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Autore: SagaFrirry    01/03/2015    1 recensioni
Seguito di un'altra storia pubblicata in precedenza (Risveglio). Sono passati degli anni e molte cose sono cambiate al santuario. Questa volta i cavalieri si ritroveranno faccia a faccia con l'origine di ogni cosa: il Caos. come si rapporteranno con la sua progenie? e quante volte può morire un cavaliere?
chiedo perdono per i risvolti deprimenti. io sono una persona fondamentalmente depressa ;)
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cancer DeathMask, Gemini Saga, Nuovo Personaggio, Thanatos, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Risveglio'
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I

FIAMME NERE

 

“Non retrocedete!” gridò Phobos.

Si portò una mano al viso, pulendosi dalla polvere della battaglia. Circondato dai compagni, non riusciva ad udire la voce del suo padrone. Non riusciva più a scorgerlo. Probabilmente si era lanciato in prima linea, pronto ad affrontare il nemico invasore. Lo sperava.

“Dov’è il sommo Ares?” chiese un’amazzone, tenendo buono a fatica il suo cavallo.

“Non preoccuparti per lui, pensa a combattere!” la sgridò Phobos, cercando di capirci qualcosa.

Quell’attacco, mosso all’improvviso, aveva colto molti di sorpresa. E di nuovo lì, a difendere il tempio di Athena. E perché?  Phobos si chiedeva perché il suo signore ancora difendesse quel luogo, invece di ritirarsi nel suo palazzo in tracia e staccarsi dal passato. Sospirò, rispondendosi da solo. Il legame fra il suo capo e colui che considerava un fratello, Saga, non accennava a smorzarsi. Nonostante tentassero in ogni modo di separarsi, odiando pure Arles quel luogo d’infanzia e di errori, finivano sempre col cercarsi. Per sostenersi o ammonirsi.

“Perché vi fermate?” gridò ancora Phobos “Non abbiate timore alcuno del nemico, o vi distruggerà!”.

Accompagnò le sue parole con un potente colpo fiammeggiante. La sua luce rossa attraversò quelle ombre nere e le dissolse. Ma dietro di loro già ne avanzavano delle altre.

 

Il buio improvviso oscurò il tempio delle vestali. Le donne, spaventate, si guardarono attorno senza capire.

“State calme” parlò loro, dolcemente, Ninive.

Ora era lei a capo di quelle fanciulle, data la decisione di Hestia di sposare Saga e lasciare quel luogo. Ninive aveva accettato l’incarico senza timore o ripensamento alcuno, nonostante questo significasse rinunciare definitivamente a quella che poteva essere una vita con Arles ed i suoi figli. La decisione aveva fatto alzare un coro di voci e pettegolezzi. Nessuno sapeva il perché di quella decisione tranne lei, che non voleva svelarlo. In quel momento, assieme alle sue consorelle, solo per un istante pensò a colui che combatteva là fuori e si mise a pregare. Tutte loro desideravano ardentemente la pace ma nessuno in quel Mondo pareva in grado di poterla mantenere. E il cielo si faceva sempre più nero…

 

“Torna subito indietro!” ringhiò Ares, nella testa del suo involucro Arles.

L’involucro non rispose, continuando a camminare. Vedeva il suo nemico, dritto davanti a sé, e si dirigeva convinto in quella direzione.

“Ti ho detto di fermarti! Sei del tutto scoperto, ti farai ammazzare!” insistette Ares.

“Ma chiudi quella cazzo di bocca!” sibilò Arles.

“Ma non vedi che stai facendo?! Se il nemico ti vede, sei morto! E mi serve questo tuo corpo, lo sai!”.

“Questo è il mio corpo e ci faccio quel che voglio”.

“Questo è il nostro corpo! Fermati!”.

Ares tentò di trattenere Arles, che per un istante si arrestò e gemette per protesta. Ma poi la volontà del mortale fu più forte, e riprese il suo cammino. Con indosso l’armatura del dio della guerra e nelle mani la sua scintillante spada, guardò negli occhi l’ombra nera che oscurava il sole. Il Caos, padre di Gaia, colei che era stata sigillata nell’ultima guerra, aveva perso il controllo e sfogava la sua rabbia su cavalieri e Dèi colpevoli. Dov’era quel verme che aveva rinchiuso la sua bambina? Dov’erano tutti quei moscerini inutili che lo avevano aiutato? Divinità inferiori, legate agli umani. Agli occhi del Caos, feccia e nulla più. E quella creatura minuscola che avanzava così decisa…che credeva di fare? Ghignò divertito. Arles rispose a quel ghigno, senza curarsi dei martellanti insulti del dio della guerra nella sua testa. Il Dio nemico pareva non subire alcun danno, nonostante gli attacchi di vari Dèi fra cui Zeus.

“Amico…” gridò Arles per farsi sentire dall’enorme divinità Caos “…vedo che entrambi abbiamo bisogno di sfogarci. Facciamo così: sbrighiamo la faccenda fra noi. Lascia perdere tutti questi qui, che combattono per noia e non vedono l’ora di smettere. Lotta con me, che ne ho bisogno”.

“Umano, tu sei pazzo” rispose Caos.

“Può essere” ammise Arles, seguito da un “confermo” da parte di Ares.

“Come speri tu di battermi, visto che nemmeno l’attacco congiunto dei tuoi compagni riesce a scalfirmi?” domandò il nero nemico, piegandosi leggermente in avanti.

“Io non spero di batterti. So di non poterlo fare”.

“E allora che vuoi? Suicidarti?”

“No, a tagliarmi le vene sto poco. Sento che tu attacchi per rabbia. Di questo posto non te ne frega un cazzo. Hai solo bisogno di sfogare la tua giusta rabbia. Io pure me ne frego di questo posto ed ho necessità di liberarmi di certe sensazioni. Perciò vorrei che tu combattessi contro di me. E me soltanto”.

“Ammiro il tuo coraggio”.

“La sua è stupidità” sbottò Ares, per qualche istante riprendendo il controllo.

Non ci riuscì a lungo. Arles socchiuse gli occhi e richiamò a sé tutta la sua energia.

 

“Ma che sta facendo?” si chiese Saga, vedendo Arles avanzare veloce verso il nemico “Si farà ammazzare!”.

“Ricorda che è il Dio della guerra” lo calmò Kanon “Sa quello che fa…di solito!”.

“Non sta seguendo una strategia. È scoperto!”.

“E tu non seguire l’esempio! Resta qui, che il nemico è uno di quelli cazzuti”.

“Arles! Cosa stai facendo, fratello?!” gridò Saga e Kanon gli tappò la bocca.

“Sono io tuo fratello!” sbottò “E smettila di cercare di attirare l’attenzione, idiota!”.

 

“Non hai nulla da perdere, greco?” riprese Caos.

“No” ammise Arles “Non sono figlio di nessuno e, anche se senti una voce chiamarmi ̎fratello ̎, non sono il fratello di nessuno. I miei figli sono grandi, la mia donna non vuole più vedermi. Non ho motivo di restare. Il mio sangue ribolle di rabbia e desolazione. Sono solo, eppure la mia anima ringhia. Ringhia perché vuole vivere e combattere”.

“Ammiro la tua anima. La mia è circondata da catene e sigilli e ormai prova solo rabbia”.

“Come posso placarla?”.

“Perché dovresti?”.

“Perché quella fanciulla che vedi laggiù è la mia bambina. Si chiama Ariadne e non voglio muoia oggi”.

“Tu non potrai mai fermarmi!”.

Caos, che per qualche istante era parso tranquillizzarsi, riesplose di furia ed espanse ulteriormente le sue dimensioni. Arles scattò in avanti, raccogliendo tutte le sue energie e roteando la grande spada del dio della guerra.

“War Blood” gridò, alzando la spada e lanciando il suo colpo.

Il rosso sangue del supremo colpo del dio della guerra colpì in pieno Caos. Trovandosi più vicino rispetto ai suoi compagni, riuscì ad arrecare un lieve danno al nemico, che si irritò parecchio e lo schiacciò in terra con due dita. Tenendolo al suolo, rise e si umettò le labbra. Quasi quasi poteva mangiarselo quel microbo. Arles si dimenò, riuscendo a liberare una mano. Scagliò un ulteriore colpo sulle dita che lo bloccavano e ritrovò la libertà.

“Sei proprio fastidioso!” commentò il Caos, trovando la cosa quasi divertente “Annienterò la tua anima”.

Arles ghignò di nuovo. La sua spada ed il suo cosmo erano pronti a colpire ancora. Saltò, accompagnato dai colpi di altre divinità, ed affondò la spada in quell’ombra che però non perse nemmeno una goccia di sangue. Venne ricacciato indietro e cadde. Si pulì la bocca dall’ikor divino che il nemico aveva fatto sgorgare e preparò un altro attacco. Ma si fermò. Sentiva qualcosa di strano dentro di sé. Partiva dal cuore e, ad ogni battito, pareva espandersi per le vene. Sì portò la mano sinistra al petto e subito anche in lei avvertì la stessa sensazione.

“La mia…anima?” gemette.

“Che succede?” domandò Ares, senza capire.

Percepiva l’involucro del suo mortale ospite perdere sintonia con la sua anima. Dal cuore, che lentamente Arles percepiva sempre più pesante e freddo, si espandeva un dolore che scorreva poi nelle vene. Il muscolo pulsante divenne nebbia e poi si contrasse. Come una supernova, si contrasse e poi esplose, divenendo fiamma nera. Arles gridò. La sua anima bruciava e così anche il suo corpo. Lingue di fiamme nere iniziarono a consumarne le carni e le ossa. Ares lottò disperatamente per arrestare il processo ma non ci riuscì. Il suo involucro mortale non era più in grado di ospitarlo e dovette abbandonarlo, senza poter far altro. Rimase a guardare Arles che si consumava, fra le grida. Perché il suo cuore non cedeva? Perché non cessava di battere, permettendogli di morire? Il Caos si chiedeva la stessa cosa, vedendo quel misero essere contorcersi.

“Il tuo animo è forte, creatura. Non me l’aspettavo” commentò il nemico.

Arles non poté controbattere, perché ormai le fiamme ne stavano avvolgendo il viso. Poi, finalmente, corpo ed anima si arresero e cessò di vivere. Ares lo capì e d’istinto, tentò di vendicare il suo prezioso involucro. Sapeva di non poter fare molto ma era pur sempre il Dio della guerra! Fece per attaccare quando una luce abbagliante lo fermò.

“Tornatene da dove sei venuto, creatura della notte!” tuonò una voce, che arrestò ogni movimento.

Lentamente, apparve. Ahriman, Dio del cielo, magnifico e avvolto da luce e ardente cosmo, si mostrò. Fra le nubi, con le ali spalancate, fra le mani stringeva lo scettro simbolo del suo potere così come sul capo indossava la corona.

“Urano. Nipote mio. Come stai?” domandò Caos, per nulla impressionato da quell’entrata in scena.

“Starei molto meglio senza vederti” rispose Ahriman, con la voce del Dio del cielo.

“Svolazza altrove!”.

“Evapora!”.

Ahriman alzò lo scettro ad astrolabio e questi brillò, scagliando una fascia di luce contro il Caos. Questi si raggomitolò leggermente.

“Ti ricordo, Caos, che sei stato sigillato, millenni orsono. Non ti è concesso uscire dal tuo palazzo nero, pena la morte. Sai bene che devi rientrare immediatamente, oppure ti dissolverai. E so che non è quello che vuoi”.

“Cosa ne sai tu di quel che voglio? Ho perso la mia bambina!”.

“Io, pochi secondi fa, mio padre. Eppure sto qua, fermo, e non sfogo la mia collera a casaccio contro di te. Anche se potrei. Ti invito, anzi, a tornartene a casa prima che il sigillo faccia effetto”.

Per qualche attimo i due si fissarono. Il Caos espanse la sua ombra, andando ad accarezzare per un istante tutto il grande tempio. Poi si ritrasse e svanì.

 

Era sceso uno strano silenzio. Ahriman atterrò dolcemente, con un singolo battito d’ali. Da tempo non si mostrava, dall’ultima guerra in cui era divenuto Dio del cielo.

“È tutto finito” parlò, dopo qualche istante di silenzio “Potete tornare a casa”.

Ma nessuno si mosse. Alcuni feriti si accasciarono, stanchi. Nessuno di loro era in gravi condizioni. Il nemico si era limitato a rispedire indietro i colpi degli avversari.

“Fratello…” mormorò Saga, rimanendo immobile con lo scettro di Athena fra le mani.

Kanon fece una smorfia. Non sopportava sentir chiamare Arles “fratello”.

“Su, zio, non essere triste” quasi sorrise Ariadne “C’è Ahriman  qui. Sono certa che lui ha la soluzione”.

“Sorellina, per quanto io sia potente, non posso riportare in vita un corpo distrutto. Non è rimasto nulla di lui”.

“E la sua anima?”.

“Come quella di Ares, sono certo che ha già una sua sistemazione”.

“Quindi mi stai dicendo che tu, Dio supremo del cielo, non puoi fare niente?”.

“Non posso competere con il volere del Caos”.

“Ma…quindi…papà è…”.

“Non piangere” parve sfottere Ahriman “Non ci ha cresciuti. Potevamo anche vivere senza mai venire a conoscenza della sua vera identità”.

“Ma stai parlando di Arles, nostro padre. Come puoi…”

Ahriman alzò una mano. Non voleva sentire altro. Vivendo solitario nel grande palazzo del cielo, iniziava ormai ad avere dentro sé quella fredda indifferenza tipica delle divinità. Riprese il volo, lasciando alla sorella solo una delle sue piume fra le mani.

“Re Ahriman” chiamò qualcuno.

Altri invocarono il nome di Arles, senza capire bene l’accaduto. Non era rimasto nulla del cavaliere, se non un segno lievemente bruciato d’erba e qualche goccia di ikor. L’anima di Ares non c’era più e questo spaventava Phobos.

Era rimasto di nuovo solo! Solo, senza un padrone ed un signore da seguire. Che fosse segno, con la morte del Dio della guerra, che finalmente era giunto un tempo di pace? Che l’alba di un mondo senza conflitti potesse avere inizio?

“Pura utopia” si disse, subito.

Ora era lui a capo delle truppe di Ares e lo avrebbe atteso. Sapeva che sarebbe tornato e fino a quel momento lo avrebbe aspettato e venerato come in vita. E il Caos l’avrebbe pagata cara.

“Placa il tuo animo” suggerì Hypnos, che aveva combattuto negli eserciti di Hades in quello scontro “Il Caos non è creatura che si può vincere. Io lo so bene. Ho vissuto al suo fianco, assieme al resto della mia famiglia, a lungo. Poi, quando si combatté la battaglia in cui furono posti i suoi sigilli, io e Thanatos fummo assoldati da Hades ed ora dimoriamo nei campi elisi”.

“Ma se è sigillato…perché è apparso?”

“È una creatura troppo potente. Non la si può rinchiudere in una giara o in una scatola. Tutte le divinità alleate con Zeus, i suoi fratelli ed i vari discendenti, sono riuscite a creare un blocco. Ma questo non è sufficiente a trattenerlo nel suo palazzo. Specie se mosso da rabbia cieca come prima”.

“E allora questi blocchi a che servono?”.

“Non può più creare, così da evitare che generi cose al di fuori dell’ordine del Mondo. Non può più avere figli, né lui né gli altri abitanti della sua casa nera. E non può uscire dal palazzo se non per un periodo limitato. Inoltre, i suoi poteri sono stati notevolmente diminuiti. Fosse stato potente come alla notte dei tempi, con quell’attacco d’ira avrebbe distrutto l’universo”.

Phobos non disse altro. Vide le divinità rientrare nelle loro case, tranne Saga. Questi riuscì solo in seguito a tornare alla sua dimora, impietrito da un senso di vuoto assoluto che non aveva mai provato prima.

   
 
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