EPILOGO:
L’ORDINE
DELLE COSE
Mio
padre adorava quella scrivania, forse perché la prese con un anticipo di poche
settimane dalla morte della mamma. Il sorriso di lei mi sfiorò le mente mentre
abbassavo il coltello d’intaglio segnando anche quella superficie, lentamente,
con chirurgica freddezza. Ignoravo che i mobili di quella scenografia non
appartenevano all’uomo che ricordavo. Da dove mi trovavo, lì su un lato del tavolo
da lavoro, la linea che saliva sulla parete di fronte a me era in perfetta
parità con quella che incidevo.
Sullivan
sedeva lì dietro, le braccia abbandonate sui fianchi e il capo reclinato su una
spalla. I suoi occhi sgranati esprimevano l’immobilità di una bambola di pezza.
Si era presentato due mesi prima dalla Powell, sfilandosi il cappello mentre
entrava e sfoggiando nel contempo quel grande e pieno sorriso degno di ogni
americano. “Buongiorno”, aveva detto, la pronuncia
masticata quanto bastava per farmi capire che non era di Londra. E io l’avevo guardato, avevo visto
la terribile somiglianza con George Patrick. Cecil non voleva continuare a scrivere,
benché io glielo chiedessi con insistenza. Diceva che era tutto troppo
violento, che sembrava un’accusa a chi il denaro lo ha ma non vuole spartirlo. Non
potevo dirgli che leggere quella storia su carta avrebbe potuto salvare me dal
mio bisogno di espressione. Se solo l’avesse conclusa, non mi sarei mai ridotto
a questa soluzione.
Adoravo
lo zio. Era sempre stato così gentile con me, così presente, benché non fosse
ricco, benché non avesse moglie e figli. Non mi aveva mai detto della profonda
invidia che provava per papà, che aveva tutto quel che lui desiderava: denaro,
famiglia, stabilità. Solo crescendo avevo capito che gli aveva sparato in
fronte perché era un debole e altro non poteva fare. Ricordavo ancora il
momento in cui era entrato con papà, quello in cui avevano preso a discutere. E
poi la pistola gli era comparsa in mano, così, e gli aveva sparato, un colpo
solo, dritto in testa, e un ventaglio rosso era esploso sulla parete dietro a
mio padre e io avevo visto tutto, vedevo dietro la griglia delle ante. Allora mi
ero raggomitolato in un angolo senza fare rumore, le braccia attorno al corpo,
e c’era un singulto, in gola, un nodo di fuoco che mandai giù a forza, con
tanta rabbia da farmi male.
Fu
allora che cominciai a chiedermi cosa si muove dietro alle righe di una trama a
griglia. Ci si guarda attraverso, ad un motivo del genere, ma non sai cosa c’è
là dietro i contorni scuri dei quadrati o dei rombi. Forse il mondo smette di
esistere? Forse, dietro le linee che ti impediscono la vista, la realtà è
grigia, vuota, e continua a scorrere solo negli spazi che riesci a vedere? Mentre
estraeva la pistola, lo zio era così irreale, tante erano le righe che lo
scomponevano. E così era papà, così pure l’ufficio, così tutto quel che era lì
dentro con loro.
Il
coltello lavorò bene anche sull’americano. Fu un poco più difficile mantenere
quella geometria, fare in modo che le linee sulle pareti e sui mobili
combaciassero, ma ce la feci. Impiegai tutto il pomeriggio, non avevo fretta.
Nessun altro occupava la palazzina e c’erano ben poche possibilità che qualcuno
avesse udito il colpo.
La
famiglia che mi aveva adottato desiderava davvero che diventassi un poliziotto.
Mi avevano battezzato, mi avevano costretto a portare il loro cognome, ma quel
che provavo per loro era affetto sincero. Mi avevano portato via da quel
ricordo, per qualche anno avevo persino creduto di aver scordato quella griglia
scura e il delitto che dietro si era consumato. Cecil Goldwine era stato un
incontro non programmato; ci conoscemmo a teatro, perché a lui piaceva così
come piaceva a me. Adorava Shakespeare e Oscar Wilde. Poi scoprii che scriveva,
che sognava la stessa carriera, e allora gli avevo consigliato una tragedia.
L’idea gli piacque, all’inizio.
Tagliai
e incisi fino a sera. Benché mi fossi dovuto spostare per tracciare ogni linea,
sapevo che la griglia era perfetta da una sola angolazione. Avevo lavorato con
solo quell’immagine in testa e ora mi meritavo il posto d’onore. Così mi
spostai su un lato della scrivania, lì davanti all’armadio in cui anni prima mi
ero nascosto, e vidi che le righe parlavano, esprimevano una rigida e
frastornante eloquenza. Quella geometria, se in un primo momento mi disse che
era stato bravo, che lo ero stato davvero, un secondo più tardi mi artigliò la
coscienza con le gelide dita dello sconforto.
Forse
così si era sentito lo zio. Dio, avevo ucciso un uomo. Avevo ucciso un uomo
innocente, quasi per certo con una famiglia, con tanto denaro. Avevo ucciso, ma
questa volta sapevo che forse qualcuno aveva visto qualcosa. Dentro all’armadio,
quel guscio di noce. Mi pulii la mano insanguinata sui pantaloni prima di
voltarmi e portarla sulla maniglia di legno. Poi, dopo un respiro, lo aprii. Là
dentro non c’era nessuno. Non esisteva più quel bambino che si era
raggomitolato sul fondo con, nella gola, un grido strozzato e un conato di
pianto. Fu più forte di me.
Rimasi
a guardare l’interno buio per un altro pugno di secondi, poi richiusi l’anta,
mi voltai, mi lasciai scivolare a terra, la schiena contro l’armadio e le
ginocchia piegate.
«Papà», biascicai. La voce flebile, vulnerabile.
In una mano reggevo il coltello imbrattato di schegge di legno e sangue.
Piangevo.
Nel
momento in cui poggiai la nuca contro l’armadio e chiusi gli occhi, scoprii che
la griglia che mi aveva tormentato non c’era più. Ora, nel buio, riuscivo a vedere
tutto quanto.
2.
Non era inusuale che i
treni fossero in ritardo. Cecil ne aveva presi pochi in vita sua, ma quelle
esperienze gli erano bastate per scendere a patti con il destino. Così si era
arreso e si era sistemato sul suo bagaglio, gomiti sulle ginocchia e pugni
sotto al mento, ignorando i sedili liberi che tappezzavano la banchina.
Per un istante il
silenzio di quegli attimi lo riportò indietro, a due settimane prima, quando
Marcel era uscito di scena come desiderava. No, non Marcel, si corresse. Peter,
Peter Moore. C’era stata una frazione di nulla prima dello sparo e per un
momento aveva creduto che a premere il grilletto fosse stato Barrymore. Non se
ne sarebbe nemmeno sorpreso: l’abito non fa il monaco, e quell’investigatore,
immaginava, doveva razionare la pazienza come polvere d’oro. Non poteva dire di
conoscerlo, ma la breve collaborazione con lui gli aveva fatto capire che
quell’uomo la fermezza la tarava con un metaforico contagocce. Gli sarebbe
quindi parso ragionevole che fosse stato lui a sparare per primo, vuoi per
intenzione vera e propria, vuoi perché l’indice gli si era irrigidito
d’istinto.
Invece no. Barrymore
non aveva mosso un muscolo e la pistola di Moore aveva tuonato per prima. Lì
nell’aria a tratti affannata di quella piccola stazione di periferia, Cecil si
ricordò di come l’esplosione si era infranta sulle pareti, su fino alla cupola,
prima di sbriciolarsi verso il basso in invisibili schegge di vetro. Gli erano
ronzate le orecchie, una volta, violentemente. L’eco l’aveva reso sordo alle
grida che si erano alzate quasi in contemporanea, neanche la sala del teatro
fosse diventata una cerchia di anime infernali.
Inferno e Paradiso.
Essere e non essere. Si mosse un poco, quasi a disagio, frugando nel taschino
della giacca per estrarre un vecchio orologio. Il sole del mezzogiorno era alto
e incise un fastidioso riflesso bianco sul vetro del quadrante. Aveva deciso di
lasciare Londra e tornarsene a Finnsbury per un periodo, là dove abitavano i
suoi genitori. Era un villaggio piacevole, lontano dalle fabbriche, dal viavai
delle carrozze e dagli interessi dei gran signori.
Una mano si posò sulla
sua spalla tanto improvvisamente da farlo sobbalzare. Fu quando si girò e vide un
volto amico che sul suo viso si allungò un sorriso in bilico fra imbarazzo e
sollievo.
«Padre Wilfred.»
«Goldwine. Il vostro bagaglio è tanto comodo da farvi evitare la panchine?»
C’era qualcosa di
ironico, in quella domanda. Cecil vi spese un sospiro divertito mentre si
alzava. Qualche giorno prima lo aveva informato della sua partenza. Sarebbe
stato bello poterlo salutare, aveva detto. Effettivamente il suo confessore la
pensava allo stesso modo.
«Veramente, padre, avevo avvisato anche il signor Barrymore, ma
vedo che non è con voi.»
«Si tratta di una di quelle persone che si capiscono con un colpo
d’occhio. Vi è grato per la collaborazione nel caso Sullivan, ma non lo ammetterà.
L’ha affermato lui stesso quando sono passato a casa sua per commentare
l’articolo in cui si parlava del suicidio di Moore. “Prima d’ora non avevo mai
sentito di un prete e di un poeta che si fossero improvvisati Holmes e Watson.
Pertanto non sono disposto a credere che ciò sia successo”. Ha detto proprio
così.»
Cecil si strinse nelle spalle con un sorriso a labbra strette.
Volgendo uno sguardo in lontananza, lungo i binari, scorse le luci del treno in
arrivo. Due signore e un giovanotto che erano seduti sulle panchine
cominciarono a raccogliere le loro cose.
«Stavo ripensando al teschio», disse, a nessuno in particolare. «È
poi innegabile che ognuno ne ha uno in mano. Come Amleto, credo. E ci parla, ci
parla giorno e notte, coscientemente e non, mentre lui ti guarda e tu cerchi di
capire se dentro le sue orbite vuote ci sia o meno la ragione della tua
esistenza. È questo un gioco di sguardi che dura tutta la vita. Penso che quel
ragazzo sia esistito più come Marcel Redmayne che come Peter Moore. Penso che
le sue domande si siano fermate quando ha visto suo padre morire, e che da allora
ha smesso di chiedere, di pretendere spiegazioni, di conoscersi. Davanti al suo
teschio non è cresciuto, è sempre rimasto un bambino raggomitolato nell’angolo
di un armadio. Così è morto in uno spazio buio e angusto, dietro una beffarda
trama a griglia.»
«Non dovete farvene una colpa, Goldwine. Sono
dell’idea che l’avrebbe fatto anche se voi aveste terminato di scrivere quel
che voleva leggere.»
I freni del treni
fischiarono con prepotenza. Erano piuttosto lontani dai binari, ma il
penetrante odore di ferro, vapore e calore si spinse fino a loro.
«Quella di cui vi occupate è una grande forma di espressione»,
riprese padre Wilfred non appena il rumore calò di tono, «ma non credo avrebbe
salvato Moore dai suoi propositi. Penso si tratti di psicologia. Ci sono cose
che l’arte non può cambiare.»
«Questa è la parte in cui mi dite che dove l’arte non riesce,
interviene Dio?» Goldwine, notando che il sacerdote aveva colto e apprezzato il
velo d’ironia con cui aveva posto la domanda, sventagliò la mano in un gesto
leggero, sorridendo appena. «Non fa nulla, lasciate stare.»
Si chinò per raccogliere il bagaglio e se lo caricò su una spalla.
Dovette impegnarsi un poco, dedusse Wilfred, dal momento che le sue braccia
erano sottili ed eleganti. Si avviarono entrambi verso il treno, che nel
frattempo si era fermato sbottando nervosamente come un vecchio viaggiatore. Da
uno dei vagoni era saltato sulla banchina un controllore, fischietto al collo e
cappellino rigido in testa. Si fece avanti al piccolo trotto per aiutare le due
signore con i bagagli.
«Lo zio di Moore ha ucciso il fratello per denaro», disse a quel
punto Cecil, muovendosi con passo tranquillo. «Moore ha fatto lo stesso, almeno
in chiave simbolica, con Sullivan. Non ha agito per crudeltà, padre; si è
espresso per volontà del trauma.»
«Purtroppo questo ha fatto di lui un ragazzo che ha tolto la vita
ad un innocente.» Padre Wilfred si fermò al suo fianco, davanti alla porta di
uno dei vagoni. «Questa è la lettura che riesce più facile alla giustizia
umana. Ma quella divina, Goldwine... quella divina saprà salvarlo. Il desiderio
per il denaro è destinato è diventare uno spietato modello di vampirismo, in
futuro più che mai; per denaro, fratello toglie a fratello e amico toglie ad
amico. È sempre stato così e ora, alle porte di questo tanto atteso Novecento,
si aggirano già i vampiri del nuovo secolo.»
«Come sempre, padre, le vostre parole sanno di profezia», se ne
uscì il ragazzo, con un sorriso a suo modo divertito. Gli tese la mano, gli
occhi leggermente stretti per via del sole che, riflettendosi sul treno, gli
pizzicava fastidiosamente le pupille. «Arrivederci, dunque. Conto di tornare,
quando me la sentirò. Portate un saluto alla vostra bella St. Jerome.»
Il sacerdote accettò la stretta di buon grado, avvolgendo le dita
forti attorno a quel palmo così giovane e leggero. «Possa Dio seguirvi, Cecil.
Sarete sempre il benvenuto.»
Le labbra di Cecil Goldwine si sollevarono per metà, complice un
involontario istinto d’affetto e gratitudine. Salì sul vagone poco dopo avergli
lasciato la mano e non si voltò quando, già accomodato accanto al finestrino,
sentì le porte richiudersi. Era un treno piuttosto piccolo, niente scomparti,
solo due file di sedili per ogni lato. Lasciò il bagaglio per terra, in un
angolo, prima di togliersi il cappello e poggiarselo in grembo, sistemando la
nuca sul poggiatesta. Seduto a quel modo, il pomo d’Adamo disegnava un profilo
spigoloso e insolito sul suo collo snello. Aveva già recuperato il biglietto,
ma dubitava che il controllore sarebbe passato prima di venti o trenta minuti
di viaggio.
Davanti a lui, accanto a quella che poteva essere sua madre, sedeva
un bambino di forse cinque, sei anni. Se ne rese davvero conto solo quando il
treno si mosse, scivolando sui binari con la dolcezza di un’amante prima di
buttare nell’aria un appassionato soffio di vapore. Era rimasto a guardarlo per
un momento, con l’attenzione estatica di ogni bimbo, come se in lui avesse
riconosciuto qualcuno. Le sue piccole gambe ciondolavano teneramente dal sedile
e le sue labbra erano schiuse in un’espressione di infantile ingenuità.
«Ciao», gli disse.
Goldwine gli sorrise con paziente benevolenza. Si sentiva
improvvisamente stanco. Stanco e sollevato. «Ciao, piccolo.» Quasi sentì la sua
stessa voce come un mormorio.
Dio riporta tutte le cose al loro ordine naturale, aveva detto
padre Wilfred. E Barrymore, caro, brusco Barrymore, aveva annunciato a Cecil
che effettivamente qualcuno che portava il nome del suo amico c’era davvero. Ebbene,
quel bambino che sedeva su quel treno al suo posto era eccome. Ce l’aveva
piazzato Dio, o la scienza, o l’arte.
Il suo nome era Marcel Redmayne.
* * *