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Autore: Ernst Schmitt    08/01/2015    1 recensioni
E se innanzi le mura del Nero Cancello le fila dell'ultimo esercito degli uomini fossero state spezzate?
Coloro che gli sono sopravvissuti, orfani di speranze ed eroi, marciano in solitudine all'ombra dell'apocalisse.
L'unico è tornato all'unico. È l'anno zero di una nuova Era.
In quest'ucronia Tolkeniana che abbiamo disegnato gettiamo uno sguardo dall'interno su alcune delle vite degli involontari testimoni di Arda al di là delle Ere, alla fine dei tempi.
Genere: Guerra, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Giorno quattro, Minas Tirith

E’ notte e sono fermo al margine dell’incrocio di due strette viuzze del primo livello di Minas Tirith, una bianca città incastonata lungo il margine di due mondi in eterna lotta tra loro. Il freddo pungente mi si insinua tra le fessure della cappa il cui bavero cerco di mantenere alto nel tentativo di opporvi una flebile resistenza, mentre con lo sguardo accompagno le sagome di un gruppetto di guardie al di là di un edificio non troppo distante. E’ tardi. Ma per qualcuno è presto, abbastanza almeno per cominciare a lavorare, come per la taverna alle mie spalle, le cui porte di legno fradicio si aprono e si chiudono con lenti movimenti meccanici al passaggio degli avventori notturni. Non ho il tempo di voltarmi che il calore del posto mi ha già proiettato al suo interno. Un paio di addetti alla ristrutturazione delle mura sono appoggiati al bancone, intenti a godersi a piccoli sorsi uno dei pochi, sudati, piaceri della loro giornata. Mi soffermo a studiarne i volti scavati dalla fatica scandire profonde risate ad un ritmo costante e penso, mentre mi siedo schivo ad un tavolo, che solitamente le brevi felicità fanno da intermezzo ad estese sofferenze. «Il suo vino» irrompe con un vivace sorriso la cameriera. Abbozzo un’espressione allegra, cercando di liberarmi di quel velo di amarezza che mi stringe il petto «Grazie» rispondo incrociandone lo sguardo. E’ bella come solo una donna può esserlo. E sono dello stato d’animo giusto per potermi innamorare. Mi accade spesso. Di innamorarmi, s’intende. Forse a quel grazie dovrei aggiungere qualcosa, eppure quell’impulso mi muore in gola poco prima che possa trasformarsi in suono. A lei non resta altro che rompere quel contatto con la stessa naturalezza con la quale vado a recuperare una manciata di tabacco dal pacchetto infilato tra le pieghe del soprabito. Socchiudo gli occhi e cerco di rievocare i lineamenti del viso appena fuggito, ma un frammento di carta scivolatomi dalla tasca attira la mia attenzione. A che bicchiere sono? Ho smesso di contare al quinto. Sul foglietto scorgo un indirizzo annotato in una calligrafia illeggibile per molti, ma non per me. È la mia. Sospiro, rificcando quella testimonianza della mia vita diurna là da dove era spuntata. Quando la conferma della disfatta del nostro esercito è infine giunta, abbiamo abbandonato Cair Andros in tutta fretta e ci siamo ritirati nella capitale. Almeno gli uomini saranno al fianco dei loro cari quando l'ombra si abbatterà su di noi. Un leggero formicolio alle gambe mi informa che è giunto il momento di alzarmi e di concedere una breve pausa al fegato ormai duramente provato. Ripasso dall’ingresso per pagare quanto dovuto e lascio scorrere sulla lignea superficie un paio di monete, coprendo con un lembo di stoffa il petto sul quale vesto l'armatura della guardia della cittadella. Ma sono distratto. È già tanto se mi reggo in piedi. L’occhio dell’uomo di mezza età alle spalle del bancone intravede il metallo e l'albero stilizzato su di esso forgiato, capisce, alza lo sguardo «Offre la casa!» esclama poi, accendendosi in viso di un sorriso reverenziale. Non ho la forza di replicare, ringrazio con un debole cenno della testa e sono fuori, tra le vie di Minas Tirith.

Sono le cinque del mattino e nel camminare la mia ombra si getta avanti ai miei piedi ironicamente maestosa, disegnata dalla pallida luce che prova a sorgermi alle spalle. Un uomo di una certa età costeggia la strada senza meta, invisibile anche nell'ora in cui vagano gli invisibili «Hai dell'erba pipa?» domanda, e così gliene porgo una generosa manciata prima che possa salutarmi con un tono talmente sereno da lasciarmi interdetto. Il respiro mi si smorza nel petto «Buona giornata» rispondo e se solo ne fossi ancora in grado piangerei. Grigi edifici residenziali fanno da parete alla via che percorro, identica a decine di altre che si diramano su per tutta la superficie della città. Questa zona mi è quasi del tutto sconosciuta. Vorrei che l'alcol mi aiutasse a cancellare il ricordo del motivo per il quale sono qui. Ma non posso. Ripesco con due dita il fogliettino e ne rileggo l'indirizzo appuntatovi. Alzo poi lo sguardo confrontandolo con l'anonimo ingresso che mi si para difronte. Mi ci accosto con passo deciso e punto lo sguardo sulla porta di legno rozzamente intagliata sulla quale lascio stancamente abbattere il mio pugno rigidamente serrato.

«Sono il Capitano Thun, aprite!»

Avverto lo sferragliare del chiavistello al di là della porta. Il contorno di un soldato in armatura alto un palmo più di me lascia scorrere l'anta quel tanto da permettergli di gettare uno sguardo su di me e sulla strada.

«Capitano, finalmente è arrivato»

Mi infilo nello spiraglio e sono dentro una catapecchia costituita da un paio di stanzoni. Lungo le pareti, sedute su alcune sedie, vi sono una decina di prostitute di età e costituzione estremamente diverse. Un paio di soldati, oltre a quello di guardia all'ingresso, tengono d'occhio la situazione. Attraverso il varco che mi separa dalla seconda sala, decisamente più spaziosa della prima. L'aria è carica di un odore di incenso e candele talmente intenso da paralizzarmi per un istante. Stoffe di fattura orientale consumate dal tempo e annerite dai fumi penzolano dal soffitto a separare i giacigli sui quali si consuma l'amore a pagamento. Il silenzio sarebbe assoluto se non riecheggiassero in un eco lontano le voci delle donne nella sala d'ingresso. Un cadavere mi attende nella terza alcova. Le vene dei polsi sono recise ed il sangue copiosamente versato, raccolto in due tinozze. Il volto dell'uomo è contratto in una smorfia non di dolore, ma di un terrore antico e profondo. Mi porto una mano al viso e faccio qualche passo indietro. Senza rendermene conto sono ritornato nella prima sala, dove niente sembra essere cambiato.

«Seppellite il cadavere e non fatene parola con anima viva. Se si dovesse venire a sapere che il Reggente si è tolto la vita, la città cadrebbe nel panico più di quanto già non sia»

Sono le uniche parole che riesco a sussurrare alla guardia alla porta prima di uscire nella stradina dove già s'affacciano timidamente le prime luci dell'alba di un nuovo giorno.

   
 
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