era ancora lì, che si dimenava attirato dai rumori. Trascinò il cadavere al centro della stanza e lo lasciò lì. Si avvicinò poi zoppicante al box e aprì lo sportellino che c'era a lato, senza spalancarlo, lasciando che fosse lui ad aprirlo con i suoi tempi, così avrebbe avuto modo prima di allontanarsi e uscire dalla stanza, evitando di diventare lei stessa la cena del piccolo zombie. Quando arrivò alla porta della stanza si voltò a guardare la scena dietro di sè. Il bambino era riuscito, come immaginava, ad aprire lo sportello semplicemente appoggiandosi accidentalmente ad esso. Spalancò la bocca verso la ragazza ma si voltò a guardare il corpo steso poco lontano da lui, ancora profumante di cibo, e più vicino e accessibile della ragazza in piedi alla porta.
Ocean guardò per un attimo, con gli occhi colmi di furia e soddisfazione, il piccolo muovere i passi verso la sua portata.
<< Ho vinto io. >> disse rauca prima di chiudere la porta con un tonfo. Non era contenta di quello che era successo, di quello che aveva fatto, ma l'uomo aveva ricevuto ciò che meritava e lei era ancora fottutamente viva! Nonostante tutto lei era ancora lì, e quel mostro che voleva vederla morta e sottomessa invece era diventato la portata principale di un piccolo carnivoro. Lui era morto. Lei ora lo guardava mentre finiva nel peggiore dei modi.
Ocean era ancora lì! Era ancora in piedi.
Si lasciò alle spalle la stanza che ora si riempiva di suoni poco gradevoli di carne lacerata, versi gutturali, famelici, colmi di soddisfazione, e si diresse verso il bagno poggiandosi al muro per trovare sostegno. Nella mano destra stringeva ancora la pistola, e nella sinistra, quella che si poggiava alla parete, il coltello. Sperava di non usarle per un po' entrambe. Non sapeva perchè aveva preso la pistola, non amava quel genere di arma, troppo rumorosa e lei troppo imprecisa, ma al momento stringerla tra le dita le dava forza e sicurezza. Si poggiò al lavandino del bagno dopo essersi chiusa la porta alle spalle, forma di precauzione nel caso qualche zombie fosse rimasto in casa a circolare, e si lavò via il sangue di dosso. L'acqua fredda al contatto con la pelle la faceva tremare e a tratti le faceva male, ma vedere il sangue correre via fin dentro la tubatura era come una purificazione. Doveva togliersi di dosso quella merda. Notò aveva tratti di pelle violacea che al tocco la facevano gemere. Era piena di lividi. Si guardò allo specchio crinato: la guancia era rossa e si stava gonfiando. Aveva tagli in più punti, causati dalla battaglia del giorno prima e da quella di quella sera. Ferite che si mischiavano a ferite, che si riaprivano, che si aggiungevano rovinando sempre più il suo corpo, segnandolo e marchiandolo. Si sfiorò la spalla sinistra, quella dove era stata sparata: il fazzoletto avvolto era pregno di sangue. Aprì lo stipetto del bagno dove c'era qualche medicina, qualche garza e vari flaconcini. Li scosse per sentire se c'era qualcosa dentro: molti erano vuoti, e li fece cadere dentro il lavandino. Gli antidolorifici erano finiti, ma per fortuna trovò un antibiotico con ancora ancora qualche pasticca dentro. Ne buttò giù una e posò le altre sullo specchio, fissandosi mentalmente il promemoria di portarselo dietro. Si tolse la fasciatura dalla spalla facendola rigurgitare un po', prese delle bende sterilizzate, ancora chiuse nella confezione e si rifece la fasciatura, aiutandosi con i denti, stringendo il più possibile per tentare di fermare l'emoragia. Si lavò con cura le ferite, tentando di coprire le più grandi con della carta e altre bende. Mancavano cerotti e acqua ossigenata, non poteva che arrangiarsi come poteva. Si sciacquò infine la bocca, prese gli antibiotici e le armi e uscì nuovamente dal bagno, zoppicando, barcollando, reggendosi in continuazione a ciò che trovava attorno a sè. Tornò in camera, prese i suoi pantaloni e se li rinfilò cercando di strofinare il meno possibile contro i graffi e le sbucciature che aveva sparse per le gambe. Rimase al piano di sopra qualche minuto, in cima alla rampa di scale, affidandosi solo al suo udito, cercando di capire come fosse la situazione al piano di sotto. Il silenzio suggeriva che era tutto tranquillo, ma il buio non le dava la giusta sicurezza a scendere. Tossì e tentò di attenuare il rumore con una mano, serrando le labbra. Si poggiò una mano alla testa che pulsava a ogni battito del cuore e decise di rimandare la sua visita al piano di sotto. Tornò nella stanza dove aveva rischiato di morire, chiuse la porta alle sue spalle e con grande sforzo riuscì a bloccarla con il comò, spostandoglielo davanti. Lanciò un ulteriore sguardo alla stanza, assicurandosi fosse tranquillo e che lo zombie morto ai piedi del letto fosse veramente morto. Non si muoveva, non reagiva ai rumori ma lei non riusciva a sentirsi tranquilla. La paura ancora l'attanagliava. Aveva rischiato troppo. Lo afferrò e sollevandolo appena, data la sua stanchezza, riuscì a trascinarlo fino all'armadio. Lo infilò all'interno, chiuse lo sportello e lo bloccò con la corda che l'uomo aveva usato per legare le sue caviglie. Nel caso si fosse risvegliato non sarebbe uscito di là tanto facilmente. Poi si lasciò cadere con pesantezza sul letto, e tenendo ancora stretta tra le dita pistola e coltello, si lasciò cadere in un profondo sonno, sperando questa volta sarebbe stato finalmente ristoratore e senza incubi.

Si svegliò nella stessa identica posizione in cui si era addormentata. Era talmente stanca e affaticata che non era riuscita nella notte a cambiare posizione quando il corpo ne sentiva l'esigenza. Si alzò lamentando dolori, si stirò la schiena e cercò di scrocchiare qualche articolazione. Non c'era parte del corpo che non le facesse male e si sentiva gonfia in viso. Si alzò, aprì la porta, assicurandosi fuori non ci fossero brutte sorprese, e scese lentamente al piano di sotto, aiutata questa volta dalla luce del sole. C'erano cadaveri un po' ovunque, e vetri sparsi sul pavimento. Le finestre erano rotte, così come molte altre cose. Guardinga e con cautela entrò nella sala, camminando a piedi scalzi sui vetri, facendoli scricchiolare, ignorando il dolore che questi provocavano nel momento in cui le tagliavano la pianta. Dei graffi sotto i piedi erano il suo ultimo problema. Strinse la pistola tra le dita e si avvicinò con al divano. Uno zombie morto c'era steso sopra. Lo spostò, facendolo cadere a terra con un tonfo e lei prese il suo posto. Riprese la sua camicia, i suoi stivali, le sue armi e si rivestì con velocità. Si diresse poi verso la cucina, passando accanto ai corpi, ignorandoli, ormai assuefatta da tutta quella morte: non ci faceva neanche più caso. Cercò tra i barattoli rimasti qualcuno che contenesse ancora qualcosa e divorò con avidità tutto il loro contenuto. Aveva ancora lo stomaco sotto sopra, ma doveva mettere qualcosa sotto i denti o sarebbe collassata. Bevve l'acqua del rubinetto, buttandola giù a grandi sorsi, sentendo la gola bruciare meno grazie al liquido fresco, e sentendosi finalmente pronta uscì dalla casa, lasciandosi tutta quell'incredibile notte alle spalle.
Camminava con fatica, strascinando i piedi, stanca e dolorante, ma non rallentava neanche un po'. Non era sicura di sapere dove si stava dirigendo e perchè: seguiva l'istinto, seguiva i piedi che la portavano dove desideravano loro, senza interrogarli o accusarli. Ovunque sarebbe arrivata andava bene. Ormai niente aveva più importanza.

Il sole stava tramontando per l'ennesima volta. Aveva camminato tutto il giorno, fermandosi solo quando proprio non ce la faceva più, per riposare, bere e mangiare qualche boccone. Tutto in assoluto silenzio. Accompagnata solo dal rumore dei suoi stessi gemiti. Aveva vagato a lungo come uno di quei mostri, trascinandosi, lamentandosi, senza sapere dove stava andando. Ma ora, col sole che stava di nuovo morendo a ovest, lasciando nei vivi il dubbio se mai sarebbe tornato su come quei mostri che ormai governavano la terra, il dubbio aveva di nuovo preso a divorarla. Così come Peggy aveva seguito l'istinto fino a casa sua, lo stesso aveva fatto il suo, facendole sorgere paura solo quando ormai non molti passi la separavano da quel luogo. Si era fermata in mezzo a una strada deserta se non per qualche foglia che volava via a ogni soffio di vento, e lì si era seduta, con lo sguardo fisso sul sentiero davanti a sè, sapendo perfettamente dove l'avrebbe portata.
Non voleva.
Aveva paura...non voleva tornare lì.
Era come l'entrata nella selva oscura di Dante, riusciva perfettamente a sentire una voce provenire da la dentro sussurrarle "
Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate".
Ma che scelta aveva? Era sola, stanca, ferita. Almeno lì avrebbe trovato Peggy, e non sarebbe stata più sola. Senza considerare che sarebbe stato più facile per lei farsi trasportare dalla cavalla, anzichè dai suoi piedi, e sarebbe stata più veloce nel caso ci fosse stato bisogno di scappare. Non voleva più stare sola. Aveva troppa paura, non voleva più stare sola. Chinò la testa, poggiando la fronte sulle ginocchia davanti a sè e lì rimase a lungo, riflettendo su una decisione che era già stata presa. Doveva solo trovare il coraggio di affrontarla.
In lontananza sentì il rumore di un motore: una macchina che correva su quella strada. Alzò la testa di colpo e si guardò attorno: ancora non si vedeva all'orizzonte, il mondo attorno a lei era così silenzioso da permetterle di sentire una macchina così distante. Si alzò velocemente e arrancando si affrettò a infilarsi tra gli alberi prima che chiunque stesse guidando quel mezzo la vedesse. Si schiacciò contro un albero, dando le spalle alla strada e attese che il pericolo passasse. Senza farsi vedere, tenendosi ben nascosta, spinta dalla curiosità, si sporse a guardare la vettura che le passava accanto a tutta velocità. Era una specie di furgoncino, con cassone aperto dietro, e 4 o 5 uomini armati all'interno con lo sguardo severo e sicuro e la sigaretta tra i denti. Uno in particolare la colpì: era quello con la faccia più stronza di tutti, un ghigno ben disegnato in volto e una specie di armatura a un braccio, che teneva ben in vista, quasi orgoglioso del suo operato, con un coltellaccio infilato dentro. Passarono senza vederla, proseguendo per la loro strada, e Ocean, una volta sola, tirò un sospiro di sollievo, anche se dentro sè era in qualche modo delusa. Aveva silenziosamente sperato che fossero Rick e il suo gruppo. Se fossero stati loro a trovare lei, a riprenderla con loro, sarebbe stato tutto più semplice. Lei non voleva tornare, non ce la faceva a ripercorrere i suoi passi, e non era solo l'orgoglio a impedirglielo, c'era dentro lei una profonda paura. Ma se loro avessero di nuovo insistito, glielo avessero chiesto di nuovo, sarebbe stato più facile dirgli sì. Come un bimbo che guarda insistentemente un dolce e teme nel chiederlo alla mamma, intimorito da una sgridata, da un rifiuto, dovuta anche dalla sua intolleranza agli zuccheri, ma che spera sia lei stessa a chiedergli "lo vuoi?", leggendo nei suoi occhi il desiderio proibito.
Lasciò che la macchina si allontanasse prima di riprendere il cammino, e fare quei 100 metri in più che tanto temeva di fare.
Arrivò nel suo incubo peggiore. Quello che per lei era l'Inferno Dantesco.
Davanti a lei si apriva una piccola radura, con qualche campo e un recinto dove far correre i cavalli. Al centro di essa era costruita una casupola un po' diroccata, abbandonata. Una fattoria. Piccola rispetto a quella di Hershel, neanche la metà, ma era anch'essa una fattoria.
Ocean deglutì, cercando di buttar giù il nodo che si stava formando in gola. La pancia cominciò a dolerle, un fuoco si alzava da essa e le arrivava fino agli occhi, bruciandola. Fece un passo traballante, improvvisamente senza equilibrio, e dovette poggiarsi alla recinzione lì di fianco per evitare di cadere. La testa le girò vorticosamente. Stava arrivando la confusione, stava arrivando il panico.
"Devo solo prendere Peggy. Solo prendere Peggy" cercò di tranquillizzarsi. Puntò gli occhi ai suoi piedi e cominciò ad avanzare, evitando di alzare lo sguardo. Procedette spedita, con improvvisa urgenza, a testa bassa.
"Così va bene" pensò cercando di farsi coraggio, dandosi la forza per proseguire. Sarebbe arrivata alla stalla, avrebbe preso la sua cavalla e senza voltarsi indietro sarebbe scappata di nuovo.
"Così va bene" proseguì sforzando i suoi muscoli di collaborare, di non cedere. Non seppe bene a che punto della fattoria era, probabilmente verso metà, ce la stava facendo, le bastava procedere in quella maniera. Bastava non guardare. Ma un verso le costrinse ad alzare il volto. Alzò gli occhi pieni di panico, guardò in faccia il suo aggressore, e tutto ciò che per mesi era rimasto seppellito sotto metri e metri d'acqua improvvisamente esplose, si spalancò, e fece uscire tutti i suoi fantasmi. Un vaso di Pandora.
Ocean urlò e arretrò, non riuscendo più a togliere gli occhi di dosso allo zombie che stava avanzando, andandole incontro. Inciampò e cadde a terra. Arretrò ancora. Il mondo intorno a lei si fece così confuso. Si sentì mancare l'aria, si sentì schiacciare, senza nessuna via di fuga. Perduta in un labirinto che andava restringendosi, comprimendola. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma neanche l'aria uscì. Stava diventando una statua. Il mondò sembrò cadere nell'ombra intorno a lei.
Lo zombie conservava ancora molto del corpo originale che era. I corti capelli castani, le lunghe basette e la folta barba ispida. Mancavano le guance rosse che sempre aveva avuto da vivo, ora sostituite da buchi nella carne che mostravano i denti marci. Ma ancora portava la sua divisa, il suo nero costume medievale.
Ocean si sentì improvvisamente svuotata. Come in un sogno, si sentì incapace di muoversi e scappare via, mentre lo zombie barcollando si avvicinava con chiare intenzioni. Gli occhi vitrei sembravano cibarsi di quella che era la sua anima, anticipando ciò che la sua bocca avrebbe fatto con la sua carne.
<< Ti prego. >> riuscì a piagnucolare lei, sperando bastasse quello a convincerlo a lasciarla stare. Sperando stupidamente che qualcosa dentro di lui lo facesse improvvisamente tornare in sè, ricordare, e allontanarsi.
Voleva chiudere gli occhi e svegliarsi. Era un sogno, uno dei suoi soliti incubi, lo sapeva. Per forza doveva essere così. Doveva svegliarsi.
Lo osservò mentre, ormai vicino, si lasciava cadere in ginocchio e con foga portava la sua bocca al collo della ragazza, incapace di reagire, incapace addirittura di avere paura. Ormai vuota di ogni cosa. Solo un involucro.
Ma sparò.
Neanche se ne rese pienamente conto, la mano si era mossa da sola, stringendo la pistola e facendo fuoco alla tempia dello zombie. Il colpo sembrò risvegliare la ragazza che spalancò gli occhi, e raccolse tra le braccia il corpo esanime del suo aggressore prima che potesse cadere a terra con un tonfo. Lo strinse a sè, affondando il viso nell'incavo del suo collo, stringendolo tra le braccia con quanta più forza e rabbia aveva e su di lui riversò lacrime che a lungo aveva dimenticato.
<< Mi dispiace. >> pianse, scivolando al suolo insieme al cadavere, continuando a stringerlo a sè, continuando a nascondere il suo viso su di lui, ignorando l'odore sgradevole della morte. Poggiò la testa sul suo petto e strinse i suoi abiti tra le dita, affondando, colpendo, strattonando.
<< Perchè? >> urlò improvvisamente alzando il volto, guardando furiosa quello del cadavere steso a terra << Perchè mi avete lasciato sola! Siete degli stronzi egoisti! Perchè mi avete lasciato sola in questo schifo di terra!! >> urlò ancora strattonandolo per il vestito con fare aggressivo << Come avete potuto farmi una cosa simile! Io non sono in grado, lo sapete! Non dovevate farlo! Non dovevate farlo! >> gli diede uno schiaffo su una delle guance aperte, singhiozzando ancora, e poggiò la fronte sul suo petto, colpendolo con un paio di pugni << E' tutta colpa vostra! Voi mi avete portata qui! >> si sforzò di dire sentendo la voce morirle in gola.
<< Dovevamo tornare a casa! >> urlò infine con tutto il fiato che aveva a pochi centimetri dal suo viso, sfogando rabbia contro chi ormai non poteva più sentirla, cosa che sembrò dimenticarsi. Lo guardò, zittendosi improvvisamente, rendendosi conto di cosa aveva veramente tra le mani. Rimase qualche secondo in silenzio, immersa in quello che tanto sembrava un risveglio. Lo scosse ancora, ma non per sfogare la rabbia, lo scosse nello stesso modo in cui si cerca di svegliare qualcuno che dorme profondamente.
<< Mario. >> lo chiamò sottovoce, scuotendolo sempre più forte << Mario, dai guardami. >> chiamò sempre più forte.
<< Dai, non sono più arrabbiata. >> singhiozzò sforzando un sorriso. Era incredibile, ma tutta la rabbia e la confusione nata sul momento quasi le avevano fatto dimenticare cosa stava succedendo, aveva veramente creduto di parlare con un vivo, aveva veramente creduto fosse tutto un sogno, un'illusione. E ora...ora aveva tra le mani il corpo del suo vecchio amico che non si muoveva. Non poteva essere morto. No, stava dormendo. Sicuramente, ora avrebbe riaperto gli occhi e l'avrebbe presa in giro per le sue sciocche lacrime. Sarebbe andata così per forza.
<< Dai, guardami. Mario... >> lo scosse ancora, sempre più forte << Torniamo a casa. >> disse tornando pian piano alla realtà, rimettendo ordine nella confusione che si era creata intorno a lei, realizzando sempre più quello che veramente aveva attorno.
<< Ti prego, guardami. >> pianse a dirotto lasciandosi di nuovo cadere su di lui << Da sola non ce la faccio. Non lasciarmi. Non lasciatemi. Non ce la faccio. Ti prego, aiutami. Non lasciarmi sola, non ne sono capace. Ci ho provato. Guarda come mi sono ridotta! Non posso farcela da sola! >> ma tutte le preghiere continuarono ad andare a vuoto, nessuna giunse a destinatario e nessuna venne realizzata. Era sola, e non poteva fare niente per tornare indietro.
<< Non lasciatemi. >> disse ormai priva di forze, allentando la presa sull'abito dell'uomo e lasciando cadere la testa in avanti, pesante.
<< Mi mancate così tanto. >>
Pianse a lungo, senza riuscire a fermarsi neanche un'istante, senza rendersi conto del tempo che era passato, continuando a sperare di svegliarsi da quell'incubo da un momento a un altro, senza però che questo suo profondo desiderio venisse realizzato.
Ma le speranze erano vane, non era difficile capirlo: era difficile accettarlo.
Alzò gli occhi dal corpo del suo amico e si guardò attorno. Non c'era niente da fare. Tutto era perduto e lei era sola. Il campo intorno a sè che aveva evitato di guardare era come aveva temuto: ricoperto di cadaveri. Riconobbe i loro volti, o almeno quelli che erano ancora riconoscibili e non spappolati. Loro erano stati l'ultimo ricordo di Alice prima di morire. Loro erano stati coloro che l'avevano uccisa. E lì, in quel luogo, era nata dal sangue Ocean.
Si alzò in piedi, stanca, e tornò a percorrere i suoi passi, lasciandosi alle spalle i cadaveri. Voltando nuovamente le spalle a ciò che era stata, calpestando nuovamente Alice che aveva tentato di tornare disperatamente. Non c'era niente che poteva fare ormai. Le cose erano andate in quel modo, il suo gruppo non c'era più e lei era sola. Era fuggita quella notte, quando tutto era finito, ancora stava fuggendo e probabilmente mai avrebbe smesso.

Raggiunse la stalla dove, come immaginava trovò Peggy infilata in quello che al tempo era stato il suo box. La fortuna l'aveva tenuta in vita, proprio come la sua padrona. Ocean le si avvicinò e le fece due carezze, salutandola. Prese subito dalla sella il suo mantello, finalmente avrebbe avuto qualcosa con cui coprirsi la notte per non soffrire il freddo, e chiuse il box. Il sole era calato, la notte stava prendendo possesso nuovamente di quella terra, e non c'era altro da fare che aspettare. Si diresse verso l'uscita ma si bloccò, trattenuta da un pensiero, e voltò la testa verso sinistra, guardando un ammasso di fieno accantonato lì. I suoi occhi andarono a posarsi su un oggetto e non sembrò per niente sorpresa di trovarlo: lei l'aveva lasciato lì prima di andarsene l'ultima volta che era stata in quel luogo. Si avvicinò e lo prese tra le dita: era una collana rudimentale, fatta con un cordoncino e un grosso ciondolo in legno. Lo accarezzò, togliendogli da sopra uno spesso strato di polvere e se lo rigirò tra le mani. Era un fiore, una margherita, con i piccoli petali attaccati a un gancio che permetteva di staccarli. Alcuni già mancavano. Non era bello, ma questo non le importava e mai le aveva impedito di portarselo dietro. Lo voltò guardandone il retro e lesse la scritta incisa: "Remember the time". Con un paio di righe, anch'esse incise, era stato cancellato il "The time", lasciando solo "Remember".
Ricorda.
Uscì dalla stalla avendo cura di chiuderla bene, per evitare che qualche zombie durante la notte avesse potuto intrufolarsi e far fuori l'unica amica rimasta. Poi si diresse, lenta e pesante, verso la casa dove avrebbe affrontato fantasmi e incubi. Sarebbe stata una lunga notte, quel luogo emanava ricordi da ogni singolo angolo: ogni trave, ogni mattone o mobile sussurrava parole al suo orecchio, e non sempre erano belle. Si infilò il mantello, portandosi il cappuccio sopra la testa, entrò nella casa, chiudendosi la porta alle spalle, anche se sapeva era tutto inutile: le finestre erano sfondate, chiunque poteva entrare. I suoi passi fecero scricchiolare il pavimento, solo quel rumore suggeriva la presenza di qualcuno. Anche lei quella sera faceva parte dei fantasmi che infestavano quelle pareti. Scese in cantina, unico posto rimasto sicuro dato che sotterraneo e di nuovo si chiuse la porta alle spalle, bloccadola, in modo che se non fosse arrivata alla mattina dopo non sarebbe stata colpa di zombie o persone, ma solo dei fantasmi. Si fece luce con la torcia che aveva raccolto da sopra, prima di scendere e raggiunse l'angolo più buio e umido di tutta la stanza. Si raggomitolò lì, con il ciondolo tra le dita, e rimase immobile ad aspettare il giorno, chiedendosi cosa avrebbe fatto poi. Si sarebbe messa in sella della sua cavalla e sarebbe andata... non aveva la più pallida idea di dove. Niente sembrava avere più un senso. Avrebbe continuato a vagare aspettando di essere uccisa, come aveva fatto fino a quel momento. Ma questa non era una risposta.
La notte stava risultando più rumorosa del previsto, e non solo per i versi degli zombie in lontananza, nel bosco, per le cicale o i gufi. Come aveva immaginato tutto intorno a lei sussurrava e spaventava, non facendola dormire.
E stufa, dopo qualche ora di sopportazione, decise di ricorrere a metodi drastici di sostegno. Ricordava che quando erano stati lì, dopo aver esplorato la casa, avevano trovato un piccolo tesoro proprio lì in cantina. Accese la torcia e prese un piede di porco poggiato al muro poco lontano da lei. Con quello, usando tutta la forza che aveva, caricando di nuovo i suoi colpi di rabbia per potersi svuotare di tutto quel risentimento, colpì ripetutamente un piccolo armadietto in legno, infilando la sbarra metallica tra le ante e riuscendo con della leva finalmente ad aprirlo. Delle bottiglie caddero fuori, scivolando, non rompendosi per fortuna. Ocean prese la prima che le capitò tra le mani, una delle poche che erano ancora quasi piena e ritornò nel suo angolino. Aprì il tappo e ne buttò giù un sorso, senza neanche preoccuparsi di leggere cosa avesse preso, ma riconoscendo dal sapore forte la Vodka. Fece una smorfia e scosse la testa, frastornata da quell'improvviso sapore e dal calore che subito le era salito dallo stomaco. Si sistemò come megliò potè e continuò a bere, cercando di portarsi sempre più oltre, aspettando con ansia i primi capogiri che avrebbero zittito tutti quei sussurri così fastidiosi e che li avrebbero tenuti a bada per il resto della notte.

<< Quel rompipalle sarà solo un brutto ricordo. >> disse Daryl a Rick, entrambi sulla veranda della fattoria di Hershel, sguardo all'orizzonte e una mappa sotto le loro mani, intenti a decidere dove avrebbero mollato Randall. Perchè era quello ora il piano, in onore di Dale, avrebbero tenuto Randall in vita. Lo avrebbero lasciato da qualche parte, lontano dalla fattoria, dandogli una speranza, ma lontano da loro.
<< Carol sta preparando per lui delle provviste. Saranno abbastanza per qualche giorno. >> disse Rick, guardandosi attorno, contemplando quella che era diventata finalmente casa loro. Lì sarebbe stati al sicuro, lì il loro bambino avrebbe potuto vivere. Bastava solo rendere il confine ancora più sicuro, fare turni di guardia e restare sempre ben armati. Potevano farcela. Aveva fiducia.
Shane arrivò con la macchina, il bagagliaio aperto, sempre intento nel loro trascolo, e dopo essere sceso si avvicinò a Rick. Daryl non aveva nessuna intenzione di stare lì, ad ascoltare quell'uomo blaterare, e sicuramente era con Rick che voleva parlare, perciò si alzò e si allontanò con la scusa più banale del mondo << Vado a pisciare. >> facendo trapelare tutto il suo fastidio in quelle parole. Entrò in casa e si diresse verso il bagno, con la mano già poggiata ai pantaloni, pronto a slacciarseli, quando Andrea aprì la porta dietro di lui, la fretta nei movimenti e negli occhi una strana luce << Presto, vieni! >> disse accennando un sorriso, e uscendo di nuovo. Daryl rimase per un po' immobile, chiedendosi cosa diavolo volesse, cosa stesse succedendo, poi la raggiunse non dimostrando la fretta che poteva avere invece la donna.
Uscì fuori, Andrea era già corsa poco lontano, in fondo alle scale della verandina c'era Carol e vicino a lui, sulla porta invece Hershel con uno scatolone in mano. Tutti però guardavano una sola direzione e fu in quella direzione che anche Daryl rivolse il suo sguardo, restando dapprima perplesso, chiedendosi se i suoi occhi non lo stessero ingannando, poi sorpreso, sollevato...in qualche modo era addirittura felice.
<< Qualcuno sentiva la nostra mancanza. >> ridacchiò Hershel prima di voltarsi per entrare in casa dove avrebbe portato lo scatolone. Daryl guardò la figura nera a cavallo che si avvicinava alla casa e fece qualche passo in avanti. Era davvero lei? Era viva? Possibile?! E...stava tornando. Poi qualcosa tranciò di netto tutta la possibile gioia che poteva nascere dalla scoperta: la figura a cavallo, che solo allora notò traballava e ciondolava, scivolò dalla sella e cadde a terra.
<< Non sta bene! >> sussultò Carol cominciando a correre verso di lei, dietro ad Andrea e seguita subito anche da Daryl. T-Dog arrivò in quel momento e vedendo correre via Daryl si pose mille interrogativi, si voltò verso Hershel che era uscito di nuovo e gli chiese non capendo << Ma che succede? >>
<< Succede che non smetto mai di lavorare. >> constatò il vecchio guardando la scena in lontananza. Andrea fu la prima ad arrivare dalla ragazza ed inchinarsi su di lei, rivolgendole qualche parola, richiamandola. Daryl arrivò subito dopo e anche lui si inginocchiò a guardarla. Era ridotta a uno straccio, con una guancia gonfia, dei tagli in viso, un livido sul collo e chissà quali altre ferite sparse per il corpo. Ma la cosa che più colpiva tutti quanti era la terribile puzza di alcol che emanava, e solo allora videro che dalle dita le era scivolata via una bottiglia di Vodka quasi vuota.
<< Cosa cazzo ti è successo?! >> chiese Daryl retoricamente mentre si chinava su di lei e le infilava un braccio sotto al collo, per poterla sollevare, prendere in braccio e portare in casa.
<< Ehy, D. >> bofonchiò Ocean, dimostrando di essere sveglia nonostante gli occhi chiusi e la completa assenza di energie. Provò a ridere ma le uscirono dalla gola solo colpi di tosse << Ti puzza l'alito. >> sorrise e si lasciò andare, fece un ultimo sospiro, prima di rilassarsi completamente sorretta dal braccio di Daryl, lasciando cadere la testa di lato.
<< E' morta? >> chiese spaventata Carol, giungendo solo in quel momento e vedendo la ragazza così abbandonata e ridotta in quelle pessime condizioni. Daryl le infilò l'altro braccio sotto le gambe e la sollevò, alzandosi. Guardò Carol, cercando di nascondere un sorriso, ma senza riuscirci bene e le disse << Sta dormendo. >>
Ed era vero. Ocean aveva resistito, cercando di restare in sella fino a quando non era entrata nella proprietà di Hershel. Quando aveva notato che l'avevano vista si era lasciata andare, ormai stremata, ed era caduta a terra. Ma la tranquillità che le aveva permesso di addormentarsi e riposarsi era arrivata solo quando aveva sentito la voce di Daryl: era vivo, ce l'aveva fatta, e ora finalmente non era più sola. Un grosso peso le era scivolato via. Ora stava bene. E aveva voluto farlo sapere al suo amico nella sua personalissima maniera, continuando a emanare orgoglio e sarcasmo. Finchè aveva la forza di far battute voleva dire che stava bene.
Daryl passò di fianco a Carol, e la donna notò che anche Ocean stava sorridendo nonostante il profondo sonno in cui sembrava essere crollata. Era ridotta malissimo, ma nonostante questo il suo volto emanava pace e serenità, la stessa pace che era possibile godere alla fine di una lunga e violenta tempesta, quando ormai le nuvole si diradano e lasciano spazio a un bellissimo arcobaleno.

<< Guarda, te lo ripeto ancora una volta! >> una voce limpida diradò un po' l'oscurità che aveva attorno a sè. Sentì pian piano riprendere la sensibilità del proprio corpo, cominciando dapprima a sentir dolori, poi le dita dei piedi che formicolavano.
<< Io muovo questo così! E quindi ho vinto io. >> di nuovo la cristallina e delicata voce femminile che pian piano l'afferrava, stringendole delicatamente la mano e che la tirava a sè.
<< Così allora ho vinto io. >> a parlare questa volta non fu la voce femminile, ma un'altra più roca, bassa, un po' raschiante e sicuramente maschile. Non fu difficile riconoscerla. Le scaldava il cuore.
<< Ma no!!! Non capisci proprio niente! >> non aveva idea di chi fosse la voce, ma era così dolce e l'affermazione appena fatta, con tutta la singolare rabbia che conteneva, la fece sorridere, divertita. Aprì lentamente gli occhi curiosa di capire chi stesse urlando nelle sue orecchie aggiungendo mal di testa a quello già presente, e prima di trovar risposta non riuscì a trattenere un bofonchiato << Lo dico sempre anche io. >>
Il silenzio calò per qualche secondo, il tempo di assicurarsi fosse stata davvero lei a parlare. Ocean riuscì ad aprire gli occhi e le figure appannate davanti a sè presero pian piano una forma più definita: Daryl e Molly erano seduti ai due capi di un piccolo tavolino, vicino a lei, che invece si trovava stesa su di un letto. Non ricordava niente di quanto successo e non aveva la più pallida idea di come fosse finita lì. L'ultima cosa che ricordava era Mario steso a terra, che dormiva, ma che non si svegliava nonostante le sue urla. Forse poi aveva perso i sensi per colpa di tutte quelle ferite. Molly spalancò gli occhi e sorrise come poche volte Ocean aveva visto fare a qualcuno << Ti sei svegliata!! >> urlò prima di alzarsi e correre sul letto vicino a lei, facendola sobbalzare e gemere per i dolori che sentiva praticamente ovunque. Si poggiò su un braccio e cercò di sollevarsi a sedere, facendo fatica ma riuscendo. Sentiva la spalla sinistra pulsare e tutto il resto del corpo formicolare.
<< Daryl non voleva che venissimo qui a giocare, diceva ti avremmo svegliata, ma io volevo aspettare qui! >> comunicò Molly piena di entusiasmo e un po' contrariata dal divieto che aveva cercato di imporle il ragazzo.
<< Ma, nonostante il fracasso che facevamo, continuavi a russare come un ubriacone. >> le comunicò Daryl prendendola un po' in giro. Ocean si limitò a guardarlo contrariata, era un po' stanca e aveva poca voglia di parlare. La gola le faceva ancora malissimo.
<< Vado a dire ad Hershel che sei sveglia. Vorrà controllarti. >> disse poi lui alzandosi e uscendo dalla stanza, lasciando le due sole.
<< Hershel è il dottore! >> disse Molly sedendosi con le gambe incrociate vicino alla ragazza << Però secondo me non è proprio un vero dottore. >> sussurrò guardandosi attorno, come se avesse detto un segreto. Ocean la guardò interrogativa, aspettando le spiegazioni che non tardarono ad arrivare << Mi ha dato della cioccolata! La mamma mi diceva sempre che la cioccolata fa venire il mal di pancia. Se era un vero dottore doveva saperlo. >> Ocean non riuscì a trattenere delle risa alla spiegazione della bambina. Non faceva una piega, ed era proprio per questo che faceva ridere. La gola non le diede però la possibilità di ridere come voleva e si ritrovò subito a tossire violentemente. Molly si alzò e andò vicino al comodino. Prese con entrambe le mani la bottiglia dell'acqua, troppo grande per lei, e ne versò un po' dentro un bicchiere, facendone cadere maldestramente qualche goccia intorno. Poi prese il bicchiere e lo diede alla ragazza << Tieni. >> disse assumendo l'espressione un po' preoccupata. Ocean sorrise teneramente, afferrò il bicchiere e buttò giù il contenuto tutto d'un sorso rendendosi conto solo in quel momento dell'incredibile sete che aveva. Riprese fiato, finito di bere e porse di nuovo il bicchiere alla bimba ringraziando.
<< Ne vuoi ancora? >> chiese premurosa Molly e Ocean annuì. La piccola infermierina servì ben 4 bicchieri d'acqua alla sua paziente prima che la porta si aprisse e Hershel facesse capolino. Sorrise alla bambina prima di dirle << Puoi lasciarci soli, Molly? >> Molly guardò Ocean, chiedendo con gli occhi il permesso di restare, sperando fosse lei stessa a dire "No, lasciala qui". Ma Ocean annuì, facendo intuire di dar ascolto al dottore e la bimba uscì dalla stanza sbuffando, chiudendosi poi la porta alle spalle.
Hershel si avvicinò alla nuova paziente e si mise a sedere vicino al letto << Ti aspettava. Pensa che tu sia andata a cercare i suoi genitori. >> disse << Dovremo poi trovare il modo di dirle che non li hai trovati. Prima o poi dovrà sapere di essere rimasta sola. >> c'era tanta tristezza nelle parole del dottore. E Ocean abbassò gli occhi, riempiendosi della stessavtristezza. Sapeva cosa voleva dire restare soli, senza più le tue ancore di salvezza, senza più qualcuno che ti abbracci e ti protegga.
<< E se non fossi tornata? >> chiese Ocean pensando ad alta voce. La stava aspettando. E la sua intenzione era quella di non tornare. Le avrebbe fatto ancora più del male.
<< Beh, allora le brutte notizie sarebbero state due. Ma ora tu sei qui, e questo è già una buona cosa. >> Ocean non era proprio d'accordo. C'era qualcosa che non le dava pace. Non era sicura che tornare fosse stata una buona idea.
<< Che cosa è successo? >> chiese confusa, sperando almeno il vecchio potesse informarla sul grosso buco nero che aveva in testa.
<< Io non ne ho idea. >> disse Hershel con tono ovvio << So solo quello che ho visto: che hai varcato i confini della mia fattoria in groppa alla tua Peggy ubriaca fradicia. >>
<< Ubriaca? >> chiese Ocean mettendo al giusto posto la notizia. Si portò una mano alla fronte rendendosi conto solo in quel momento che era fasciata << Ora è tutto chiaro. >>
Hershel fece una breve pausa prima si raddrizzarsi sulla sedia, fare un sospiro e infilare la mano in una tasca della sua camicia. Ne estrasse un piccolo flaconcino che ancora risuonava di qualche pasticca.
<< Ho trovato questo >> disse semplicemente porgendo il flaconcino a Ocean per mostrarglielo. Erano gli antibiotici che aveva trovato nella casa nel bosco.
<< Ocean, quanti ne hai presi? >> chiese visibilmente preoccupato. Ocean non rispose subito, cercando di capire negli occhi del dottore cosa stesse cercando di dirle. E non ci mise molto ad arrivare alla risposta. Hershel temeva Ocean avesse cercato di suicidarsi prendendo troppe pillole, e magari peggiorando la situazione con l'assunzione di alcol.
<< Non abbastanza. >> si limitò lei a rispondere, acida, un po' provocatoria, forse infastidita per il tipo di supposizione che aveva fatto il dottore, ma cercando lo stesso di tranquillizzarlo ed evitare di urlare al suicidio.
<< Bene. >> rispose Hershel infilandosi nuovamente il flaconcino in tasca, sollevato dalla risposta << Non voglio dirti cosa fare della tua vita, Ocean, ci conosciamo appena e oltretutto non mi permetto di dire alle mie figlie cosa fare della propria, figuriamoci. Non so cosa ti sia successo, e non pretendo di saperlo, capisco possa essere doloroso rievocare, io stesso provo queste cose. Ma vorrei solo farti notare che se l'ebrezza dell'alcol, dopo aver ofuscato la tua coscienza, ti ha riportato qui forse un motivo c'è. Cerca di riflettere bene su questo, perchè forse potrebbe essere il tuo appiglio per il futuro. >>
<< Non volevo suicidarmi, dottore. Non c'è bisogno venga tu a dirmi che farmene del mio futuro. >> rispose ancora acida. Odiava le lezioni di vita, soprattutto se a impartirgliele era qualcuno che neanche sapeva qual era il suo nome.
<< Era solo un consiglio. Decidi tu che fartene. >> rispose Hershel con tranquillità prima di alzarsi e andare a prendere le sue cose da medico. Era un uomo tutto d'un pezzo, sapeva qual'era il suo posto, e questo gli faceva onore. Come spesso accadeva, la vecchiaia oltre ai capelli bianchi gli aveva portato anche una buona dose di saggezza. Come quel Dale. Ed era una qualità che Ocean apprezzava molto. Il resto della visita si svolse in assoluto silenzio. Hershel cambiò le bende a Ocean, disinfettando ancora, somministrandole alcuni farmaci e ordinandole di bere e mangiare. Poi uscì, lasciandola sola. Ocean si alzò dal letto, sentendo dolore a qualsiasi movimento, ma non abbastanza da fermarla. Non se ne sarebbe stata chiusa in quella stanza a dormire come se fosse stata in un hotel. Si avvicinò alla finestra e guardò fuori: alcuni membri del gruppo erano intenti a sistemare delle cose su di una macchina, altri vagavano chiacchierando tra loro e poi c'era Carl, seduto all'ombra di un albero, che accarezzava Max, anche lui steso lì sotto, con una zampa fasciata. Un sorriso le si dipinse in viso: era vivo! Daryl era tornato ed era riuscito a salvarlo. Non aveva deluso le sue aspettative. Il suo più caro amico era ancora con lei, e doveva tutto a quel scorbutico ometto infighettato che tanto diceva di disprezzare. Gli era molto grata. Aveva fatto molto più lui in quei 4 o 5 giorni che chiunque altro in tutta la sua vita.
Aveva trovato il motivo per cui era tornata.
Hershel aveva ragione.
Ora vedeva qualcosa. Era stata 3 giorni sola, con davanti a sè solo buio e morte, ma ora, davanti a quella finestra, spettatrice di scene di quotidiana felicità in cui era visibile anche il suo migliore amico, scene che non credeva sarebbero mai state possibili, vedeva la strada che doveva percorrere. Non voleva più stare sola, la solitudine l'aveva quasi uccisa, aveva bisogno di essere scaldata dal calore delle persone, aveva bisogno di qualcuno che la sollevasse quando cadeva e che l'abbracciasse quando aveva freddo. Guardò le persone che come formiche si affaccendavano sotto di lei, in quel campo, fregandosene di avere progetti sul futuro, intente solo a sostenersi l'uno con l'altro e sorrise trovando tutto ciò bellissimo.
<< Voglio restare qui. >> mugolò mentre si asciugava una lacrima col dorso della mano. Per la prima volta dopo tanto tempo le lacrime che percorrevano il suo viso erano così calde, colme di gioia. Si era dimenticata che era possibile piangere di gioia.
Aveva finalmente chiuso quella porta alle sue spalle che a lungo l'aveva infreddolita con la sua corrente. Era finalmente pronta ad aprire un'altra porta, varcarla nella speranza di trovare dall'altro lato sole, fiori e farfalle.
Vide Molly scendere le scale della verandina di corsa, facendo svolazzare la sua gonna arancione e dirigersi velocemente verso Daryl, piena di energia e vitalità. Lo afferrò per il lembo del gilet e lo strattonò per richiamare la sua attenzione. Lui la guardò, e lei gli disse qualcosa, che Ocean non potè sentire, dondolando sui piedi, non riuscendo proprio a stare ferma. Era così tenera. Daryl le fece cenno con la testa verso Carl e Max, aprendo appena le labbra, probabilmente dando una risposta secca e netta alla bambina, che guardò nella direzione indicata e corse verso essa, urlando qualcosa, forse chiamandoli e mettendosi poi vicino a loro, sorridente e chiacchierona. Ocean la trovò così tenera. Era la nota dissonante in tutto quello, era la stella che brillava nelle notti più buie e illuminava la via dei viandanti.
Daryl, dopo averla seguita con lo sguardo, tornò al suo lavoro di allestimento della macchina, preparandola per chissà che cosa, ma prima gli occhi andarono senza un motivo ben preciso alla finestra in alto, vedendo la ragazza dietro al vetro. Tenne gli occhi fissi su di lei per qualche secondo, senza far trapelare nessun pensiero dal suo sguardo di ghiaccio, poi tornò al suo lavoro.
Ocean si allontanò dalla finestra ormai alleggerita di qualsiasi peso avesse potuto avere sulle spalle fino a quella mattina. Si diede un'occhiata addosso: era ricoperta di lividi, e dove non c'erano lividi c'erano cerotti e bende. Sembrava appena uscita dal macello. Ma la cosa non le pesava più.
Prese i suoi abiti, puliti alla ben e meglio e ricuciti, poggiati sulla sedia. Qualcuno si era preso la briga di ripulirli, senza però trattenerli a lungo, dandole modo di ritrovarli al risveglio, e di sistemare i vari buchi che ormai lo tappezzavano ovunque. Si rivestì con cautela e lentezza, cercando di stringere i denti ai vari doloretti. Riusciva a camminare, anche se zoppicante, e questo era l'importante. Non voleva starsene chiusa lì. C'era una cosa che doveva assolutamente fare o sarebbe stata soffocata dal dubbio. Doveva parlare con Rick. Non voleva autoinvitarsi all'interno del gruppo, senza averne il permesso. E si sarebbe impegnata per ottenerlo, rimediando ai suoi precedenti errori. Non voleva tornare sola, anche se aveva sempre insitito per farlo. Probabilmente avrebbe sempre convissuto con le sue paure, col timore di essere abbandonata di nuovo, di affezionarsi e vedere tutto svanire di nuovo, ma la paura c'era anche quando era sola ed era anzi anche più terribile. Lì almeno avrebbe per un po' provato l'ebrezza di sperare, di nuovo. E qualcosa era cambiato: non era più la ragazzina debole, intimorita e indifesa che sapeva solo scappare. Ora sapeva combattere, e l'avrebbe fatto. Aveva paura di essere felice, la caduta sarebbe stata più dura poi, ma alla fine aveva ceduto al bisogno di prendere fiato ogni tanto.
Avrebbe smesso di vagare senza meta, aspettando di essere uccisa. Ora avrebbe avuto uno scopo: aiutare gli altri, tenerli in vita. Questo era l'appiglio a cui si sarebbe aggrappata per il futuro. Avere un motivo per vivere rendeva tutto più semplice.
Non uscì subito, prima aveva bisogno di togliersi un altro sassolino dalla scarpa. Per ricominciare da capo bisognava prima mettere un punto a tutto ciò che c'era stato prima. Aprì i vari cassetti presenti nella stanza, comò e comodini, e trovò quello di cui aveva bisogno: carta e penna. Si inginocchiò vicino al comodino, poggiando la carta lì e cominciò a scrivere.

"Claudio.
Mario.
Federico.
Gabriele.
Marta.
Luca.
Lorenzo.
Simone.
Susy.
Nicola.
Micky.
Manuele.
Alice.

Domus est ubi cor est!"

Fece un sospiro, mandando via il peso che stava nuovamente cercando di attanagliarle il cuore. Arrotolò il foglietto, prese la bottiglia che conteneva ancora un po' di acqua e la svuotò, bevendo il resto. Poi infilò dentro il biglietto arrotolato. Si alzò, mugolando ancora per il dolore, e si diresse verso il tavolino dove c'erano sistemate le cose che teneva alla cintura: le sue armi e il ciondolo trovato alla fattoria. Staccò uno dei suoi petali, sforzando il polso e tornò alla sua bottiglia. Lo infilo dentro, insieme al foglietto e infine la chiuse col suo tappo.
Appena si sarebbe rimessa in forza avrebbe ripreso ogni tanto a vagare intorno a quella zona, esplorando, cercando magari qualcosa di utile, come sempre aveva fatto, e al primo corso d'acqua che avrebbe trovato ce l'avrebbe buttata dentro confidando che tutti i fiumi sfociano nell'Oceano.
Loro erano i suoi morti.
Loro sarebbero tornati a casa.
Insieme.

Domus est ubi cor est: Casa è dove si trova il cuore. 
(Plinio il Vecchio)

   
 
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