Redenzione
La
vista le si stava nuovamente appannando, e ancora era pronta a cadere
in un profondo sonno ristoratore. Erano due giorni che non faceva che
dormire, eppure non era mai abbastanza. Il fisico debilitato non
faceva che peggiorare le sue condizioni giorno dopo giorno. Sentiva
il cuore pulsare in petto, così forte che sembrava volesse
esplodere, creandole continui cali di pressione. L'ossigeno non era
mai abbastanza e continuava a catturarne il più possibile,
avida,
con la gola che raschiava in continuazione. Si tirò su
puntandosi su
un braccio, tremante e affaticato e un conato di vomito le chiuse la
gola in un istante, costringendola ad abbassarsi di nuovo,
rovesciando sul pavimento quel poco che conteneva il suo stomaco.
Tossì e cercò di pulirsi la bocca col torso della
mano, sentendo
faticoso ed estenuante qualsiasi genere di movimento. L'uomo steso
accanto a sè, ormai morto, fece uscire dalla sua gola un
verso,
probabilmente causato dal un altro getto di sangue che era sgorgato,
ma la ragazza ormai sotto shock interpretò quel suono in
un'unica
spaventosa maniera: "si è trasformato!" Si tirò
su di
colpo, afferrò il coltello dalla tasca dei suoi pantaloni e
lo
piantò con rapidità nella fronte del cadavere. E
ancora. E ancora.
Terrorizzata. Furiosa. Sfogando in quei colpi tutto il risentimento
che covava dentro da tempo e che era esploso ancora una volta di
fronte al pericolo.
Si
fermò quando proprio non ce la fece più, quando
ormai il cranio
dell'uomo vicino a sè era spappolato a dovere.
Cercò ancora avida
l'ossigeno intorno a sè facendo respiri così
profondi da farle
girare la testa. Con una mano tremante andò ad aprire la
fondina del
cadavere accanto a sè e afferrò la pistola,
stringendola tra le
dita sporche. Lentamente si alzò dal letto, trovando la
forza solo
esclusivamente nella sua rabbia e la paura che ancora non voleva
lasciarla andare. Inciampò nelle lenzuola e si
poggiò al comodino,
vicino al letto, in ginocchio. Versi uscivano dalla sua gola, versi
colmi di dolore e ira, cercando in loro la determinazione per non
lasciarsi andare proprio in quel momento. Digrignò i denti e
con uno
sforzo incredibile riuscì a rimettersi in piedi.
Afferrò l'uomo per
la caviglia e cominciò a trascinarlo puntando i piedi ben a
terra,
facendo forza su quelli, essendo ormai stremata. Con grande fatica,
dolore e impiegando un sacco di tempo riuscì finalmente a
portare il
cadavere dove desiderava: nella stanza del bambino che aveva lasciato
in vita, all'interno del suo box. Era ancora lì, che si
dimenava
attirato dai rumori. Trascinò il cadavere al centro della
stanza e
lo lasciò lì. Si avvicinò poi
zoppicante al box e aprì lo
sportellino che c'era a lato, senza spalancarlo, lasciando che fosse
lui ad aprirlo con i suoi tempi, così avrebbe avuto modo
prima di
allontanarsi e uscire dalla stanza, evitando di diventare lei stessa
la cena del piccolo zombie. Quando arrivò alla porta della
stanza si
voltò a guardare la scena dietro di sè. Il
bambino era riuscito,
come immaginava, ad aprire lo sportello semplicemente appoggiandosi
accidentalmente ad esso. Spalancò la bocca verso la ragazza
ma si
voltò a guardare il corpo steso poco lontano da lui, ancora
profumante di cibo, e più vicino e accessibile della ragazza
in
piedi alla porta.
Ocean
guardò per un attimo, con gli occhi colmi di furia e
soddisfazione,
il piccolo muovere i passi verso la sua portata.
<<
Ho vinto io. >> disse rauca prima di chiudere la porta
con un
tonfo. Non era contenta di quello che era successo, di quello che
aveva fatto, ma l'uomo aveva ricevuto ciò che meritava e lei
era
ancora fottutamente viva! Nonostante tutto lei era ancora
lì, e quel
mostro che voleva vederla morta e sottomessa invece era diventato la
portata principale di un piccolo carnivoro. Lui era morto. Lei ora lo
guardava mentre finiva nel peggiore dei modi.
Ocean
era ancora lì! Era ancora in piedi.
Si
lasciò alle spalle la stanza che ora si riempiva di suoni
poco
gradevoli di carne lacerata, versi gutturali, famelici, colmi di
soddisfazione, e si diresse verso il bagno poggiandosi al muro per
trovare sostegno. Nella mano destra stringeva ancora la pistola, e
nella sinistra, quella che si poggiava alla parete, il coltello.
Sperava di non usarle per un po' entrambe. Non sapeva perchè
aveva
preso la pistola, non amava quel genere di arma, troppo rumorosa e
lei troppo imprecisa, ma al momento stringerla tra le dita le dava
forza e sicurezza. Si poggiò al lavandino del bagno dopo
essersi
chiusa la porta alle spalle, forma di precauzione nel caso qualche
zombie fosse rimasto in casa a circolare, e si lavò via il
sangue di
dosso. L'acqua fredda al contatto con la pelle la faceva tremare e a
tratti le faceva male, ma vedere il sangue correre via fin dentro la
tubatura era come una purificazione. Doveva togliersi di dosso quella
merda. Notò aveva tratti di pelle violacea che al tocco la
facevano
gemere. Era piena di lividi. Si guardò allo specchio
crinato: la
guancia era rossa e si stava gonfiando. Aveva tagli in più
punti,
causati dalla battaglia del giorno prima e da quella di quella sera.
Ferite che si mischiavano a ferite, che si riaprivano, che si
aggiungevano rovinando sempre più il suo corpo, segnandolo e
marchiandolo. Si sfiorò la spalla sinistra, quella dove era
stata
sparata: il fazzoletto avvolto era pregno di sangue. Aprì lo
stipetto del bagno dove c'era qualche medicina, qualche garza e vari
flaconcini. Li scosse per sentire se c'era qualcosa dentro: molti
erano vuoti, e li fece cadere dentro il lavandino. Gli antidolorifici
erano finiti, ma per fortuna trovò un antibiotico con ancora
ancora
qualche pasticca dentro. Ne buttò giù una e
posò le altre sullo
specchio, fissandosi mentalmente il promemoria di portarselo dietro.
Si tolse la fasciatura dalla spalla facendola rigurgitare un po',
prese delle bende sterilizzate, ancora chiuse nella confezione e si
rifece la fasciatura, aiutandosi con i denti, stringendo il
più
possibile per tentare di fermare l'emoragia. Si lavò con
cura le
ferite, tentando di coprire le più grandi con della carta e
altre
bende. Mancavano cerotti e acqua ossigenata, non poteva che
arrangiarsi come poteva. Si sciacquò infine la bocca, prese
gli
antibiotici e le armi e uscì nuovamente dal bagno,
zoppicando,
barcollando, reggendosi in continuazione a ciò che trovava
attorno a
sè. Tornò in camera, prese i suoi pantaloni e se
li rinfilò
cercando di strofinare il meno possibile contro i graffi e le
sbucciature che aveva sparse per le gambe. Rimase al piano di sopra
qualche minuto, in cima alla rampa di scale, affidandosi solo al suo
udito, cercando di capire come fosse la situazione al piano di sotto.
Il silenzio suggeriva che era tutto tranquillo, ma il buio non le
dava la giusta sicurezza a scendere. Tossì e
tentò di attenuare il
rumore con una mano, serrando le labbra. Si poggiò una mano
alla
testa che pulsava a ogni battito del cuore e decise di rimandare la
sua visita al piano di sotto. Tornò nella stanza dove aveva
rischiato di morire, chiuse la porta alle sue spalle e con grande
sforzo riuscì a bloccarla con il comò,
spostandoglielo davanti.
Lanciò un ulteriore sguardo alla stanza, assicurandosi fosse
tranquillo e che lo zombie morto ai piedi del letto fosse veramente
morto. Non si muoveva, non reagiva ai rumori ma lei non riusciva a
sentirsi tranquilla. La paura ancora l'attanagliava. Aveva rischiato
troppo. Lo afferrò e sollevandolo appena, data la sua
stanchezza,
riuscì a trascinarlo fino all'armadio. Lo infilò
all'interno,
chiuse lo sportello e lo bloccò con la corda che l'uomo
aveva usato
per legare le sue caviglie. Nel caso si fosse risvegliato non
sarebbe uscito di là tanto facilmente. Poi si
lasciò cadere con
pesantezza sul letto, e tenendo ancora stretta tra le dita pistola e
coltello, si lasciò cadere in un profondo sonno, sperando
questa
volta sarebbe stato finalmente ristoratore e senza incubi.
Si
svegliò nella stessa identica posizione in cui si era
addormentata.
Era talmente stanca e affaticata che non era riuscita nella notte a
cambiare posizione quando il corpo ne sentiva l'esigenza. Si
alzò
lamentando dolori, si stirò la schiena e cercò di
scrocchiare
qualche articolazione. Non c'era parte del corpo che non le facesse
male e si sentiva gonfia in viso. Si alzò, aprì
la porta,
assicurandosi fuori non ci fossero brutte sorprese, e scese
lentamente al piano di sotto, aiutata questa volta dalla luce del
sole. C'erano cadaveri un po' ovunque, e vetri sparsi sul pavimento.
Le finestre erano rotte, così come molte altre cose.
Guardinga e con
cautela entrò nella sala, camminando a piedi scalzi sui
vetri,
facendoli scricchiolare, ignorando il dolore che questi provocavano
nel momento in cui le tagliavano la pianta. Dei graffi sotto i piedi
erano il suo ultimo problema. Strinse la pistola tra le dita e si
avvicinò con al divano. Uno zombie morto c'era steso sopra.
Lo
spostò, facendolo cadere a terra con un tonfo e lei prese il
suo
posto. Riprese la sua camicia, i suoi stivali, le sue armi e si
rivestì con velocità. Si diresse poi verso la
cucina, passando
accanto ai corpi, ignorandoli, ormai assuefatta da tutta quella
morte: non ci faceva neanche più caso. Cercò tra
i barattoli
rimasti qualcuno che contenesse ancora qualcosa e divorò con
avidità
tutto il loro contenuto. Aveva ancora lo stomaco sotto sopra, ma
doveva mettere qualcosa sotto i denti o sarebbe collassata. Bevve
l'acqua del rubinetto, buttandola giù a grandi sorsi,
sentendo la
gola bruciare meno grazie al liquido fresco, e sentendosi finalmente
pronta uscì dalla casa, lasciandosi tutta quell'incredibile
notte
alle spalle.
Camminava
con fatica, strascinando i piedi, stanca e dolorante, ma non
rallentava neanche un po'. Non era sicura di sapere dove si stava
dirigendo e perchè: seguiva l'istinto, seguiva i piedi che
la
portavano dove desideravano loro, senza interrogarli o accusarli.
Ovunque sarebbe arrivata andava bene. Ormai niente aveva più
importanza.
Il
sole stava tramontando per l'ennesima volta. Aveva camminato tutto il
giorno, fermandosi solo quando proprio non ce la faceva più,
per
riposare, bere e mangiare qualche boccone. Tutto in assoluto
silenzio. Accompagnata solo dal rumore dei suoi stessi gemiti. Aveva
vagato a lungo come uno di quei mostri, trascinandosi, lamentandosi,
senza sapere dove stava andando. Ma ora, col sole che stava di nuovo
morendo a ovest, lasciando nei vivi il dubbio se mai sarebbe tornato
su come quei mostri che ormai governavano la terra, il dubbio aveva
di nuovo preso a divorarla. Così come Peggy aveva seguito
l'istinto
fino a casa sua, lo stesso aveva fatto il suo, facendole sorgere
paura solo quando ormai non molti passi la separavano da quel luogo.
Si era fermata in mezzo a una strada deserta se non per qualche
foglia che volava via a ogni soffio di vento, e lì si era
seduta,
con lo sguardo fisso sul sentiero davanti a sè, sapendo
perfettamente dove l'avrebbe portata.
Non
voleva.
Aveva
paura...non voleva tornare lì.
Era
come l'entrata nella selva oscura di Dante, riusciva perfettamente a
sentire una voce provenire da la dentro sussurrarle "Lasciate
ogni speranza, voi ch'intrate".
Ma
che scelta aveva? Era sola, stanca, ferita. Almeno lì
avrebbe
trovato Peggy, e non sarebbe stata più sola. Senza
considerare che
sarebbe stato più facile per lei farsi trasportare dalla
cavalla,
anzichè dai suoi piedi, e sarebbe stata più
veloce nel caso ci
fosse stato bisogno di scappare. Non voleva più stare sola.
Aveva
troppa paura, non voleva più stare sola. Chinò la
testa, poggiando
la fronte sulle ginocchia davanti a sè e lì
rimase a lungo,
riflettendo su una decisione che era già stata presa. Doveva
solo
trovare il coraggio di affrontarla.
In
lontananza sentì il rumore di un motore: una macchina che
correva su
quella strada. Alzò la testa di colpo e si guardò
attorno: ancora
non si vedeva all'orizzonte, il mondo attorno a lei era così
silenzioso da permetterle di sentire una macchina così
distante. Si
alzò velocemente e arrancando si affrettò a
infilarsi tra gli
alberi prima che chiunque stesse guidando quel mezzo la vedesse. Si
schiacciò contro un albero, dando le spalle alla strada e
attese che
il pericolo passasse. Senza farsi vedere, tenendosi ben nascosta,
spinta dalla curiosità, si sporse a guardare la vettura che
le
passava accanto a tutta velocità. Era una specie di
furgoncino, con
cassone aperto dietro, e 4 o 5 uomini armati all'interno con lo
sguardo severo e sicuro e la sigaretta tra i denti. Uno in
particolare la colpì: era quello con la faccia
più stronza di
tutti, un ghigno ben disegnato in volto e una specie di armatura a un
braccio, che teneva ben in vista, quasi orgoglioso del suo operato,
con un coltellaccio infilato dentro. Passarono senza vederla,
proseguendo per la loro strada, e Ocean, una volta sola,
tirò un
sospiro di sollievo, anche se dentro sè era in qualche modo
delusa.
Aveva silenziosamente sperato che fossero Rick e il suo gruppo. Se
fossero stati loro a trovare lei, a riprenderla con loro, sarebbe
stato tutto più semplice. Lei non voleva tornare, non ce la
faceva a
ripercorrere i suoi passi, e non era solo l'orgoglio a impedirglielo,
c'era dentro lei una profonda paura. Ma se loro avessero di nuovo
insistito, glielo avessero chiesto di nuovo, sarebbe stato
più
facile dirgli sì. Come un bimbo che guarda insistentemente
un dolce
e teme nel chiederlo alla mamma, intimorito da una sgridata, da un
rifiuto, dovuta anche dalla sua intolleranza agli zuccheri, ma che
spera sia lei stessa a chiedergli "lo vuoi?", leggendo nei
suoi occhi il desiderio proibito.
Lasciò
che la macchina si allontanasse prima di riprendere il cammino, e
fare quei 100 metri in più che tanto temeva di fare.
Arrivò
nel suo incubo peggiore. Quello che per lei era l'Inferno Dantesco.
Davanti
a lei si apriva una piccola radura, con qualche campo e un recinto
dove far correre i cavalli. Al centro di essa era costruita una
casupola un po' diroccata, abbandonata. Una fattoria. Piccola
rispetto a quella di Hershel, neanche la metà, ma era
anch'essa una
fattoria.
Ocean
deglutì, cercando di buttar giù il nodo che si
stava formando in
gola. La pancia cominciò a dolerle, un fuoco si alzava da
essa e le
arrivava fino agli occhi, bruciandola. Fece un passo traballante,
improvvisamente senza equilibrio, e dovette poggiarsi alla recinzione
lì di fianco per evitare di cadere. La testa le
girò
vorticosamente. Stava arrivando la confusione, stava arrivando il
panico.
"Devo
solo prendere Peggy. Solo prendere Peggy" cercò di
tranquillizzarsi. Puntò gli occhi ai suoi piedi e
cominciò ad
avanzare, evitando di alzare lo sguardo. Procedette spedita, con
improvvisa urgenza, a testa bassa.
"Così
va bene" pensò cercando di farsi coraggio, dandosi la forza
per
proseguire. Sarebbe arrivata alla stalla, avrebbe preso la sua
cavalla e senza voltarsi indietro sarebbe scappata di nuovo.
"Così
va bene" proseguì sforzando i suoi muscoli di collaborare,
di
non cedere. Non seppe bene a che punto della fattoria era,
probabilmente verso metà, ce la stava facendo, le bastava
procedere
in quella maniera. Bastava non guardare. Ma un verso le costrinse ad
alzare il volto. Alzò gli occhi pieni di panico,
guardò in faccia
il suo aggressore, e tutto ciò che per mesi era rimasto
seppellito
sotto metri e metri d'acqua improvvisamente esplose, si
spalancò, e
fece uscire tutti i suoi fantasmi. Un vaso di Pandora.
Ocean
urlò e arretrò, non riuscendo più a
togliere gli occhi di dosso
allo zombie che stava avanzando, andandole incontro.
Inciampò e
cadde a terra. Arretrò ancora. Il mondo intorno a lei si
fece così
confuso. Si sentì mancare l'aria, si sentì
schiacciare, senza
nessuna via di fuga. Perduta in un labirinto che andava
restringendosi, comprimendola. Aprì la bocca per dire
qualcosa, ma
neanche l'aria uscì. Stava diventando una statua. Il
mondò sembrò
cadere nell'ombra intorno a lei.
Lo
zombie conservava ancora molto del corpo originale che era. I corti
capelli castani, le lunghe basette e la folta barba ispida. Mancavano
le guance rosse che sempre aveva avuto da vivo, ora sostituite da
buchi nella carne che mostravano i denti marci. Ma ancora portava la
sua divisa, il suo nero costume medievale.
Ocean
si sentì improvvisamente svuotata. Come in un sogno, si
sentì
incapace di muoversi e scappare via, mentre lo zombie barcollando si
avvicinava con chiare intenzioni. Gli occhi vitrei sembravano cibarsi
di quella che era la sua anima, anticipando ciò che la sua
bocca
avrebbe fatto con la sua carne.
<<
Ti prego. >> riuscì a piagnucolare lei,
sperando bastasse
quello a convincerlo a lasciarla stare. Sperando stupidamente che
qualcosa dentro di lui lo facesse improvvisamente tornare in
sè,
ricordare, e allontanarsi.
Voleva
chiudere gli occhi e svegliarsi. Era un sogno, uno dei suoi soliti
incubi, lo sapeva. Per forza doveva essere così. Doveva
svegliarsi.
Lo
osservò mentre, ormai vicino, si lasciava cadere in
ginocchio e con
foga portava la sua bocca al collo della ragazza, incapace di
reagire, incapace addirittura di avere paura. Ormai vuota di ogni
cosa. Solo un involucro.
Ma
sparò.
Neanche
se ne rese pienamente conto, la mano si era mossa da sola, stringendo
la pistola e facendo fuoco alla tempia dello zombie. Il colpo
sembrò
risvegliare la ragazza che spalancò gli occhi, e raccolse
tra le
braccia il corpo esanime del suo aggressore prima che potesse cadere
a terra con un tonfo. Lo strinse a sè, affondando il viso
nell'incavo del suo collo, stringendolo tra le braccia con quanta
più
forza e rabbia aveva e su di lui riversò lacrime che a lungo
aveva
dimenticato.
<<
Mi dispiace. >> pianse, scivolando al suolo insieme al
cadavere, continuando a stringerlo a sè, continuando a
nascondere il
suo viso su di lui, ignorando l'odore sgradevole della morte.
Poggiò
la testa sul suo petto e strinse i suoi abiti tra le dita,
affondando, colpendo, strattonando.
<<
Perchè? >> urlò improvvisamente
alzando il volto, guardando
furiosa quello del cadavere steso a terra <<
Perchè mi avete
lasciato sola! Siete degli stronzi egoisti! Perchè mi avete
lasciato
sola in questo schifo di terra!! >> urlò
ancora strattonandolo
per il vestito con fare aggressivo << Come avete potuto
farmi
una cosa simile! Io non sono in grado, lo sapete! Non dovevate farlo!
Non dovevate farlo! >> gli diede uno schiaffo su una
delle
guance aperte, singhiozzando ancora, e poggiò la fronte sul
suo
petto, colpendolo con un paio di pugni << E' tutta colpa
vostra! Voi mi avete portata qui! >> si sforzò
di dire
sentendo la voce morirle in gola.
<<
Dovevamo tornare a casa! >> urlò infine con
tutto il fiato che
aveva a pochi centimetri dal suo viso, sfogando rabbia contro chi
ormai non poteva più sentirla, cosa che sembrò
dimenticarsi. Lo
guardò, zittendosi improvvisamente, rendendosi conto di cosa
aveva
veramente tra le mani. Rimase qualche secondo in silenzio, immersa in
quello che tanto sembrava un risveglio. Lo scosse ancora, ma non per
sfogare la rabbia, lo scosse nello stesso modo in cui si cerca di
svegliare qualcuno che dorme profondamente.
<<
Mario. >> lo chiamò sottovoce, scuotendolo
sempre più forte
<< Mario, dai guardami. >>
chiamò sempre più forte.
<<
Dai, non sono più arrabbiata. >>
singhiozzò sforzando un
sorriso. Era incredibile, ma tutta la rabbia e la confusione nata sul
momento quasi le avevano fatto dimenticare cosa stava succedendo,
aveva veramente creduto di parlare con un vivo, aveva veramente
creduto fosse tutto un sogno, un'illusione. E ora...ora aveva tra le
mani il corpo del suo vecchio amico che non si muoveva. Non poteva
essere morto. No, stava dormendo. Sicuramente, ora avrebbe riaperto
gli occhi e l'avrebbe presa in giro per le sue sciocche lacrime.
Sarebbe andata così per forza.
<<
Dai, guardami. Mario... >> lo scosse ancora, sempre
più forte
<< Torniamo a casa. >> disse tornando pian
piano alla
realtà, rimettendo ordine nella confusione che si era creata
intorno
a lei, realizzando sempre più quello che veramente aveva
attorno.
<<
Ti prego, guardami. >> pianse a dirotto lasciandosi di
nuovo
cadere su di lui << Da sola non ce la faccio. Non
lasciarmi.
Non lasciatemi. Non ce la faccio. Ti prego, aiutami. Non lasciarmi
sola, non ne sono capace. Ci ho provato. Guarda come mi sono ridotta!
Non posso farcela da sola! >> ma tutte le preghiere
continuarono ad andare a vuoto, nessuna giunse a destinatario e
nessuna venne realizzata. Era sola, e non poteva fare niente per
tornare indietro.
<<
Non lasciatemi. >> disse ormai priva di forze, allentando
la
presa sull'abito dell'uomo e lasciando cadere la testa in avanti,
pesante.
<<
Mi mancate così tanto. >>
Pianse
a lungo, senza riuscire a fermarsi neanche un'istante, senza rendersi
conto del tempo che era passato, continuando a sperare di svegliarsi
da quell'incubo da un momento a un altro, senza però che
questo suo
profondo desiderio venisse realizzato.
Ma
le speranze erano vane, non era difficile capirlo: era difficile
accettarlo.
Alzò
gli occhi dal corpo del suo amico e si guardò attorno. Non
c'era
niente da fare. Tutto era perduto e lei era sola. Il campo intorno a
sè che aveva evitato di guardare era come aveva temuto:
ricoperto di
cadaveri. Riconobbe i loro volti, o almeno quelli che erano ancora
riconoscibili e non spappolati. Loro erano stati l'ultimo ricordo di
Alice prima di morire. Loro erano stati coloro che l'avevano uccisa.
E lì, in quel luogo, era nata dal sangue Ocean.
Si
alzò in piedi, stanca, e tornò a percorrere i
suoi passi,
lasciandosi alle spalle i cadaveri. Voltando nuovamente le spalle a
ciò che era stata, calpestando nuovamente Alice che aveva
tentato di
tornare disperatamente. Non c'era niente che poteva fare ormai. Le
cose erano andate in quel modo, il suo gruppo non
c'era più e
lei era sola. Era fuggita quella notte, quando tutto era finito,
ancora stava fuggendo e probabilmente mai avrebbe smesso.
Raggiunse
la stalla dove, come immaginava trovò Peggy infilata in
quello che
al tempo era stato il suo box. La fortuna l'aveva tenuta in vita,
proprio come la sua padrona. Ocean le si avvicinò e le fece
due
carezze, salutandola. Prese subito dalla sella il suo mantello,
finalmente avrebbe avuto qualcosa con cui coprirsi la notte per non
soffrire il freddo, e chiuse il box. Il sole era calato, la notte
stava prendendo possesso nuovamente di quella terra, e non c'era
altro da fare che aspettare. Si diresse verso l'uscita ma si
bloccò,
trattenuta da un pensiero, e voltò la testa verso sinistra,
guardando un ammasso di fieno accantonato lì. I suoi occhi
andarono
a posarsi su un oggetto e non sembrò per niente sorpresa di
trovarlo: lei l'aveva lasciato lì prima di andarsene
l'ultima volta
che era stata in quel luogo. Si avvicinò e lo prese tra le
dita: era
una collana rudimentale, fatta con un cordoncino e un grosso ciondolo
in legno. Lo accarezzò, togliendogli da sopra uno spesso
strato di
polvere e se lo rigirò tra le mani. Era un fiore, una
margherita,
con i piccoli petali attaccati a un gancio che permetteva di
staccarli. Alcuni già mancavano. Non era bello, ma questo
non le
importava e mai le aveva impedito di portarselo dietro. Lo
voltò
guardandone il retro e lesse la scritta incisa: "Remember the
time". Con un paio di righe, anch'esse incise, era stato
cancellato il "The time", lasciando solo
"Remember".
Ricorda.
Uscì dalla stalla avendo cura
di chiuderla bene, per evitare che qualche zombie durante la notte
avesse potuto intrufolarsi e far fuori l'unica amica rimasta. Poi si
diresse, lenta e pesante, verso la casa dove avrebbe affrontato
fantasmi e incubi. Sarebbe stata una lunga notte, quel luogo emanava
ricordi da ogni singolo angolo: ogni trave, ogni mattone o mobile
sussurrava parole al suo orecchio, e non sempre erano belle. Si
infilò il mantello, portandosi il cappuccio sopra la testa,
entrò
nella casa, chiudendosi la porta alle spalle, anche se sapeva era
tutto inutile: le finestre erano sfondate, chiunque poteva entrare. I
suoi passi fecero scricchiolare il pavimento, solo quel rumore
suggeriva la presenza di qualcuno. Anche lei quella sera faceva parte
dei fantasmi che infestavano quelle pareti. Scese in cantina, unico
posto rimasto sicuro dato che sotterraneo e di nuovo si chiuse la
porta alle spalle, bloccadola, in modo che se non fosse arrivata alla
mattina dopo non sarebbe stata colpa di zombie o persone, ma solo dei
fantasmi. Si fece luce con la torcia che aveva raccolto da sopra,
prima di scendere e raggiunse l'angolo più buio e umido di
tutta la
stanza. Si raggomitolò lì, con il ciondolo tra le
dita, e rimase
immobile ad aspettare il giorno, chiedendosi cosa avrebbe fatto poi.
Si sarebbe messa in sella della sua cavalla e sarebbe andata... non
aveva la più pallida idea di dove. Niente sembrava avere
più un
senso. Avrebbe continuato a vagare aspettando di essere uccisa, come
aveva fatto fino a quel momento. Ma questa non era una risposta.
La
notte stava risultando più rumorosa del previsto, e non solo
per i
versi degli zombie in lontananza, nel bosco, per le cicale o i gufi.
Come aveva immaginato tutto intorno a lei sussurrava e spaventava,
non facendola dormire.
E
stufa, dopo qualche ora di sopportazione, decise di ricorrere a
metodi drastici di sostegno. Ricordava che quando erano stati
lì,
dopo aver esplorato la casa, avevano trovato un piccolo tesoro
proprio lì in cantina. Accese la torcia e prese un piede di
porco
poggiato al muro poco lontano da lei. Con quello, usando tutta la
forza che aveva, caricando di nuovo i suoi colpi di rabbia per
potersi svuotare di tutto quel risentimento, colpì
ripetutamente un
piccolo armadietto in legno, infilando la sbarra metallica tra le
ante e riuscendo con della leva finalmente ad aprirlo. Delle
bottiglie caddero fuori, scivolando, non rompendosi per fortuna.
Ocean prese la prima che le capitò tra le mani, una delle
poche che
erano ancora quasi piena e ritornò nel suo angolino.
Aprì il tappo
e ne buttò giù un sorso, senza neanche
preoccuparsi di leggere cosa
avesse preso, ma riconoscendo dal sapore forte la Vodka. Fece una
smorfia e scosse la testa, frastornata da quell'improvviso sapore e
dal calore che subito le era salito dallo stomaco. Si
sistemò come
megliò potè e continuò a bere,
cercando di portarsi sempre più
oltre, aspettando con ansia i primi capogiri che avrebbero zittito
tutti quei sussurri così fastidiosi e che li avrebbero
tenuti a bada
per il resto della notte.
<<
Quel rompipalle sarà solo un brutto ricordo.
>> disse Daryl a
Rick, entrambi sulla veranda della fattoria di Hershel, sguardo
all'orizzonte e una mappa sotto le loro mani, intenti a decidere dove
avrebbero mollato Randall. Perchè era quello ora il piano,
in onore
di Dale, avrebbero tenuto Randall in vita. Lo avrebbero lasciato da
qualche parte, lontano dalla fattoria, dandogli una speranza, ma
lontano da loro.
<<
Carol sta preparando per lui delle provviste. Saranno abbastanza per
qualche giorno. >> disse Rick, guardandosi attorno,
contemplando quella che era diventata finalmente casa loro.
Lì
sarebbe stati al sicuro, lì il loro bambino avrebbe potuto
vivere.
Bastava solo rendere il confine ancora più sicuro, fare
turni di
guardia e restare sempre ben armati. Potevano farcela. Aveva fiducia.
Shane
arrivò con la macchina, il bagagliaio aperto, sempre intento
nel
loro trascolo, e dopo essere sceso si avvicinò a Rick. Daryl
non
aveva nessuna intenzione di stare lì, ad ascoltare
quell'uomo
blaterare, e sicuramente era con Rick che voleva parlare,
perciò si
alzò e si allontanò con la scusa più
banale del mondo <<
Vado a pisciare. >> facendo trapelare tutto il suo
fastidio in
quelle parole. Entrò in casa e si diresse verso il bagno,
con la
mano già poggiata ai pantaloni, pronto a slacciarseli,
quando Andrea
aprì la porta dietro di lui, la fretta nei movimenti e negli
occhi
una strana luce << Presto, vieni! >> disse
accennando un
sorriso, e uscendo di nuovo. Daryl rimase per un po' immobile,
chiedendosi cosa diavolo volesse, cosa stesse succedendo, poi la
raggiunse non dimostrando la fretta che poteva avere invece la donna.
Uscì
fuori, Andrea era già corsa poco lontano, in fondo alle
scale della
verandina c'era Carol e vicino a lui, sulla porta invece Hershel con
uno scatolone in mano. Tutti però guardavano una sola
direzione e fu
in quella direzione che anche Daryl rivolse il suo sguardo, restando
dapprima perplesso, chiedendosi se i suoi occhi non lo stessero
ingannando, poi sorpreso, sollevato...in qualche modo era addirittura
felice.
<<
Qualcuno sentiva la nostra mancanza. >>
ridacchiò Hershel
prima di voltarsi per entrare in casa dove avrebbe portato lo
scatolone. Daryl guardò la figura nera a cavallo che si
avvicinava
alla casa e fece qualche passo in avanti. Era davvero lei? Era viva?
Possibile?! E...stava tornando. Poi qualcosa tranciò di
netto tutta
la possibile gioia che poteva nascere dalla scoperta: la figura a
cavallo, che solo allora notò traballava e ciondolava,
scivolò
dalla sella e cadde a terra.
<<
Non sta bene! >> sussultò Carol cominciando a
correre verso di
lei, dietro ad Andrea e seguita subito anche da Daryl. T-Dog
arrivò
in quel momento e vedendo correre via Daryl si pose mille
interrogativi, si voltò verso Hershel che era uscito di
nuovo e gli
chiese non capendo << Ma che succede? >>
<<
Succede che non smetto mai di lavorare. >>
constatò il vecchio
guardando la scena in lontananza. Andrea fu la prima ad arrivare
dalla ragazza ed inchinarsi su di lei, rivolgendole qualche parola,
richiamandola. Daryl arrivò subito dopo e anche lui si
inginocchiò
a guardarla. Era ridotta a uno straccio, con una guancia gonfia, dei
tagli in viso, un livido sul collo e chissà quali altre
ferite
sparse per il corpo. Ma la cosa che più colpiva tutti quanti
era la
terribile puzza di alcol che emanava, e solo allora videro che dalle
dita le era scivolata via una bottiglia di Vodka quasi vuota.
<< Cosa cazzo ti è successo?! >>
chiese Daryl retoricamente
mentre si chinava su di lei e le infilava un braccio sotto al collo,
per poterla sollevare, prendere in braccio e portare in casa.
<<
Ehy, D. >> bofonchiò Ocean, dimostrando di
essere sveglia
nonostante gli occhi chiusi e la completa assenza di energie.
Provò
a ridere ma le uscirono dalla gola solo colpi di tosse <<
Ti
puzza l'alito. >> sorrise e si lasciò andare,
fece un ultimo
sospiro, prima di rilassarsi completamente sorretta dal braccio di
Daryl, lasciando cadere la testa di lato.
<<
E' morta? >> chiese spaventata Carol, giungendo solo in
quel
momento e vedendo la ragazza così abbandonata e ridotta in
quelle
pessime condizioni. Daryl le infilò l'altro braccio sotto le
gambe e
la sollevò, alzandosi. Guardò Carol, cercando di
nascondere un
sorriso, ma senza riuscirci bene e le disse << Sta
dormendo. >>
Ed
era vero. Ocean aveva resistito, cercando di restare in sella fino a
quando non era entrata nella proprietà di Hershel. Quando
aveva
notato che l'avevano vista si era lasciata andare, ormai stremata, ed
era caduta a terra. Ma la tranquillità che le aveva permesso
di
addormentarsi e riposarsi era arrivata solo quando aveva sentito la
voce di Daryl: era vivo, ce l'aveva fatta, e ora finalmente non era
più sola. Un grosso peso le era scivolato via. Ora stava
bene. E
aveva voluto farlo sapere al suo amico nella sua personalissima
maniera, continuando a emanare orgoglio e sarcasmo. Finchè
aveva la
forza di far battute voleva dire che stava bene.
Daryl
passò di fianco a Carol, e la donna notò che
anche Ocean stava
sorridendo nonostante il profondo sonno in cui sembrava essere
crollata. Era ridotta malissimo, ma nonostante questo il suo volto
emanava pace e serenità, la stessa pace che era possibile
godere
alla fine di una lunga e violenta tempesta, quando ormai le nuvole si
diradano e lasciano spazio a un bellissimo arcobaleno.
<<
Guarda, te lo ripeto ancora una volta! >> una voce
limpida
diradò un po' l'oscurità che aveva attorno a
sè. Sentì pian piano
riprendere la sensibilità del proprio corpo, cominciando
dapprima a
sentir dolori, poi le dita dei piedi che formicolavano.
<<
Io muovo questo così! E quindi ho vinto io. >>
di nuovo la
cristallina e delicata voce femminile che pian piano l'afferrava,
stringendole delicatamente la mano e che la tirava a sè.
<<
Così allora ho vinto io. >> a parlare questa
volta non fu la
voce femminile, ma un'altra più roca, bassa, un po'
raschiante e
sicuramente maschile. Non fu difficile riconoscerla. Le scaldava il
cuore.
<<
Ma no!!! Non capisci proprio niente! >> non aveva idea di
chi
fosse la voce, ma era così dolce e l'affermazione appena
fatta, con
tutta la singolare rabbia che conteneva, la fece sorridere,
divertita. Aprì lentamente gli occhi curiosa di capire chi
stesse
urlando nelle sue orecchie aggiungendo mal di testa a quello
già
presente, e prima di trovar risposta non riuscì a trattenere
un
bofonchiato << Lo dico sempre anche io. >>
Il
silenzio calò per qualche secondo, il tempo di assicurarsi
fosse
stata davvero lei a parlare. Ocean riuscì ad aprire gli
occhi e le
figure appannate davanti a sè presero pian piano una forma
più
definita: Daryl e Molly erano seduti ai due capi di un piccolo
tavolino, vicino a lei, che invece si trovava stesa su di un letto.
Non ricordava niente di quanto successo e non aveva la più
pallida
idea di come fosse finita lì. L'ultima cosa che ricordava
era Mario
steso a terra, che dormiva, ma che non si svegliava nonostante le sue
urla. Forse poi aveva perso i sensi per colpa di tutte quelle ferite.
Molly spalancò gli occhi e sorrise come poche volte Ocean
aveva
visto fare a qualcuno << Ti sei svegliata!!
>> urlò
prima di alzarsi e correre sul letto vicino a lei, facendola
sobbalzare e gemere per i dolori che sentiva praticamente ovunque. Si
poggiò su un braccio e cercò di sollevarsi a
sedere, facendo fatica
ma riuscendo. Sentiva la spalla sinistra pulsare e tutto il resto del
corpo formicolare.
<<
Daryl non voleva che venissimo qui a giocare, diceva ti avremmo
svegliata, ma io volevo aspettare qui! >>
comunicò Molly piena
di entusiasmo e un po' contrariata dal divieto che aveva cercato di
imporle il ragazzo.
<<
Ma, nonostante il fracasso che facevamo, continuavi a russare come un
ubriacone. >> le comunicò Daryl prendendola un
po' in giro.
Ocean si limitò a guardarlo contrariata, era un po' stanca e
aveva
poca voglia di parlare. La gola le faceva ancora malissimo.
<<
Vado a dire ad Hershel che sei sveglia. Vorrà controllarti.
>>
disse poi lui alzandosi e uscendo dalla stanza, lasciando le due
sole.
<<
Hershel è il dottore! >> disse Molly sedendosi
con le gambe
incrociate vicino alla ragazza << Però secondo
me non è
proprio un vero dottore. >> sussurrò
guardandosi attorno, come
se avesse detto un segreto. Ocean la guardò interrogativa,
aspettando le spiegazioni che non tardarono ad arrivare
<< Mi
ha dato della cioccolata! La mamma mi diceva sempre che la cioccolata
fa venire il mal di pancia. Se era un vero dottore doveva saperlo.
>>
Ocean non riuscì a trattenere delle risa alla spiegazione
della
bambina. Non faceva una piega, ed era proprio per questo che faceva
ridere. La gola non le diede però la possibilità
di ridere come
voleva e si ritrovò subito a tossire violentemente. Molly si
alzò e
andò vicino al comodino. Prese con entrambe le mani la
bottiglia
dell'acqua, troppo grande per lei, e ne versò un po' dentro
un
bicchiere, facendone cadere maldestramente qualche goccia intorno.
Poi prese il bicchiere e lo diede alla ragazza << Tieni.
>>
disse assumendo l'espressione un po' preoccupata. Ocean sorrise
teneramente, afferrò il bicchiere e buttò
giù il contenuto tutto
d'un sorso rendendosi conto solo in quel momento dell'incredibile
sete che aveva. Riprese fiato, finito di bere e porse di nuovo il
bicchiere alla bimba ringraziando.
<<
Ne vuoi ancora? >> chiese premurosa Molly e Ocean
annuì. La
piccola infermierina servì ben 4 bicchieri d'acqua alla sua
paziente
prima che la porta si aprisse e Hershel facesse capolino. Sorrise
alla bambina prima di dirle << Puoi lasciarci soli,
Molly? >>
Molly guardò Ocean, chiedendo con gli occhi il permesso di
restare,
sperando fosse lei stessa a dire "No, lasciala qui". Ma
Ocean annuì, facendo intuire di dar ascolto al dottore e la
bimba
uscì dalla stanza sbuffando, chiudendosi poi la porta alle
spalle.
Hershel
si avvicinò alla nuova paziente e si mise a sedere vicino al
letto
<< Ti aspettava. Pensa che tu sia andata a cercare i suoi
genitori. >> disse << Dovremo poi trovare
il modo di
dirle che non li hai trovati. Prima o poi dovrà sapere di
essere
rimasta sola. >> c'era tanta tristezza nelle parole del
dottore. E Ocean abbassò gli occhi, riempiendosi della
stessavtristezza. Sapeva cosa voleva dire restare soli, senza
più le
tue ancore di salvezza, senza più qualcuno che ti abbracci e
ti
protegga.
<<
E se non fossi tornata? >> chiese Ocean pensando ad alta
voce.
La stava aspettando. E la sua intenzione era quella di non tornare.
Le avrebbe fatto ancora più del male.
<<
Beh, allora le brutte notizie sarebbero state due. Ma ora tu sei qui,
e questo è già una buona cosa. >>
Ocean non era proprio
d'accordo. C'era qualcosa che non le dava pace. Non era sicura che
tornare fosse stata una buona idea.
<<
Che cosa è successo? >> chiese confusa,
sperando almeno il
vecchio potesse informarla sul grosso buco nero che aveva in testa.
<<
Io non ne ho idea. >> disse Hershel con tono ovvio
<< So
solo quello che ho visto: che hai varcato i confini della mia
fattoria in groppa alla tua Peggy ubriaca fradicia. >>
<<
Ubriaca? >> chiese Ocean mettendo al giusto posto la
notizia.
Si portò una mano alla fronte rendendosi conto solo in quel
momento
che era fasciata << Ora è tutto chiaro.
>>
Hershel
fece una breve pausa prima si raddrizzarsi sulla sedia, fare un
sospiro e infilare la mano in una tasca della sua camicia. Ne
estrasse un piccolo flaconcino che ancora risuonava di qualche
pasticca.
<<
Ho trovato questo >> disse semplicemente porgendo il
flaconcino
a Ocean per mostrarglielo. Erano gli antibiotici che aveva trovato
nella casa nel bosco.
<<
Ocean, quanti ne hai presi? >> chiese visibilmente
preoccupato.
Ocean non rispose subito, cercando di capire negli occhi del dottore
cosa stesse cercando di dirle. E non ci mise molto ad arrivare alla
risposta. Hershel temeva Ocean avesse cercato di suicidarsi prendendo
troppe pillole, e magari peggiorando la situazione con l'assunzione
di alcol.
<<
Non abbastanza. >> si limitò lei a rispondere,
acida, un po'
provocatoria, forse infastidita per il tipo di supposizione che aveva
fatto il dottore, ma cercando lo stesso di tranquillizzarlo ed
evitare di urlare al suicidio.
<<
Bene. >> rispose Hershel infilandosi nuovamente il
flaconcino
in tasca, sollevato dalla risposta << Non voglio dirti
cosa
fare della tua vita, Ocean, ci conosciamo appena e oltretutto non mi
permetto di dire alle mie figlie cosa fare della propria,
figuriamoci. Non so cosa ti sia successo, e non pretendo di saperlo,
capisco possa essere doloroso rievocare, io stesso provo queste cose.
Ma vorrei solo farti notare che se l'ebrezza dell'alcol, dopo aver
ofuscato la tua coscienza, ti ha riportato qui forse un motivo
c'è.
Cerca di riflettere bene su questo, perchè forse potrebbe
essere il
tuo appiglio per il futuro. >>
<<
Non volevo suicidarmi, dottore. Non c'è bisogno venga tu a
dirmi che
farmene del mio futuro. >> rispose ancora acida. Odiava
le
lezioni di vita, soprattutto se a impartirgliele era qualcuno che
neanche sapeva qual era il suo nome.
<<
Era solo un consiglio. Decidi tu che fartene. >> rispose
Hershel con tranquillità prima di alzarsi e andare a
prendere le sue
cose da medico. Era un uomo tutto d'un pezzo, sapeva qual'era il suo
posto, e questo gli faceva onore. Come spesso accadeva, la vecchiaia
oltre ai capelli bianchi gli aveva portato anche una buona dose di
saggezza. Come quel Dale. Ed era una qualità che Ocean
apprezzava
molto. Il resto della visita si svolse in assoluto silenzio. Hershel
cambiò le bende a Ocean, disinfettando ancora,
somministrandole
alcuni farmaci e ordinandole di bere e mangiare. Poi uscì,
lasciandola sola. Ocean si alzò dal letto, sentendo dolore a
qualsiasi movimento, ma non abbastanza da fermarla. Non se ne sarebbe
stata chiusa in quella stanza a dormire come se fosse stata in un
hotel. Si avvicinò alla finestra e guardò fuori:
alcuni membri del
gruppo erano intenti a sistemare delle cose su di una macchina, altri
vagavano chiacchierando tra loro e poi c'era Carl, seduto all'ombra
di un albero, che accarezzava Max, anche lui steso lì sotto,
con una
zampa fasciata. Un sorriso le si dipinse in viso: era vivo! Daryl era
tornato ed era riuscito a salvarlo. Non aveva deluso le sue
aspettative. Il suo più caro amico era ancora con lei, e
doveva
tutto a quel scorbutico ometto infighettato che tanto diceva di
disprezzare. Gli era molto grata. Aveva fatto molto più lui
in quei
4 o 5 giorni che chiunque altro in tutta la sua vita.
Aveva
trovato il motivo per cui era tornata.
Hershel
aveva ragione.
Ora
vedeva qualcosa. Era stata 3 giorni sola, con davanti a sè
solo buio
e morte, ma ora, davanti a quella finestra, spettatrice di scene di
quotidiana felicità in cui era visibile anche il suo
migliore amico,
scene che non credeva sarebbero mai state possibili, vedeva la strada
che doveva percorrere. Non voleva più stare sola, la
solitudine
l'aveva quasi uccisa, aveva bisogno di essere scaldata dal calore
delle persone, aveva bisogno di qualcuno che la sollevasse quando
cadeva e che l'abbracciasse quando aveva freddo. Guardò le
persone
che come formiche si affaccendavano sotto di lei, in quel campo,
fregandosene di avere progetti sul futuro, intente solo a sostenersi
l'uno con l'altro e sorrise trovando tutto ciò bellissimo.
<<
Voglio restare qui. >> mugolò mentre si
asciugava una lacrima
col dorso della mano. Per la prima volta dopo tanto tempo le lacrime
che percorrevano il suo viso erano così calde, colme di
gioia. Si
era dimenticata che era possibile piangere di gioia.
Aveva
finalmente chiuso quella porta alle sue spalle che a lungo l'aveva
infreddolita con la sua corrente. Era finalmente pronta ad aprire
un'altra porta, varcarla nella speranza di trovare dall'altro lato
sole, fiori e farfalle.
Vide
Molly scendere le scale della verandina di corsa, facendo svolazzare
la sua gonna arancione e dirigersi velocemente verso Daryl, piena di
energia e vitalità. Lo afferrò per il lembo del
gilet e lo
strattonò per richiamare la sua attenzione. Lui la
guardò, e lei
gli disse qualcosa, che Ocean non potè sentire, dondolando
sui
piedi, non riuscendo proprio a stare ferma. Era così tenera.
Daryl
le fece cenno con la testa verso Carl e Max, aprendo appena le
labbra, probabilmente dando una risposta secca e netta alla bambina,
che guardò nella direzione indicata e corse verso essa,
urlando
qualcosa, forse chiamandoli e mettendosi poi vicino a loro,
sorridente e chiacchierona. Ocean la trovò così
tenera. Era la nota
dissonante in tutto quello, era la stella che brillava nelle notti
più buie e illuminava la via dei viandanti.
Daryl,
dopo averla seguita con lo sguardo, tornò al suo lavoro di
allestimento della macchina, preparandola per chissà che
cosa, ma
prima gli occhi andarono senza un motivo ben preciso alla finestra in
alto, vedendo la ragazza dietro al vetro. Tenne gli occhi fissi su di
lei per qualche secondo, senza far trapelare nessun pensiero dal suo
sguardo di ghiaccio, poi tornò al suo lavoro.
Ocean
si allontanò dalla finestra ormai alleggerita di qualsiasi
peso
avesse potuto avere sulle spalle fino a quella mattina. Si diede
un'occhiata addosso: era ricoperta di lividi, e dove non c'erano
lividi c'erano cerotti e bende. Sembrava appena uscita dal macello.
Ma la cosa non le pesava più.
Prese
i suoi abiti, puliti alla ben e meglio e ricuciti, poggiati sulla
sedia. Qualcuno si era preso la briga di ripulirli, senza
però
trattenerli a lungo, dandole modo di ritrovarli al risveglio, e di
sistemare i vari buchi che ormai lo tappezzavano ovunque. Si
rivestì
con cautela e lentezza, cercando di stringere i denti ai vari
doloretti. Riusciva a camminare, anche se zoppicante, e questo era
l'importante. Non voleva starsene chiusa lì. C'era una cosa
che
doveva assolutamente fare o sarebbe stata soffocata dal dubbio.
Doveva parlare con Rick. Non voleva autoinvitarsi all'interno del
gruppo, senza averne il permesso. E si sarebbe impegnata per
ottenerlo, rimediando ai suoi precedenti errori. Non voleva tornare
sola, anche se aveva sempre insitito per farlo. Probabilmente avrebbe
sempre convissuto con le sue paure, col timore di essere abbandonata
di nuovo, di affezionarsi e vedere tutto svanire di nuovo, ma la
paura c'era anche quando era sola ed era anzi anche più
terribile.
Lì almeno avrebbe per un po' provato l'ebrezza di sperare,
di nuovo.
E qualcosa era cambiato: non era più la ragazzina debole,
intimorita
e indifesa che sapeva solo scappare. Ora sapeva combattere, e
l'avrebbe fatto. Aveva paura di essere felice, la caduta sarebbe
stata più dura poi, ma alla fine aveva ceduto al bisogno di
prendere
fiato ogni tanto.
Avrebbe smesso di vagare senza meta, aspettando
di essere uccisa. Ora avrebbe avuto uno scopo: aiutare gli altri,
tenerli in vita. Questo era l'appiglio a cui si sarebbe aggrappata
per il futuro. Avere un motivo per vivere rendeva tutto più
semplice.
Non
uscì subito, prima aveva bisogno di togliersi un altro
sassolino
dalla scarpa. Per ricominciare da capo bisognava prima mettere un
punto a tutto ciò che c'era stato prima. Aprì i
vari cassetti
presenti nella stanza, comò e comodini, e trovò
quello di cui aveva
bisogno: carta e penna. Si inginocchiò vicino al comodino,
poggiando
la carta lì e cominciò a scrivere.
"Claudio.
Mario.
Federico.
Gabriele.
Marta.
Luca.
Lorenzo.
Simone.
Susy.
Nicola.
Micky.
Manuele.
Alice.
Domus est ubi cor est!"
Fece
un sospiro, mandando via il peso che stava nuovamente cercando di
attanagliarle il cuore. Arrotolò il foglietto, prese la
bottiglia
che conteneva ancora un po' di acqua e la svuotò, bevendo il
resto.
Poi infilò dentro il biglietto arrotolato. Si
alzò, mugolando
ancora per il dolore, e si diresse verso il tavolino dove c'erano
sistemate le cose che teneva alla cintura: le sue armi e il ciondolo
trovato alla fattoria. Staccò uno dei suoi petali, sforzando
il
polso e tornò alla sua bottiglia. Lo infilo dentro, insieme
al
foglietto e infine la chiuse col suo tappo.
Appena
si sarebbe rimessa in forza avrebbe ripreso ogni tanto a vagare
intorno a quella zona, esplorando, cercando magari qualcosa di utile,
come sempre aveva fatto, e al primo corso d'acqua che avrebbe trovato
ce l'avrebbe buttata dentro confidando che tutti i fiumi sfociano
nell'Oceano.
Loro
erano i suoi morti.
Loro
sarebbero tornati a casa.
Insieme.
Domus
est ubi cor est: Casa è dove si trova il cuore.
(Plinio il Vecchio)